Protagonista è una coppia di omosessuali, di cui uno, Rudy Donatello – uno strepitoso Alan Cumming - si guadagna da vivere (sopravvivere) esibendosi come Drag Queen in un locale gay di West Hollywood – in California – ed è una persona frizzante, spregiudicata, genuina, pura, buona (ma non buonista) e soprattutto libera, dentro e fuori; l’altro, Paul Fleiger – interpretato da Garrett DIllahunt – più timido ma onesto, con alle spalle un divorzio, ha deciso di riscattare la precedente esistenza piuttosto arida e insoddisfacente prendendo una laurea in giurisprudenza in nome di un ideale di giustizia e con la speranza di contribuire a rendere il mondo migliore grazie alla nuova professione di avvocato. Tuttavia proprio a causa della propria affermata posizione, dell’ambiente lavorativo e di uno stile di vita più ordinario e “borghese”, sente maggiormente la minaccia dalla rete di pregiudizi che contamina il suo contesto di vita e di lavoro e che potrebbe investirlo ferocemente qualora rendesse pubblica la propria omosessualità. Ciò non gli impedisce di rimanere fortemente attratto, anzi, letteralmente folgorato, dalla personalità straordinaria ed esplosiva di Rudy e dal suo spirito totalmente libero e dalla sua mancanza di paura, soprattutto ad esser sé stesso. Così i due si innamorano quasi immediatamente e anche Paul comincia, grazie al contatto e alla trasparenza di Rudy a lasciarsi maggiormente andare ai propri sentimenti.
Il film però non è solo una bella storia d’amore, narrata con tinte tenere e delicate, e in alcuni momenti persino esilaranti. Infatti nella vita di Rudy irrompe Marco, bambino affetto dalla sindrome di down, che abita nell’appartamento adiacente – una topaia – la cui madre viene arrestata per possesso di droga. Rudy trova il grasso e tenero bambino completamente solo, stringe una bambola tra le mani e reclama ciambelle. L’uomo decide di rivolgersi allora a Paul, in quanto avvocato e dopo una prima reticenza i due decidono di far firmare alla madre i documenti per la custodia provvisoria fino al momento della sua scarcerazione. Paul fa venire a vivere nella sua ben più accogliente e confortevole casa il compagno e il “piccolo” Marco e diventano una famiglia perfetta. I due uomini si dimostrano genitori amorevoli, pieni di cure, di attenzioni, regalano a Marco il calore e l’affetto che sua madre non ha mai saputo né potuto dargli. Ogni sera Rudy racconta una storia al bambino, sempre a lieto fine, perché Marco vuole solo storie con i lieto fine e ogni suo sguardo ridente, il candore di ogni suo sorriso enorme e dolcemente buffo esprime tutto l’amore che a sua volta nutre per i nuovi due papà. Anche questa sembrerebbe, a tutta prima, una storia da lieto fine ma nell’America puritana e bigotta degli anni settanta non è così scontato il finale. Per lo meno non lieto. Il procuratore capo di Paul scopre il suo rapporto omosessuale con Rudy e, oltre a licenziare il giovane avvocato, fa portare Marco in un istituto adottivo. I due uomini non si arrendono e portano la cosa a processo. Nonostante varie testimonianze – della maestra di Marco, della signora dei servizi sociali, degli stessi Rudy e Paul, in veste di avvocato della difesa – attestino le cure amorevoli e il desiderio del bambino di voler rimanere con i due genitori, oltre che i suoi progressi nei rapporti di socialità, il giudice prende atto, che nonostante l’ineccepibilità del ruolo genitoriale dei due uomini, non può trascurare il fatto che le “loro abitudini sessuali e di vita possano influenzare negativamente Marco e sviarne l’identità sessuale”. Così il ragazzo viene di nuovo messo nella casa adottiva, completamente solo e desideroso di tornare da Rudy e Paul, che non accettando la sentenza, ben consapevoli dei bisogni del ragazzo e consci che difficilmente, eccetto loro, che lo amano con tutto il cuore, si sognerebbe di adottare un bambino cicciotto, mezzo ciecato e soprattutto affetto da sindrome di down, si rivolgono a un competente avvocato e ricorrono in appello. Ma le armi dei pregiudizi vengono sfoderate in maniera ancor più feroce e di nuovo l’omofobo procuratore – l’ex capo di Paul – fa in modo di concedere la libertà condizionale alla madre facendole firmare i documenti per il riaffidamento del figlio insieme ad un’istanza restrittiva che impedisca a Marco di vedere i due ex-papà.
A questo punto non resta da fare più niente, se non accettare dolorosamente che il loro amato figlioccio torni dalla legittima madre, di nuovo nella vecchia topaia. “Sei contento di tornare a casa, Marco?” chiede un uomo dei servizi sociali mentre lo accompagna al vecchio appartamento in cui viveva con la mamma. “Questa non è casa mia!” grida piangendo il ragazzo quando capisce che non è a casa di Paul che lo stanno conducendo. La madre però non ha certo perso i suoi vizi e una notte, in cui è strafatta e si accinge ad avere un rapporto sessuale ordina a Marco di uscire nel corridoio fin quando non lo richiamerà lei. Marco esce, con la sua bambola ben stretta tra le braccia, con i suoi enormi occhiali tondi e si incammina nelle strade di Los Angeles sperando di tornare alla sua vera casa, dai suoi veri –per quanto non naturali – genitori. Ma Marco non ha il senso dell’orientamento e camminerà per tre giorni, come un fantasma, trasparente e solo. Un trafiletto semi-invisibile su una pagina di giornale parla di un ragazzo down trovato morto sotto un ponte. Il finale non è quindi certo lieto, anzi è straziante, lancinante come una lama di fuoco: il film si conclude con una lettera molto toccante che Paul spedisce a tutti coloro che hanno ostacolato l’affidamento del ragazzo a due uomini che lo amavano, una lettera in cui spiega chi era veramente Marco, perché a nessuno, durante il processo né altrove si è dimostrato di volerlo realmente conoscere, puntando il dito solo sui gusti sessuali dei due uomini, sulle loro abitudini che niente avevano di sviante o lesivo per il bambino ma che a priori sono giudicate immorali e anormali. “Marco era un bambino allegro e intelligente, amava le ciambelle al cioccolato, adorava farsi raccontare ogni sera una favola a lieto fine, era il miglior ballerino del mondo”. Ma questo a nessuno interessava e se ne è andato nel silenzio più totale, ucciso dai pregiudizi e dall’intolleranza dei benpensanti, dei cosiddetti normali, di gente ordinaria e ipocrita, pronta a soffocare l’amore in nome di una falsa giustizia, che di giusto non ha niente e che nasconde solo paura e bieca intolleranza.
Ecco, questo film, commovente ma che riesce anche a raccontare con toni leggeri e poetici la dolce quotidianità di un amore e di una famiglia che sebbene atipica risulta totalmente normale, perché io credo che la cosiddetta “famiglia normale” sia quella capace di dare affetto, gioia, attenzioni, ai membri che ne fanno parte e poco importa se i due genitori siano un uomo e una donna o due uomini o due donne. L’amore è uno solo e non vi sono differenze che tengano se esso è sincero e incondizionato. Quando ancora oggi si discute di adozioni per coppie omosessuali e in molti sono pronti a scatenare una battaglia per ostacolare una legge che dovrebbe essere sacrosanta, si dimentica il soggetto principale: il bambino. È a lui che si deve pensare e occorre perciò come unica cosa giudicare se coloro che se ne prenderanno cura saranno in grado di dargli tutto l’affetto e le cure che merita. E chi è davvero in grado di poter affermare che due uomini o due donne non siano in grado di dare questo amore? In quale dna c’è scritto? Come dimostrare che i gusti sessuali di una persona comportino delle difficoltà ad amare e accudire efficacemente il proprio figlio? Si potrebbe dire, come il giudice del film, che il bambino potrebbe essere portato sulla “cattiva strada” e avere una crisi di identità sessuale. Ma qual è davvero la cattiva strada? È una cattiva strada la possibilità che diventi omosessuale – il che poi non è assolutamente detto né comprovabile, e anche fosse non c’è un’equivalenza omosessuale = infelice! - o piuttosto è peggiore una strada che risulterà sbandata, distruttiva, in cui magari il ragazzo si smarrisce, in cui si sente solo, in cui cade nella depressione, nella tossicodipendenza, o quella che lo fa diventare un violento, un razzista, un omofobo? E questo può accadere a qualsiasi ragazzo, e a volte, o anche spesso, in maniera del tutto indipendente dall’aver ricevuto o meno amore dalla famiglia, visto che poi il cammino è suo e i fattori condizionanti non dipenderanno più solo dal nido familiare, per quanto questo sia fondamentale nella sua crescita.
Ma ecco, le strade sbagliate, o comunque penose, tristi, sono queste, non l’imboccare la “via dell’omosessualità”, non lo scoprire di amare gli uomini o le donne. Si potrà ancora obiettare che i bambini di coppie omosessuali verrebbero presi in giro dal resto della società. A questo è più difficile rispondere. Certo, potrebbe darsi che i primi bambini verrebbero inizialmente meno accettati da altri bambini abituati a pensare ai genitori come a un babbo e a una mamma, o da persone molto chiuse o bigotte, fortemente cattoliche che riconoscono come unica famiglia quella naturale composta da persone di diverso sesso. Però dimentichiamo che ogni battaglia richiede del tempo prima di potersi affermare pienamente come conquista e ci vogliono, purtroppo, inizialmente, dei capri espiatori, per così dire. I primi bambini potranno avere problemi, ma pian piano diventerebbe normalità se una legge che permettesse le adozioni alle coppie omosessuali entrasse in vigore. Basi vedere quello che è accaduto alla Spagna, dove ormai una coppia omosessuale con bambini è all’ordine o quasi del giorno.
Certo, per i primi bambini si richiederà un compito ancor più difficile per i loro genitori, non solo stargli vicino il più possibile negli eventuali momenti di discriminazione o difficoltà, ma anche fargli capire che se li prendono in giro o li additano o cercano di convincerli che avere due padri o due madri non è una cosa normale né tantomeno naturale, ciò che non va non è in loro né nel sesso dei loro genitori, ma ciò che non va è in una parte di mondo che non accetta ciò che considera diverso perché lo teme. Che il problema non è un bambino cresciuto con l’amore di due genitori dello stesso sesso ma un mondo che discrimina e rifiuta questo amore, che lo nega. Che le difficoltà, probabilmente non le avrà quel bambino, ma un altro che verrà cresciuto con meno attenzioni e meno affetto, anche se magari ha avuto una famiglia etero che lo ha svezzato. Non credo che genitori voglia dire solo far nascere un figlio,ma crescerlo nel migliore dei modi che può esser possibile, con tutte le difficoltà e gli errori che inevitabilmente può compiere anche il genitore più bravo al mondo. E per far questo nulla contano i gusti sessuali. Oltretutto si dimentica anche il fatto che probabilmente oggi gran parte della società è molto più aperta ai diritti civili e se anche un’altra parte non lo è non importa, perché i diritti devono essere di tutti, piaccia o meno. Anche sull’aborto molti non erano d’accordo e probabilmente le prime donne non avranno avuto vita facile, ma se avessero prevalso l’intolleranza e il bigottismo oggi non sarebbe una pratica affermata e sentita come normale, sebbene purtroppo stiamo regredendo e andando nella direzione di togliere di nuovo quello che è un diritto acquisito, vanificando la lotta di moltissime donne che hanno combattuto anche per noi, perché potessimo usufruire di questo diritto che ci spetta. Un’altra obiezione, almeno in Italia, potrebbe essere quella di fare un passo alla volta, prima pensiamo a fare almeno i pacs o comunque a sancire definitivamente i diritti delle coppie di fatto e per il resto – matrimonio, adozione e reversibilità della pensione – si vedrà. Beh, certo, prima facciamo almeno questo piccolo passo in avanti – che è comunque il minimo, anche in confronto a ormai la maggior parte dei paesi occidentali, ultimi tra tutti gli Stati federali, anche quelli più conservatori, degli Stati Uniti – , ma questo doveroso passo deve essere il primo e non l’unico né l’ultimo, non deve diventare una giustificazione per togliere dall’agenda politica anche il diritto a poter crescere un bambino per le coppie che desiderino farlo. E a chi dice che non è una priorità, risponderei che i diritti, di qualsiasi tipo siano – etnici, sessuali, religiosi, del lavoro ecc.. – sono sempre una priorità e non esiste una bilancia su cui pesare quelli più importanti da quelli meno importanti. Perché non esiste una gerarchia, hanno tutti lo stesso peso, lo stesso valore e la stessa urgenza, che si tratti di discriminazioni per la pelle, per i gusti sessuali, per la fede o per altro. anzi, ancor più dei diritti lo sono quelle che Amartya Sen e Martha Nussbaum chiamavano capabilities, cioè non solo il diritto in sé ma l’effettiva capacità e possibilità di poter esercitare quel diritto.
Perciò spero che pian piano anche il nostro paese si renda conto che i Marco che ci sono, i mille bambini che hanno bisogno di cure a amore abbiano l’effettiva possibilità di trovarli in qualsiasi coppia di persone che si dimostrino di essere dei buoni genitori. Tutti potenzialmente possiamo essere dei buoni genitori, perché l’esserlo non è dato dalla scelta del sesso del partner, ma dall’educazione che si impartisce al figlio, dalla trasmissione di valori di tolleranza, rispetto per qualsiasi essere vivente, rispetto per la meravigliosa diversità e particolarità di ciascun individuo e per la sua dignità, amore per la giustizia con la G maiuscola, di lotta contro le discriminazioni e difesa per il debole e lo sfortunato, per l’emarginato che non ha difensori alcuno, di battaglia contro chi nega una pari dignità di esistenza, contro chi è prigioniero di preconcetti xenofobi, omofobi, contro chi rimane trincerato nella propria intolleranza ovattata, nel proprio dogmatismo arrogante o nel proprio cieco opportunismo, nella sua vigliacca ipocrisia, in definitiva, contro chi nega a qualsiasi altro essere umano la possibilità e la speranza di cercare la propria felicità. Questi valori li può tranquillamente trasmettere anche una coppia di omosessuali e il loro bambino, se questa coppia li saprà trasmettere, fintanto che riceverà il suo amore e una buona educazione avrà la possibilità di essere felice e amato. Poi la strada che prenderà il proprio figlio, nessuno, né i genitori adottivi, né quelli naturali, può indovinarla al cento per cento, per quanto possa cercare di fare il massimo perché segua una strada bella e serena. Ma in ogni caso che una strada sia giusta o sbagliata, buona o cattiva, felice o infelice, non è certo l’identità sessuale a determinarlo.