Se si va oltre il naturale sdegno per una frase così lontana dal politically correct ci rendiamo conto che la questione è molto più complessa e merita ben altro che la condanna seduta stante. Addirittura, per quanto riguarda l'italico mondo del lavoro, ci accorgiamo purtroppo che troppo spesso rappresenta una triste realtà. Certo, la colpa non è dei disabili, ma va ricercata nella mancata eliminazione di quegli ostacoli che rendono un portatore di handicap una "zavorra" sul posto di lavoro, o almeno fanno sì che non possa sfruttare appieno le sue capacità.
Nonostante la legge sul collocamento obbligatorio delle persone disabili sia maggiorenne (è stata emanata nel 1999) osserviamo che nel 2015 in Toscana soltanto il 3,9% dei portatori di handicap in età attiva svolgeva un'attività lavorativa. E il restante 96,1%? A casa! Sicuramente un danno, non solo di natura economica, per la persona, ma anche uno svantaggio per la collettività. Che cosa non funziona quindi in una legge nata con le migliori intenzioni per aiutare un portatore di handicap ad inserirsi nel mercato del lavoro, con l'effetto di diventare un soggetto attivo e capace di bastare a se stesso? L'unica conclusione possibile è che certe cose non si possono imporre per legge. Non sarà un'ingiunzione a convincere un datore di lavoro delle potenzialità di una persona il cui involucro spesso non è propriamente accattivante. O meglio, la legge può certamente aiutare, dando una mano economica a quelle aziende che aprono le loro porte a un portatore di handicap, aiutando ad esempio ad affrontare le spese necessarie a rendere il luogo di lavoro fruibile anche alla new entry "problematica".
Ma è vero che "non di soli soldi vive il lavoro": pur avendo abbattuto le barriere architettoniche e avendo messo il lavoratore nelle condizioni di soggiornare comodamente in ufficio, dobbiamo accertarci, e avere l'umiltà di ammettere, che la tipologia di lavoro in questione si adatti alla persona che abbiamo assunto. Non ha senso mettere un muto a dare informazioni... Non solo non offri alcun servizio alla persona, ma presti il fianco a giudizi negativi su di essa ed il suo operato, ma addirittura metti in difficoltà, o comunque in imbarazzo, il lavoratore: non è piacevole dover dire, sul posto di lavoro, "questa cosa non sono in grado di farla". Ed è qua che il meccanismo si inceppa: tornando all'esempio di cui sopra, ovvero il muto a dare informazioni, è facile immaginare una scena surreale: arriva la persona, fa la domanda, e il lavoratore sente e capisce benissimo cosa gli si sta chiedendo. Magari conosce la risposta ma... non è fisicamente in grado di darla! Certo, potrebbe scriverla su un bigliettino, ma si sa che al momento opportuno carta e penna ahimé rispondono "assente" all'appello. Ma poi, fondamentalmente, perché deve essere la persona a trovare degli éscamotage per lavorare? Non sarebbe più sensato adibirla ad un'altra mansione? Sicuramente sì!
Ed è qua che si palesa il maggior punto debole della legge di cui si sta parlando; come già detto è l'obbligatorietà di assunzione che rovina tutto. Ci vorrebbero delle maglie più larghe, che permettessero all'azienda di non assumere alcun disabile se non ne ha la possibilità, o semplicemente il suo staff è al completo è al completo, senza incorrere né in una multa né nella pubblica gogna. È ovvio, in un periodo di crisi come quello attuale non c'è da stupirsi se un portatore di handicap decide di accettare un lavoro purché sia, ma dobbiamo anche digerire che non per tutti possa valere lo stesso concetto. I disabili non sono tutti uguali: se la società non accetta questo teorema fondamentale non si potrà mai sperare di risolvere tutta una serie di problematiche. Intanto ci sono tipologie di handicap molto diverse tra loro, ognuna con le proprie caratteristiche e possibilità lavorative: un ragazzo su sedia a rotelle non potrà svolgere la stessa mansione di un non vedente. Perciò è necessario ammainare la bandiera del "sono tutti uguali" e studiare ogni singolo caso come un qualcosa a sé, da gestire come se fosse "l'unico al mondo". Non è essere cattivi, è essere giusti. Mettereste mai in amministrazione una persona che non sa neanche la tabellina del 7? Sicuramente no. E allora, perché pretendere che chi ha difficoltà di parola stia al pubblico?
Altra differenza fondamentale da accettare quanto prima è che anche due disabili uguali per patologia possano essere molto ma molto diversi dal punto di vista lavorativo: per ambizioni, storia di vita, storia scolastica eccetera. Perché ostinarsi a pensare "X fa questo lavoro, Y ha la stessa problematica, Y deve fare lo stesso lavoro"? Dobbiamo dare sia a X che a Y la possibilità di essere artefici del proprio destino. D'altronde lo dice anche il terzo articolo della Costituzione: "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". E qua casca l'asino! E qua tocca dare, se si guarda l'Italia dei nostri giorni, un po' ragione al politico inglese: i disabili in certi casi danneggiano, ob torto collo, la produttività. Ma la sfida da raccogliere qui ed ora è lo sfatare questo assunto: i disabili non devono, in quanto tali, essere un ostacolo alla produttività. Dobbiamo far sì che questo non accada, almeno non per colpa di terzi. Per far ciò dobbiamo impegnarci un po' di più di quanto faremmo con un normale lavoratore? D'altronde, come diceva Don Milani cinquant'anni fa, "non si possono fare parti uguali tra disuguali". E un disabile è diseguale, sia rispetto ai non disabili, sia rispetto ai suoi 'simili'. Quindi la parte che gli spetta, e non solo per quanto riguarda il lavoro, deve essere personalizzata.