Una diversificazione che porta a parlare di più “culture comuniste” nel quadro mondiale: l’esperienza cinese, con il suo volontarismo di sapore ascetico avvalorato dal culto della collettività, l’esperienza occidentale segnata inequivocabilmente dai valori della rivoluzione francese, l’esperienza della rivoluzione russa, vero banco di prova di un’idealità fallita. L’Italia si trovava a essere erede di tutto ciò, laddove la rivoluzione d’ottobre, il modello di pianificazione economica durante la grande crisi in occidente, la vittoria sul nazi-fascismo avevano fornito l’arma giustificativa del successo dell’ideale sul piano storico. Sarà evidente poi come la realtà sovietica poco ebbe a che fare con le teorie di Marx e di Engels.
Tuttavia, un dato incontrovertibile permase all’interno della cultura comunista italiana: quello del “giacobinismo”. Il partito diventa il centro della vita politica. Esso si configura come sistema di promulgazione dell’etica pubblica, strumento per l’acquisizione del potere, volontà incarnata di operare sul piano istituzionale. Sarà solo il ‘68 a mettere sotto scacco le contraddizioni autoritarie e della forma partito e dell’esperienza sovietica richiamando di fatto quella prospettiva libertaria affermatasi proprio con la rivoluzione francese. Le forme di declinazione delle lotte, d’altronde, mutarono radicalmente ma i valori che le animavano riaffermarono il valore della libertà dell’individuo. Il quadro teorico in cui questi valori costitutivi del mondo occidentale si andarono riaffermando si scoprì essere quello autenticamente marxiano, sul piano squisitamente filosofico: non è un caso che l’autore faccia riferimento proprio ai Manoscritti economico-filosofici del ’44.
E dopo l’esperienza dei movimenti degli anni ’70, dopo la crisi del partito accentratore, dopo l’ideale terzomondista, anti-imperialista e anti-colonialista che sembrava essere rimasto l’unico denominatore comune di queste culture, arrivò la sfida democratica degli anni ’80. Non staremo a ricordare (cosa che Occhetto ben ripercorre) il ruolo e la funzione di Berlinguer in tal senso (come anche il tentativo di rinnovamento della stessa forma-partito, le sue nuove aperture verso i movimenti sociali, dall’ecologismo al femminismo).
Resta un punto che ritengo opportuno evidenziare: la differenza fra la prospettiva statalista e quella autenticamente marxiana della ‘socializzazione’ dei mezzi di produzione. Punto che accomunerebbe più di quanto si immagini culture comuniste sorte nel sud del mondo e dell’Europa. Riscoprire il pensiero di Marx nella sua autenticità significa anche riscoprirne la valenza antropologica (dal punto di vista della filosofia): socializzazione, allora, si riferisce non solo all’ambito economico, ma anche e soprattutto all’intero ambito dell’umano. Un modo di concepire i rapporti materiali e le formazioni mentali, un modo diverso di concepire la vita. Probabilmente il contro attacco neoliberista, dopo il tramonto del socialismo reale, ha portato a una sconfitta ancor più profonda: non v’è più contraddizione come pratica reale e concreta che non si limiti a una pura estetica del conflitto. Ma questo è già inoltrarsi entro un ulteriore dibattito.
Gli esiti della sinistra democratica italiana sono noti a tutti. Il neoliberismo, oggi, sembra averla definitivamente fagocitata. Tuttavia ciò non deve generare confusione rispetto al piano della finalità politica. Se il comunismo non si è realizzato, ciò non confuta necessariamente la teoria: a detta di numerosi esponenti dell’economia di mercato l’analisi marxiana della società capitalista continua a esser la più aderente. Esistono allora delle verità che hanno influenzato lo stesso mondo occidentale, verità che nessuno ha il diritto di ignorare. E sul ‘che fare?’ la discussione resta, ovviamente, inesorabilmente aperta.