Sabato, 07 Maggio 2016 00:00

La sinistra mette tristezza?

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Qual è il rapporto tra potere e comunicazione? Ne hanno discusso sabato 16 aprile presso il Circolo Arci di San Niccolò, Dmitrij Palagi (segretario PRC Firenze), Elisa Battistini, giornalista e critica cinematografica, Sara Nocentini, già assessora alla Cultura della Regione Toscana, Valentina Bazzarin, ricercatrice di scienze politiche presso l’Università di Bologna e Leonardo Croatto (FLC-CGIL Firenze) durante l’iniziativa dal titolo “La sinistra mette tristezza?”, ripreso da una citazione di Stefano Benni.

Palagi che coordinava l’iniziativa ha esordito con una approfondita relazione (che purtroppo non sono in grado di riportare in tutti i suoi interessanti dettagli), ricca di citazioni e di spunti di riflessione. L’iniziativa è nata dall’interesse per le questioni, appunto, di comunicazione e potere e per il rapporto che le lega. Non si può infatti pensare di poter affrontare le dinamiche e le strutture del presente senza avere in mente l’evoluzione dei mezzi di comunicazione (dalle prime forme di retorica e di rappresentazione teatrale, all’avvento della radio, del cinema, della televisione fino ad arrivare a internet e all’ultima tecnologia dei giorni nostri), concentrandosi invece esclusivamente sull’elemento di novità, molto accentuato anche nelle campagne elettorali (soprattutto del Pd). 

La sinistra è oggi associata a qualcosa di nostalgico, come se non fosse più valida per le categorie della realtà attuale. Lo spirito è un po’questo: “come era bella la sinistra di anni fa, ma oggi non è più valida” né capace di dare una lettura della realtà che non risulti anacronistica, né di agire più efficacemente su di essa. Ad esempio, si può ancora parlare di categorie di classe? Se posso permettermi di aggiungere una digressione, già Pasolini parlava di interclassismo che è andato a sostituire le classi, omologandole in un calderone anonimo in cui ogni membro di una determinata classe non si distingue più dai membri di un’altra: “gli uomini sono sempre stati conformisti e il più possibile uguali l’uno all’altro, ma secondo la loro classe sociale […]. Oggi invece gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all’altro secondo un codice interclassista […] almeno potenzialmente, nell’ansiosa volontà di conformarsi1. Questo è accaduto, secondo lo scrittore, perché “un nuovo potere violento e totalitario”2 basato su un’ideologia edonistica e del consumo più selvaggio e su un bombardamento, anch’esso ideologico, televisivo che “ha manipolato e radicalmente (antropologicamente) mutato le grandi masse contadine e operaie italiane [entrando] nel più profondo delle coscienze. Dunque, sotto le scelte coscienti, c’è una scelta coatta, «ormai comune a tutti gli italiani»: la quale ultima non può che deformare le prime”3.

E ancora, ha senso parlare di lotta di classe? È ancora valida la lettura dei rapporti economici come metro di lettura della realtà? Sono tutte questioni che la sinistra deve porsi in maniera serie e il più possibile adeguata al contesto attuale e ai mutamenti di questo contesto. L’immagine che oggi può evocare la sinistra, continua Palagi, è un po’quella di Tafazzi, il personaggio interpretato da Giovanni Poretti (componente del trio Aldo,Giovanni e Giacomo), la cui caratteristica è il masochismo iperbolico: Tafazzi infatti in calzamaglia nera, saltella colpendosi l’inguine con una bottiglia di plastica e traendo evidentemente piacere da tale “auto-tortura”. Al contempo può anche venire alla mente una battuta tratta da una scena (ambientata in piscina) de “Il caimano” di Nanni Moretti in cui un tedesco parla dell’”Italietta” berlusconiana e addita gli italiani come ridicoli: “siete così buffi […] siete un popolo a metà tra orrore e folklore […] siete proprio abituati alle vostre schifezze, ogni volta che si pensa che abbiate toccato il fondo, siete ancora lì a scavare, a scavare...”.

Il titolo, come dicevamo, è tratto da un’intervista del ’96, fatta a Stefano Benni da Curzio Maltese per Repubblica. A un certo punto Benni alla domanda dell’interlocutore usa proprio queste parole: “Sì, questa sinistra mi mette tristezza […]. Non capisco questa corsa al Grande Centro che poi è un centrino da tavola, con due o tre ideuzze ben apparecchiate. Non capisco questo mimetizzarsi da camaleonti dentro una politica che non si interessa più della polis, della comunità, ma solo della lotta per il denaro e per il potere. Tanto che bisognerebbe cambiarle il nome, invece di Politica che so, Lucratica, Imperiotica. Sono stufo di sentirli parlare soltanto di Borsa e cambi. Di vederli copiare l’avversario, alla rincorsa dell’immagine. Berlusconi veste i suoi da ginnasti dell’Ottocento e li porta alle Bermuda? D’Alema convoca i vip in convento. Dov’è la differenza?”alla domanda, immediata, su dove stia allora la differenza tra destra e sinistra, Benni rispondeva così: “Nella fatica di pensare, credevo almeno. Stare a sinistra ti costringe a farti venire qualche idea, ad avere immaginazione. La destra se l' è sempre cavata con quattro fesserie, Legge e Ordine, Dio patria e famiglia, un milione di posti di lavoro...". E la sinistra non vuole più faticare? "Né pensare. Diciamo che il Cavaliere ha perso, ma alcune sue idee, e non delle migliori, hanno penetrato profondamente le file nemiche". E quali sarebbero le idee berlusconiane vincenti a sinistra? "Tante. Il culto dell'immagine, la teledipendenza, la politica come marchio'. Sta ossessione del simbolo e del nome, che noia […]. Ma l' idea peggiore è questa del Paese-azienda, che ormai la sinistra ha abbracciato. Ciò che la politica divide, il bugdet unisce".

Queste considerazioni di Benni richiamano l’idea di una totale sovrapposizione tra politica e potere, tematica centrale anche in un film francese del 2013, “Il ministro- L’esercizio dello stato”, diretto da Pierre Schoeller e interpretato (magistralmente) da Olivier Gourmet (nella parte del ministro) e, tra gli altri, Michel Blanc, nella parte – fondamentale – del capo di Gabinetto. Il film inizia con una scena onirica, di un taglio surreale in totale contrapposizione al finissimo e quasi brutale realismo di tutto il resto del film: si vede una donna completamente nuda che si lascia inglobare (più che inghiottire) dalle fauci di un enorme coccodrillo. Una scena simile potrebbe immediatamente evocare un simbolismo fin troppo semplice: l’immagine del coccodrillo che “risucchia” la donna rappresenterebbe la voracità fagocitante del potere. In realtà non va cercata alcuna allegoria in questo sogno. La giovane donna è mera creatura del desiderio, non incarna nulla se non semplicemente se stessa, e nemmeno il coccodrillo va pensato come emblema di ambizione famelica così tante volte evocata al cinema. Il film è una rappresentazione neutra, quasi didascalica, iperrealistica delle dinamiche di potere, senza però gettare giudizi valoriali su coloro che incarnano questo potere. Per un’ora e mezza di film ci dimentichiamo tutta la questione di destra e sinistra, e guardiamo il potere nelle sue dinamiche, nelle sue facce molteplici, nei suoi giochi di compromesso, nelle sue strategie, nei suoi rituali, nelle sue mosse. Semmai, ciò che emerge in questa quasi asettica messa in scena del potere in se stesso e per se stesso, è al contempo, l’impotenza del ministro, che come quasi tutti gli altri, diventa pedina di un gioco che non è lui a guidare né a gestire. Sono tutti personaggi che sì, incarnano il potere, ma sono agiti da esso. Più che esercitare il potere è il potere che si esercita su di loro, tanto che il genitivo del titolo potrebbe essere un genitivo sia soggettivo che oggettivo: l’esercizio dello Stato nel senso che lo Stato è il soggetto di questo esercizio e l’esercizio che ha come oggetto lo Stato, inteso come potere più che come Stato in senso tradizionale. Nel film la classe politica risulta rassegnata a una semi-impotenza. Quasi sembra che in alcuni momenti essa (o comunque alcuni suoi rappresentanti) voglia fuggire dall’esercizio del potere, dall’esercizio dello Stato che è qualcosa d quasi trascendente, che oltrepassa i suoi stessi rappresentanti, i quali ne fanno parte, lo esprimono ma non lo controllano. Sono come agiti da dinamiche, meccanismi, strategie di una macchina oliata alla perfezione, che funziona quasi da sola, indipendentemente dalle singole individualità di chi la incarna di volta in volta. Ministri, segretari etc. sono appunto solo la faccia di questa macchina, di questo potere, di questo gioco che se da una parte fornisce adrenalina, dall’altra scollega l’individuo da se stesso, risucchiato dentro velocità e ritmi innaturali, velocità delle risposte che esso è portato a dare, nell’immediato, a qualsiasi stimolo riceva dall’esterno.

Altra tematica del film, che si intreccia visceralmente al tema del potere (e alla sua rappresentazione, in questo caso cinematografica ma che appunto risulta perfettamente realistica e convincente), è quella dello storytelling, nel senso di narrazione politica, che in Francia è al centro del dibattito attuale. In generale però il rapporto tra potere e narrazione (o appunto, tra potere e storytelling) non è molto affrontato a livello di dibattito politico, mentre è tenuto ben presente negli ambienti accademici o pubblicistici. Forse la mancanza di tale tematica nell’ambito del confronto e della riflessione politica deriva anche da una sorta di pregiudizio legato alla comunicazione: al popolo puoi chiedere solo il voto, non deve esserci altro tipo di comunicazione, se non appunto quella strategica che mira al consenso elettorale.

Interessante a proposito di questa relazione tra potere e narrazione, il contrasto di vedute tra Christian Salmon e Wu Ming. Uno dei libri del primo, intitolato per l’appunto “Storytelling. La fabbrica delle storie” (del 2008) ha riscontrato accese critiche da parte dei secondi che lo hanno denigrato in maniera piuttosto pesante. Secondo Salmon l’“arte di raccontare” è stata fondamentale strumento per la costruzione e la condivisione di valori sociali e di idee, ma a partire dagli anni ’90 del Novecento questa capacità narrativa è stata fortemente modificata e snaturata dai meccanismi dell’industria dei media e del capitalismo globale condensandosi nel concetto di storytelling. Quest’ultimo è considerato dall’autore come una pericolosa arma di persuasione e convincimento delle masse detenuta dai rappresentanti dei sistemi di marketing, management e di comunicazione politica, funzionale a plasmare le coscienze dei cittadini, ridotti a meri consumatori. Secondo Salmon è avvenuto cioè un totale svuotamento dei poteri rappresentativi, degli organismi istituzionali, degli organismi di Stato, manovrati dalle strategie comunicative di marketing e di ricerca del consenso. Dietro le maggiori campagne sia pubblicitarie che elettorali si nascondono e strisciano operando in assordante silenzio (si sa che ci sono ma non si vedono), le più sofisticate strategie di storytelling, che non è più, nell’ottica di Salmon un’“arte del narrare”, ma una strategia del sistema capitalistico per irretire, prender con l’inganno, persuadere. Secondo i Wu Ming “Salmon descriveva un grande e maligno complotto finalizzato a imporre un Nuovo Ordine Narrativo (NON) per mezzo di un’arma di distrazione di massa chiamata – appunto –storytelling. In inglese il vocabolo non designa altro che l’atto basilare e primevo di raccontare storie, ma nella neolingua salmoniana si zavorrava di connotazioni sinistre: raccontare equivaleva tout court a ingannare, abbindolare, irretire, manipolare; le storie erano strumenti del dominio capitalistico in mano a pubblicitari e markettari; lo storytelling era il male4. E ancora: “Lo scrittore francese Christian Salmon – nel suo saggio Storytelling […] – ha trovato un nome accattivante per questa febbre di racconto. L’ha chiamata nuovo ordine narrativo, evocando l’immagine di una macchina per plasmare le coscienze, catturare le emozioni, incitare al consumo. Una macchina che è diventata la struttura portante, il motore stesso del capitalismo5. Ciò che i Wu Ming contestano in particolare di un’analisi di questo tipo è che da sempre la narrazione o l’immaginazione sono legate al potere, “da sempre”, essi dicono, riprendendo Paul Veyne che ribaltava lo slogan del sessantotto parigino, “l’immaginazione è al potere”. Da sempre il potere si è servito delle storie e della narrazione: “Anche il faraone aveva scribi e sacerdoti incaricati di cantarlo come Dio in persona. Anche nell’Antico Egitto si mescolavano le carte, confondendo religione, biografia, politica e mito. Martirologi, vite di santi, eziologie e genealogie hanno continuato a fare lo stesso lavoro per centinaia di anni. Benito Mussolini sosteneva che la cinematografia è l’arma più forte […]. Non c’è mai stata un’età del mondo in cui la comunicazione fosse sganciata dal racconto e dalle mitologie depositate nel linguaggio […], e non esiste un discorso logico-razionale puro6.

Non è dunque sorprendente, sostengono Wu Ming, che il potere sa sempre si sia appoggiato e continui ad appoggiarsi a miti e racconti e da sempre ha bisogno di scenari mitologici e narrazioni. Noi stessi abbiamo bisogno di storie e narrazioni per capire la realtà e capire chi siamo. Nella prefazione a “Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra” di Yves Citton, Wu Ming 1 riprende questo concetto: “Mitocrazia  non partecipa di quest’equivoco. È un libro spinoziano fino al midollo, quindi ha tutti gli anticorpi per non ammalarsi d’apocalisse e passioni tristi. Di più: Yves Citton prende – seppure amabilmente – per i fondelli l’approccio di Salmon e dei suoi epigoni […]”7. L’enfasi cade però anche o soprattutto sul sottotitolo del libro, in particolare sull’ “immaginario di sinistra”. Dando per scontato che viviamo in un momento storico in cui la comunicazione e l’immagine, soprattutto mediatica (immagini televisive, multimediali, digitali..), hanno egemonizzato lo spazio pubblico e invaso ogni dimensione sociale e politica del vivere, e ribadendo che il rapporto tra mito e politica è inestricabile (il mito diviene fondante della dimensione stessa del politico), secondo Wu Ming Citton “non si accontenta di denunciare, di gridare che il capitalismo ci rincretinisce raccontandoci storie seducenti, ma tiene sempre presente la dimensione «del fare»: come raccontare «da sinistra»? Come si svolge un racconto «di sinistra»? Cosa lo distingue dai racconti «di destra» che sentiamo ogni giorno?”8 Nella postfazione Enrico Manera scrive che “se da un lato è necessaria la critica di un modo di comunicare autoritario e ideologico, incantatorio e mitologico quale è la narrazione ‘di destra’, neoconservatrice e neoliberale, continua a mancare una narrazione nuova ed autentica che possa definirsi ‘di sinistra’ e che possa realizzare e attualizzare l’emancipazione e il riscatto per un’ampia comunità di soggetti, all’interno di un progetto di utopia9. Si assiste forse a uno smarrimento della sinistra, che non ha saputo ricreare un certo immaginario. Più che mettere tristezza, bisognerebbe perciò dire che la sinistra si è un po’persa e trasmette essa stessa questo suo disorientamento. I comunisti bene o male sono stati i primi a immaginare, pensare, provare a costruire “l’idea di un altro mondo possibile al di là del muro”; la sinistra è stata la prima ad aver costruito una narrazione alternativa a quella del capitalismo, che oggi è diventata l’unica narrazione ritenuta valida e possibile, nonostante tutte le sue contraddizioni e le sue faglie, che sono venute drammaticamente a galla e che continuano a venir fuori, in maniera sempre più forte ed evidente. Oggi però questa capacità di costruire una narrazione alternativa ed efficace sembra esser venuta meno, insieme anche a una certa difficoltà nel saper leggere la realtà, lo stato di cose. Citando Marx e Engels dell’ “Ideologia tedesca”, “chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, ma per poter incidere sullo stato di cose presente bisogna prima capire quale sia e la sinistra sembra essersi smarrita dal punto di vista della comprensione e della lettura efficace dello stato presente di cose e quindi rimane come paralizzata perché poco capace di agire su di esso, di incidere su di esso.

 

1 P. P. Pasolini, Scritti Corsari, Garzanti Editore, Milano 2000, pp. 54-55.
2 Ivi, p. 58
3 Ivi, pp. 57-58
4 www.carmillaonline.com
5 Ibidem
6 Ibidem
7 www.wumingfoundation.com
8 Ibidem
9 Ibidem

Ultima modifica il Venerdì, 06 Maggio 2016 23:21
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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