Venerdì, 09 Giugno 2017 00:00

Di carcere e dignità

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Caso Riina: let's talk about... carceri!

La Cassazione ha dichiarato che "Totò Riina ha diritto a una morte dignitosa". Poche parole negli ultimi tempi sono state oggetto, come in questo caso, di riflessioni (e speculazioni talvolta) se ad un boss mafioso debba o meno essere concesso il diritto di morire in pace.

Ma il focus della riflessione in questo caso non va in questa direzione, dal momento che ci sono persone molto più qualificate per dare una risposta all'interrogativo di cui sopra. Mi pare però opportuno chiedersi perché non sia possibile coniugare il dovere di far rispettare la legge con quello (altrettanto stringente secondo me) di rispettare la persona umana, al di là dei crimini commessi. Anche perché tanti sono i Riina, le nostre carceri sono piene di detenuti, condannati per i più diversi reati.
Quindi, una volta risolto il caso del boss mafioso, è ragionevole pensare che la stessa situazione si presenterà per altri detenuti. Ritengo che la soluzione non possa essere "aprire le gabbie", perché verrebbe meno la certezza della pena (che già in Italia latita) e perché si correrebbe il rischio che un detenuto danaroso pagasse un medico "compiacente" per farsi rilasciare un certificato attestante malattia che necessita la scarcerazione.

È dunque necessario far sì che una persona condannata a una qualsiasi pena possa morire dignitosamente in carcere. Ciò si può ottenere solo facendo sì che le nostre patrie galere siano un luogo vivibile (e dunque "moribile"). Purtroppo sappiamo che ad oggi non è così: vedi da una parte il sovraffollamento, vedi dall'altra l'incapacità, secondo me organizzativa, di far funzionare le cose. Fatto sta che il nostro sistema penitenziario ha totalmente abdicato al ruolo di rieducazione che dovrebbe essergli proprio. Per non parlare del sentire comune del cittadino medio, il cui grido di battaglia è sempre più spesso 'gettate la chiave' (quando non invocano la pena di morte).

Va da sé che per ottenere questo risultato bisogna spendere: ci devono essere più persone che lavorino nelle carceri e che sostengano i detenuti nel loro percorso verso la riabilitazione. Ma non è solo un problema di numeri: ci vogliono persone motivate e formate per quel particolare mondo che andranno ad affrontare. Credo che un detenuto, qualunque sia il motivo per il quale si trova in carcere, non possa e non debba trascorrere le giornate a guardare il muro contando i giorni che lo separano dalla scarcerazione. No, deve prepararla questa scarcerazione, e il 'mondo carcerario' deve farlo con lui! Si deve assolutamente dare alla persona gli strumenti perché quello al secondino sia un "addio", non un "arrivederci". La prima cosa da fare è quindi lavorare sull'istruzione e la formazione di chi sta scontando una pena, di modo che al momento dell'uscita abbia gli strumenti per andare avanti e, soprattutto, non ricadere nei vecchi errori.

E non è vero che così facendo "si aiuta chi si comporta male" (altro pensiero comune del cittadino): in primis perché tutti hanno diritto a una seconda possibilità, ma anche perché se un ex carcerato non delinque più si è aiutato anche il Paese ad essere più sicuro. L'auspicio è che, una volta calato il sipario su Riina, resti acceso quello sulla questione carceraria e si lavori perché la galera non sia un mondo a parte, ma diventi parte del mondo, come il dado che, giocando al gioco dell'oca, ti dice "stai fermo un giro". Ma poi ricominci a giocare!

Ultima modifica il Giovedì, 08 Giugno 2017 22:23
Elena Papucci

Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l'Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell'Arci.

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