Su Mélenchon uscito dalla Sinistra Europea
Nello scenario turbolento delle ultime settimane, ha fatto poca notizia l'uscita dalla Sinistra Europea (SE) del Parti de Gauche (PG) di Jean-Luc Mélenchon.
Si tratta però di un passaggio significativo per il presente e forse il futuro della sinistra radicale in Europa.
Motivo della rottura è la forte divergenza fra la linea anti-austerità del PG con le decisioni prese in Grecia da Syriza e dal suo leader Tsipras, alla guida di un esecutivo che non ha voluto o potuto rompere con i diktat della Troika.
Ombre della sinistra europea in Italia
Mentre si avvicina il voto del 4 marzo, Daniela Preziosi, su il manifesto ha scritto un articolo da titolo «Le figurine della sinistra europea nella sfida italiana». Le elezioni nazionali non hanno chiaramente al centro la dimensione continentale, ma più che in passato c'è un certo imbarazzo - trasversale - a rapportarsi con i vicini dell'Unione (Europea!).
Le sinistre italiane si confermano contenitore di grande confusione. La visita di Grasso a Corbyn, l'iniziativa di Fratoianni con una esponente della Linke, le relazioni di Potere al Popolo con il GUE appaiono come timidi echi di pratiche del recente passato.
Proviamo a concentrare le nostre dieci mani a partire da due notizie di attualità.
A fine gennaio Mélenchon ha chiesto l'esclusione di Syriza dal Partito della sinistra europea, con una dura replica di Tsipars ("noi non siamo una sinistra sola a parole"). L'allarme frattura pare essere rientrato ma certo la tensione rimane e appaiono lontani i tempi dell'asse greco-francese in chiave solidaristica.
Il PSE non se la passa meglio. Schulz pareva dover rafforzare il vento di Sanders e Corbyn, con una campagna di rilancio della SPD (eletto come candidato con il 100% dei voti del partito) incentrata sul rifiuto delle grandi coalizioni. Ha dovuto fare passi indietro su numerose questioni di principio e infine ritirarsi anche dal ruolo concordato con la CDU di Ministro degli Esteri. Le sue dimissioni dalla presidenza del partito ricordano più la disfatta di Hollande che il successo narrativo del Labour.
Di tramonto delle sinistre europee abbiamo sempre scritto sul Becco, queste Dieci Mani provano ad aggiornare la riflessione.
Il nesso tra la concezione occidentale del mutamento sociale radicale (quello che ora chiameremmo “rivoluzione”) e l’escatologia cristiana non è un mistero per nessuno: storicamente le troviamo fuse in più di un’occasione.
Dall’istante in cui si realizza il fatto della venuta del Regno nulla nel mondo è più ciò che era, tutto è santificato o condannato per sempre. Similmente, si pensa che, conquistato “il potere”, che purtroppo è perlopiù concepito come il controllo dell’apparato statale, una realtà umana come un leader o un partito possa fare tabula rasa del vecchio stato di cose e instaurarne uno nuovo radicalmente diverso. Se ciò non accade è per il tradimento (vecchio refrain stalinista) o per la pusillanimità di chi di dovere, oppure per la malvagità del vecchio mondo che non accetta di perire.
È facile comprendere come una simile concezione abnorme dell’essere umano non possa non essere frustrata dalla realtà. È infatti un’ovvietà assoluta che la storia vada avanti per processi, e non per salti repentini, così come dovrebbe essere un’ovvietà che qualunque mutamento sociale ed istituzionale, proprio in quanto è oggetto della storia umana, tenda ad essere marcatamente path-dependent: fatti e decisioni del passato vincolano il presente, riducendo il campo del fattibile.
Ciò non significa che il mutamento, anche radicale, di istituzioni, modelli economici e costrutti socioculturali sia da escludere; significa però che avviare un processo storico di lunghissimo periodo è cruciale, che nel breve e medio periodo è d’uopo darsi obiettivi realistici e non investire gli strumenti del potere di una mistica che non gli appartiene.
Lo stato sociale non è un’invenzione del Messia Roosevelt o del Messia Attlee, è un punto in un processo storico iniziato quasi un secolo prima in Prussia, a sua volta parte del più ampio processo storico del capitalismo; così come la controrivoluzione thatcherian-reaganiana di fine anni ‘70-inizio anni ‘80 che ha profondamente modificato quel sistema ha radici nell’Europa dilaniata dalla Seconda guerra mondiale, per esempio. Nell’immediato dopoguerra, nei dipartimenti di economia delle università più prestigiose del Vecchio e del Nuovo mondo gli studiosi istituzionalisti o keynesiani erano l’assoluta maggioranza; oggi ciò che non si basa su una matematizzazione estrema ed esasperata e/o sulla fede nel pallido mainstream propinato dai 2-3 manuali di macroeconomia “ufficiali” o nelle teorie neomonetariste rischia di passare per pseudoscienza: l’importanza assoluta di conquistare e tenere casematte.
Ultimo a fare le spese della confusione tra storia ed escatologia il premier greco Tsipras. Su SYRIZA la sinistra europea ha investito un enorme carico emotivo, ma purtroppo poche energie intellettuali. L’errore di Tsipras (che comunque nei sondaggi viaggia intorno al 20% stabile, perdendo non contro forze antiausterity ma contro la destra di ND) non sta in qualche fantomatico “tradimento”, vale a dire nell’aver voluto governare una situazione reale, già gravemente compromessa e condizionata da decenni di scelte sbagliate che non si possono realisticamente cancellare con un colpo di spugna, ma nell’aver pensato che bastasse vincere, che il potere potesse destrutturare e ristrutturare a piacimento la realtà, che il vecchio contesto si sarebbe arreso di fronte al nuovo che viene.
Un errore replicato da tutti coloro che, in giro per l’Europa, continuano a sostenerlo o al contrario lo denigrano, come Mélenchon. “Fare qualcosa” e “cambiamo tutto” continuano ad alimentare investimenti emotivi ed entusiasmi, mentre si trascura completamente la preparazione necessaria per quando il momento di fare qualcosa arriverà davvero e si vive di belle idee astratte e belle intenzioni. Al contrario di molti, ho sempre preso molto seriamente (e in parte condivido) l’idea che al governo non ci si debba andare, che sia meglio costruire contropotere che prendere il potere.
Se si decide altrimenti, però, al potere è utile arrivarci solo alla fine di un processo consapevole.
Il tradimento verso il popolo greco del governo Syriza-Anel deve aver screditato ciò che resta della sinistra europea se lo stesso Melenchon è arrivato al punto di chiedere l'espulsione di Syriza dal Partito della Sinistra Europea.
La risposta di Syriza sembra un bieco tentativo di arrampicarsi sugli specchi accusando di antidemocraticità e di irresponsabilità chi si è quantomeno indignato per la macelleria sociale del governo Tsipras.
L'unica sensata accusa che si sarebbe potuta muovere a chi ora punta l'indice contro Syriza è cosa avrebbero fatto al loro posto, dovendo mantenere l'appartenenza all'Unione Europa.
Con quale linearità e coerenza si sarebbe potuto mantenere l'ideale di un'altra Europa in un contesto dove è risultato evidente che di Europa ne esiste una sola e non è certamente disposta a farsi riformare da qualsiasi movimento di sinistra alternativa continentale?
Insomma, Melenchon pensa di avere un Piano B e va in giro con Varoufakis a spiegarcelo da quel maledetto 5 luglio 2015. L'unico pulpito da cui proviene la predica è basato su quello striminzito Piano B che pensa di donarci un'altra Europa dal volto umano.
L'unica base di una politica economica neokeynesiana per formare un'altra UE è basata su politiche di redistribuzione della ricchezza con creazione di opportunità di lavoro dignitoso e transizione ecologica in opposizione al modello neoliberista su cui è storicamente fondata l'UE.
La sola partecipazione democratica dovrebbe magicamente donarci questa nuova prospettiva idilliaca, anche se abbiamo già visto il totale fallimento di questo percorso.
Le perplessità non mancano neanche verso Melenchon e la sua voglia di rilanciare la Sinistra Europea all'interno delle istituzioni ordoliberali.
La nascita del GUE e del Partito della Sinistra Europea sono una diretta responsabilità della cultura politica italiana. Abbiamo già avuto modo di sottolinearlo sul Becco già qualche anno fa ormai, ma alcuni nodi di fondo dei problemi europei rimangono non affrontati. Certo le analisi devono essere aggiornate ma l'atteggiamento generale pare essere ossessivamente "cerchiamo qualcosa che funzioni per aggrapparci da una zattera all'altra".
Sabina Guzzanti non è una politica, ma il suo documentario Viva Zapatero!, collegato al recente sostengo per Potere al Popolo (con una convergenza dell'ex socialista Mélenchon) potrebbe interrogarci su quali sono i percorsi di maturazione delle varie narrazioni, spesso estemporanee e prive di processi stratificati, che dovrebbero portare a robuste sedimentazioni organizzative.
Il livello delle sinistre sul piano continentale è un disastro. È stato Renzi a portare il Partito Democratico nel PSE, mentre questa famiglia continua a registrare numerosi insuccessi, con l'informazione schierata a sostenere il fenomeno Corbyn, il cui profilo non entusiasma i dirigenti dei vari partiti europei.
L'isolamento della Grecia ben si conferma con l'attenzione di Tsipras a ciò che avviene in Germania (con tanto di invito a creare un nuovo governo di grande coalizione, scavalcando la linea ufficiale di Schulz da destra).
La replica di Syriza ("noi non siamo di sinistra solo a parole") non è che una ferita già aperta in Italia, se uno ripensa al dibattito interno a Rifondazione per il sostegno all'Unione (intesa come coalizione del "secondo Prodi").
Quale è la cultura di governo della sinistra socialista? E quale quella della sinistra di alternativa?
C'è qualcosa di male ad ammettere di non avere ancora elaborato una complessiva capacità di governare ma voler rappresentare la difesa degli interessi di chi subisce questo sistema? Il potere e il governo sono categorie collegate ma distinte, far finta che esista un obbligo storico perché continuino a esistere "destre" e "sinistre" non farà che rafforzare i sostenitori del superamento di queste categorie.
Per chi è convinto della necessità di una sinistra di classe si tratta di non rassegnarsi ai tempi brevi, alla tattica e allo scoraggiamento, pur insistendo nella ricerca di equilibrio per agire nel presente.
La scorsa settimana è stato diffuso il primo sondaggio che evidenzia in Germania un sorpasso di AfD sulla SPD (16% contro 15,5%). Molti sono stati così impegnati ad allarmarsi da non prendersi la briga di ricercare quel sondaggio e consultarlo nella sua interezza. Se lo avessero fatto, avrebbero scoperto che la somma di SPD, Linke (11%) e Grünen (13%) porta la sinistra complessivamente al 39,5: un vantaggio di fatto abissale su AfD e quasi appaiato alla coppia CDU-CSU (32) e FDP (9). Inoltre, la somma di queste somme porta a un oltre 80% per le forze politiche democratiche.
La crisi della SPD è vecchia di molti anni, ma non è stato possibile sinora affrontarla per la doppia sordità delle sue due anime. La dirigenza e i giovani movimentisti, infatti, condividono la medesima radicalità anticomunista che impedisce l’unità delle sinistre e, sebbene si dichiarino antifascisti, continuano ancora ad accettare, a ventisette anni dall’unificazione, l’assenza di una Costituzione tedesca e la permanenza della provvisoria “Legge fondamentale” creata nel 1949 per la zona occidentale sotto tutela anglo-franco-americana. La disconnessione con la realtà rasenta a tratti l’inverosimile: nei sondaggi Schulz aveva inizialmente agguantato la parità con la CDU, ma che il suo faccione rassicurante non bastasse era diventato noto fin dalle prime occasioni di voto reale (e non demoscopico) per i parlamenti regionali a maggio 2017. Nonostante questo, la SPD ha continuato su una linea politica schizofrenica, che rifiutava la Grosse Koalition e neppure considerava una politica unitaria a sinistra.
Questa linea suicida è la medesima battuta anche in Francia da Mélenchon e in Italia da alcune sparute forze di sinistra. Il primo, invece di accettare la sfida di Macron sulla «societé du travail», si è limitato a contestarlo sulla memoria storica negando le responsabilità della Francia nei rastrellamenti e deportazioni degli ebrei. In Italia i paradossi sono esemplificati da Fratoianni che invoca il fronte democratico per battere il fascismo (quindi per questo se ne sta fuori dal centrosinistra e inveisce contro il fronte democratico Pd-Forza Italia) e da Rizzo che invece di lottare per un governo comunista europeo vuol far precipitare l’Italia nel baratro dell’isolamento (per la serie: amo così tanto Serbia e Transnistria che voglio essere come loro).
Nessuno, in tutto questo, si è fermato a riflettere sulla svolta politica post-elettorale di Corbyn, che ha riconosciuto la necessità per i partiti socialisti di essere al centro della società (leggasi: Partito della Nazione). Grasso era troppo occupato a tradurre dall’inglese lo slogan elettorale “For the many, not the few” per documentarsi su cosa è successo dopo.
La sinistra, almeno in Occidente, sta facendo di tutto per rendere il celebre ammonimento reazionario di Margaret Thatcher, "There is no Alternative" (non c'è alternativa al neoliberismo), una vera e propria profezia.
In crisi di egemonia e di legittimità, la sinistra europea lavora duramente per ottenere un minimo di visibilità, di credibilità e di consenso in un campo dominato dal realismo capitalista. Le poche energie vengono necessariamente mobilitate nel breve periodo: si guarda alle prossime elezioni, ci si organizza come si può per provare a fermare la prossima legge che precarizza (ulteriormente) il mercato del lavoro, e così via. La debolezza cronica della sinistra ha così necessariamente spinto in secondo piano il fondamentale problema del "che fare?" una volta vinte le elezioni e preso il potere politico.
Il neoliberismo è un modo di governare l'economia e la società che ha una sua logica intrinseca.
Esistono ovviamente delle varianti nazionali e geopolitiche nella sua governance ma queste condividono tutte una serie di ricette e di modi di organizzare la realtà specifici.
Nell'apparante caos dell'ordine globalizzato e post-westfaliano attuale, il neoliberismo segue una sua cinica ma coerente logica.
Forse ha torto Foucault quando afferma che al socialismo è sempre mancata una sua specifica governamentalità ma è evidente che in questa fase storica, manca un modo coerente e complessivo di pensare l'alternativa politica. Come vogliamo che sia l'economia? Come deve essere la società? Come vogliamo che sia l'individuo all'interno di questa società?
Il neoliberismo sa benissimo ciò che vuole mentre mi pare che manchi una visione d'insieme a sinistra sulla società del futuro da costruire (non si è nemmeno d'accordo su come deve essere pensata la coppia sovranità/globalizzazione).
In questa fase storica l'ammonimento di Foucault va dunque preso sul serio: manca un progetto politico reale e ci si appoggia su governamentalità già esistenti: forze come Podemos, Linke, La France Insoumise sembra che facciano molta fatica a proporre qualcosa di più che non sia la solita ricetta socialdemocratica e keynesiana.
Ma che succede quando queste ricette sono sostanzialmente inapplicabili? Vincoli di bilancio, creditori internazionali, trattati di libero scambio, accordi europei non rendono quasi mai possibile mettere in atto reali misure redistributive (se stai all'interno delle regole del gioco la coperta è sempre cortissima).
Quello che è accaduto a Syriza in Grecia è paradigmatico. Una volta vinte le elezioni, tutte le promesse elettorali fatte si sono dimostrate immediatamente irrealizzabili. Restavano due strade: una rottura drastica resa proibitiva proprio dalla mancanza di un progetto politico e di una logica di organizzazione dell'economia e della società nuovi e diversi oppure una gestione politica nella cornice delle logiche neoliberiste, non difformemente da quanto fatto da tutte le altre forze politiche.
Syriza, in mancanza di una realistica alternativa, ha optato fin da subito per la seconda ipotesi e sarebbe ingenuo pensare che se vincesse l'estrema sinistra in Francia, Spagna o Italia sarebbe diverso. Conta poco il potere istituzionale se poi non si ha un' arte di governo in grado di trasformare la realtà.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.wikipedia.org
Grecia: un bilancio verso la conclusione del terzo piano di salvataggio
La Grecia ricomincia a prendere a prestito denaro sui mercati finanziari a un tasso d’interesse non più da strozzinaggio e immediatamente a sinistra si canta vittoria.
Non si tratta solo di vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, ma di scambiare una nuova arma di ricatto per la salvezza, un abbaglio clamoroso.
Euclid Tsakalotos: crisi, Syriza e governo
Euclid Tsakalotos ha scritto qualche anno fa un libro (Crucible of Resistance. Greece, the Eurozone and the World Economic Crisis, Pluto Press, con Christos Laskos), a metà fra il saggio di politica economica e la ricostruzione della storia politica greca recente) che troviamo molto utile per ragionare sulle difficoltà di una politica alternativa a quella della Trojka. Il libro precede la vittoria di Syriza del 2015, anche se quando è stato scritto già si poteva intravedere la sua prossima ascesa al governo, e quindi precede la nomina dello stesso Tsakalotos a Ministro dell’Economia, tuttora in carica, in successione di Varoufakis.
Atene e il mediterraneo, sei mesi dopo
Tornare ad Atene. Tornare dopo circa sei mesi dalle elezioni politiche e dopo un referendum che chiedeva alle persone se avessero voluto continuare ad accettare le politiche d’austerità. Gli esiti di questo intenso percorso sono ormai noti a tutti. Rimarcarne le contraddizioni, probabilmente, non serve. La sinistra greca dovrà, di certo, fare i conti con le delusioni che si sono inevitabilmente diffuse all’interno di Syriza e all’interno della popolazione, dopo l’accordo tra l’Unione Europea e il governo greco. Non è un caso che già si sia annunciato un congresso straordinario del partito, in autunno. Ma il punto è: quale effetto reale le vicissitudini greche stanno già producendo di fronte ai molteplici tentativi di costruzione di una sinistra europea, alternativa all’esistente? È questo il tema che sembra essere sostanziale. Sostanziale rispetto a quella che oggi è la realtà dei fatti.
La Grecia e la sua crisi usciranno dalle scalette dei telegiornali e dalle prime pagine dei giornali italiani. È una regola dell'informazione: “tirare” troppo una notizia stufa il lettore, approfondirla lo annoia. Finiti gli aspetti scenografici - la tensione sul volto di Tsakalotos, la giacca di Tsipras - restano sul tappeto i problemi dei greci e della loro economia.
In questi anni, prima a sinistra, poi persino in un pezzo delle élite conservatrici, si è affermato che le politiche di austerità imposte all'economia ellenica e accettate - e seguite parzialmente o totalmente - da Pasok ed ND hanno peggiorato la malattia che affligge la Grecia.
PIL crollato, domanda interna e condizioni di vita della popolazione ellenica drasticamente peggiorate, nessun risultato apprezzabile sul fronte occupazionale e del contrasto all'evasione (anzi l'esatto opposto).
Respingere le pretese tedesche sull’Europa
Dalla parte del popolo greco, di Syriza, del compagno Alexis Tsipras
Cinque anni di imposizioni di programmi di “austerità” alla Grecia da parte dei poteri europei, sempre più sottoposti a comando tedesco, ne hanno abbattuto il PIL del 25% e determinato un pesantissima crisi della condizione popolare. È semplice questione di buon senso concludere che il nuovo programma di “austerità” imposto da questi poteri incrementerà in Grecia crisi economica e crisi sociale, essendo esso totalmente in linea con i precedenti. Non solo: la quasi totalità degli osservatori economici nonché la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale affermano che la crisi greca non rientrerà, a meno di una ristrutturazione del debito pubblico, cioè del suo consistente abbattimento o, quanto meno, della sua diluizione su tempi molto lunghi e di una riduzione tendente a zero degli interessi che ne vengono ai creditori.
Quali sono i motivi che hanno portato il governo della Germania a operare, per di più scavalcando apertamente i vari poteri esecutivi europei e operando con una brutalità mai vista in precedenza nell’Unione Europea, affinché la totalità di tali poteri e degli altri governi dei paesi della zona euro condividessero il nuovo programma e lo imponessero alla Grecia? Una risposta data a questa domanda da varie parti politiche e da vari osservatori è che il governo della Germania non intenda rischiare di trovarsi prossimamente in una situazione che veda l’“austerità” ovvero il “rigore” di bilancio non più praticati da parte di paesi importanti della zona euro, come Italia e Francia (parimenti uno sguardo minaccioso è rivolto da questo governo a Spagna, a Portogallo e a qualsiasi altro paese della zona euro suscettibile di vittorie elettorali di sinistra: se ciò avverrà, dice lo sguardo, il trattamento sarà analogo a quello della Grecia).
Se ci imbarchiamo nell’impresa di provare a tirare le fila su quello che sta accadendo in queste ore in Grecia, le cose certe sono pochissime. In primo luogo, è certo che per provare a farsi un’idea che in un qualche modo corrisponda alla realtà, è bene informarsi su siti e quotidiani esteri: sin dall’inizio la stampa italiana si è imbarcata in una gara a chi dipingeva lo scenario più irrealistico su quello che avrebbe previsto l’accordo tra Grecia e Troika.
Dopo la bocciatura referendaria alle ultime proposte dei creditori, ripartiranno le trattative tra la Repubblica ellenica e la troika? Il 61% di “no” alle misure recessive offerte ad Atene ha suscitato la reazione fuori dalle righe dei socialdemocratici tedeschi Gabriel e Schulz, una reazione non dissimile a quella dei loro colleghi di coalizione (in Europa, in Germania e se vi governassero anche su Plutone) della CDU.
Per il Presidente dell'Europarlamento vi è addirittura la necessità di fornire “aiuti umanitari” alla Grecia: una nostalgia per le poor laws che spiega molto della crisi da subalternità delle socialdemocrazie europee.
Grecia: il modello Marchionne come modello politico
Era il 15 gennaio 2011 quando l'amministratore delegato Sergio Marchionne che aveva appena trascinato la casa automobilistica fuori da Confindustria, festeggiava la vittoria del Sì al referendum alla Fiat di Mirafiori. La bruciante sconfitta dei 5.400 lavoratori delle carrozzerie comportava il taglio delle pause, la repressione dell'assenteismo, più turni settimanali e la triplicazione degli straordinari annuali. Così il contratto di lavoro nazionale, ultimo strumento di difesa collettiva a disposizione dei lavoratori venne progressivamente smantellato azienda per azienda. La paura di perdere il lavoro, sotto la minaccia del padrone che aveva promesso che in caso di vittoria del No avrebbe non solo bloccato ogni possibile investimento, ma pure delocalizzato, aveva prevalso. La minaccia di delocalizzare aveva creato un leading case di taglio secco di diritti alla faccia di tutte le normative europee di contrasto al dumping sociale.
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