Muovendo di fatto in questa direzione già adesso, infatti, Francia e Italia stanno violando, a nome di un approssimativo principio di “flessibilità”, quanto contenuto in tema di bilanci pubblici nei Trattati costitutivi dell’UE e nel più recente fiscal compact (ricordate? deficit pubblico zero e rientro del 2% annuo della porzione di debito pubblico eccedente il 60%), tentando così di passare dalla stagnazione alla ripresa delle loro economie. Più precisamente questi paesi stanno tentando una sorta di archiviazione di fatto del fiscal compact: la cui pratica non solo negherebbe loro la ripresa ma li farebbe precipitare in condizioni greche. Sarebbe quindi all’obiettivo di tenuta di tali “regole”, insensatamente accolte a suo tempo dai governi dell’UE (nei Trattati) o dai governi della zona euro (con il fiscal compact: addirittura costituzionalizzato in Italia dal governo Monti-Fornero), che si dovrebbe l’operazione di questi mesi del governo tedesco di esplicita centralizzazione su di sé del potere politico in Europa, in altre parole la riduzione a sue succursali delle formazioni del Consiglio Europeo, dell’Eurogruppo, della Commissione Europea, a cui si è volontariamente unito il presidente del Parlamento Europeo, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz (puah), nonché il reiterato tentativo da parte della Bundesbank di indebolimento dell’autonomia decisionale della BCE. Qui cioè sarebbe la ragione di un comportamento tedesco apertamente punitivo nei confronti della Grecia. Non avrebbe senso dare gran peso alle differenze intercorse nella trattativa con la Grecia tra la cancelliera tedesca Angela Merkel e il suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble: certo sono reali, ma al tempo stesso e prima di tutto esprimerebbero un gioco delle parti, nel quale Schäuble fa il centravanti di sfondamento consentendo a Merkel di massimizzare il risultato riducendo la portata della divisione politica rispetto alle parti europee non del tutto consenzienti.
Perciò le dichiarazioni tedesche, e del cameriere di Merkel e Schäuble alla testa dell’Eurogruppo, il laburista olandese Jeroen Dijssenbloem (puah), sull’“inaffidabilità” del governo greco di sinistra sarebbero soprattutto il classico discorso fatto a nuora perché suocera intenda, non solo un arrogante insulto portato alla dignità della Grecia, al suo popolo, al suo governo; sarebbero soprattutto un discorso orientato a far capire all’intera zona euro e alla totalità dei poteri europei che la Germania imporrà d’ora in avanti le sue posizioni, costi quel che costi alla cooperazione nella zona euro e alla tenuta istituzionale dell’UE, e che chi si metterà di traverso la pagherà cara. Già la Grecia non è stata trattata mai, in questi cinque anni e soprattutto nell’ultima trattativa, come uno stato sovrano, bensì come una semicolonia ribelle. Da parte del governo tedesco è stato evidente che si preferiva punire la Grecia con l’espulsione dalla zona euro. Nell’ultima parte della trattativa le pretese antisociali da inserire nel programma e le aggressioni verbali ad Alexis Tsipras si sono moltiplicate, onde arrivare alla rottura da parte greca. Se Merkel si è fermata è stato perché Tsipras non ha rotto, perché alcuni governi della zona euro (Francia, Italia, Cipro) hanno rifiutato l’espulsione della Grecia con una certa fermezza, lo stesso è avvenuto da parte dei presidenti di Commissione Europea Jean-Claude Juncker e Consiglio Europeo Donald Tusk e, di fatto, del governatore della BCE Mario Draghi. Inoltre si erano fatte pressanti le pressioni degli Stati Uniti e, su ordine degli Stati Uniti, dell’FMI, non solo ostili all’espulsione greca ma favorevoli alle richieste greche di ristrutturazione del debito; prima di tutto, gli Stati Uniti, per la possibilità che un’uscita della Grecia dalla zona euro porti all’avvicinamento di questo paese alla Russia e quindi a un danno gravissimo per la NATO.
L’arma tedesca in ogni caso continua a essere puntata su Francia, Italia ed eventuali futuri governi di sinistra altrove. Non è dunque dettato dal buon cuore che i governi di quei due paesi abbiano così agito.
Tutto questo ovviamente è vero. Ma è davvero sufficiente ad argomentare il comportamento del governo tedesco, o ci manca qualcosa di essenziale? davvero l’obiettivo di questo governo è solo o quasi solo il controllo diretto sulle politiche di bilancio degli altri paesi della zona euro e la possibilità di intervenire con il bastone contro i governi reprobi spendaccioni, inefficienti, disattenti alle “regole” dell’“austerità” e del “rigore”? magari, come si sono sbizzarriti a scrivere fior di opinionisti, ciò essenzialmente avverrebbe per ragioni ideologiche derivanti da quell’insieme di credenze protestanti che appartengono al bagaglio culturale della popolazione tedesca, parimenti servirebbe al governo tedesco a disporre quasi automaticamente del consenso della larga maggioranza della sua popolazione al massacro economico di questa o quella popolazione? Certamente nel comportamento del governo della Germania (e, stando ai fatti, non solo della sua dominante componente democristiana ma di quella stessa socialdemocratica) giocano determinazioni di tipo culturale che fanno dell’operosità, della buona organizzazione, del risparmio valori assoluti e del debito qualcosa di riprovevole. Certamente è anche sulla tutela e sulla riproduzione di quest’impianto culturale che si giocano i risultati elettorali delle due democrazie cristiane tedesche. Ma la stragrande maggioranza delle famiglie tedesche la casa la compera avendo contratto un mutuo e l’automobile la compera a rate. In realtà se l’indebitamento pubblico è oggi dichiarato dal governo tedesco come un disvalore da combattere con totale determinazione e se questo governo ha gradatamente imposto alla zona euro che un estremo “rigore” finanziario sia il fondamento numero uno della politica economica dei suoi stati, ciò si deve ad altro che agli insegnamenti di Martin Lutero.
Per comprenderlo c’è tutta una parte della storia dell’UE da considerare. Il processo che apre in essa alla moneta unica fu determinato dalla possibilità nel 1990 di riunificazione della Germania: la Francia volle cautelarsi dinanzi al ritorno della Germania a una posizione di grande potenza, come tale pericolosamente orientata all’egemonia sull’Europa centrale e orientale, storicamente tentata con mezzi militari e agendo anche contro la Francia onde evitare di trovarsi tra due fuochi. Sempre la Germania quando si sia sentita più forte dei propri vicini ha tentato di egemonizzarli, o di sopraffarli. La conclusione, il cui protagonista primario fu il presidente francese François Mitterrand, sarà il passaggio nel 2002 alla moneta unica dal precedente sistema di cambi fissi che impegnava le monete dell’UE. Il cancelliere tedesco Helmut Kohl aveva concordato tutt’altro che malvolentieri con Mitterrand tale passaggio (Kohl aveva fatto parte di quella generazione tedesca che aveva vissuto il disastro della guerra e del dopoguerra), pretendendo però “rigore” di bilancio da parte degli stati che la moneta unica avessero adottato. La popolazione tedesca, aveva argomentato Kohl, dopo le due guerre mondiali perse aveva visto risparmi e pensioni distrutti da inflazioni galoppanti, e non avrebbe mai accettato una moneta unica indebolita dagli elevati deficit di qualsiasi stato. L’obiettivo polemico era l’Italia, il cui debito pubblico già molto alto continuava a crescere: che rischierà di rimanere fuori dal primo gruppo di paesi che avrebbero adottato l’euro, e che riuscirà a entrarci abbattendo il deficit tramite svendita e saccheggio (pardon, tramite privatizzazioni) su vastissima scala di industrie e servizi pubblici (rovinando così durevolmente le proprie prospettive economiche).
L’idea fondamentale comune al complesso dei paesi fondatori dell’euro era che l’UE, grazie alla sua potenza industriale, tecnologica, finanziaria, demografica complessiva sarebbe stata capace di esprimere una soverchiante capacità competitiva nei confronti degli altri grandi sistemi economici del pianeta, quindi una propria forte capacità di sviluppo economico. L’idea fu anche, essendosi appena dissolta l’Unione Sovietica, che la prospettiva a portata di mano fosse un mondo pacificato dal disarmo e dallo sviluppo di mercati davvero mondiali e fosse un periodo infinito di generalizzato sviluppo dell’economia mondiale. L’“austerità” e il “rigore” di bilancio data questa prospettiva risultavano semplicemente strumenti per fare ordine nella casa comune europea e dunque procedere economicamente al meglio. Le cose come sappiamo non andranno per niente così. Avverrà quasi subito (ma ciechi furono i governi italiani) che il rapporto dell’euro alle valute che lo avevano preceduto e al dollaro, deciso dal primo governatore della BCE, l’olandese Wim Duisenberg, e consolidato dal secondo governatore, il francese Jean-Claude Trichet, venisse di fatto “tarato” non sulle necessità del complesso dei paesi della zona euro o quanto meno di Germania e Francia, ma sulle necessità della sola Germania. Solo la Germania, grazie al suo superiore livello tecnologico e alla conseguente sua superiore produttività del lavoro potrà così continuare a realizzare un elevato volume di esportazioni (per essa l’euro era, in sostanza, una sorta di marco deprezzato), quindi puntare sulle esportazioni come mezzo decisivo della propria crescita economica; per gli altri paesi europei l’euro al contrario risulterà essere un sorta di franco o di lira ecc. troppo apprezzato, quindi di danno più o meno significativo sul terreno delle esportazioni, e conseguentemente dello sviluppo. Comincia così una storia che farà di tali differenti possibilità di affidamento del proprio sviluppo alle esportazioni la realizzazione da parte della Germania di una sorta di indiretto dumping a danno degli altri paesi della zona euro, particolarmente pesante, come sarà inevitabile, a danno delle due altre grandi potenze industriali europee, Italia e Francia.
Né gli altri maggiori sistemi planetari, a partire dagli Stati Uniti, staranno a contemplare inerti l’aggressività economica europea. Faranno grandi investimenti tecnologici, premeranno pesantemente sulle retribuzioni dei loro lavoratori, useranno a fondo la loro strapotenza finanziaria, manovreranno il corso del dollaro. Ciò accentuerà la differenza sul terreno della capacità di esportazione verso il resto del mondo tra la Germania (seguita da lontano dall’Italia, non però come sistema complessivo, essendone stata distrutta dal 1992 in avanti metà della grande industria) e il resto della zona euro, Francia in prima fila. Questa superiore capacità e gli effetti di rallentamento della crescita economica determinati in tutta la zona euro dal “rigore” e dal caro-euro indurranno anzi la Germania a puntare quasi solo sulle esportazioni (ciò la porterà a superare quel 6% di esportazioni rispetto al PIL che è il massimo consentito dai Trattati, naturalmente senza che la Commissione Europea avviasse una procedura di infrazione). A questo scopo ricorrerà ampiamente, soprattutto dopo la crisi del 2007, alla deflazione salariale interna. È vero che i salari tedeschi sono alti, ma ciò vale per quelli dei dipendenti a tempo indeterminato: ma parallelamente esistono 7 milioni e mezzo di mini-jobs, cioè di lavoratori a tempo dimezzato, giovani, donne, immigrati, che percepiscono 800 euro al mese, metà dei quali versati dai loro imprenditori e metà dallo stato (oltre a ciò lo stato esenta questi imprenditori da ogni onere fiscale e contributivo riguardo a questi lavoratori). Si tratta di illegali aiuti di stato: ma neanche su ciò la Commissione Europea interviene. La deflazione salariale praticata dalla Germania, donde la stagnazione della sua domanda interna, incrementerà ulteriormente le difficoltà degli altri paesi della zona euro, contribuendo a buttarli tutti in recessione; e successivamente entrerà in campo nel complesso della zona euro una pericolosa tendenza alla deflazione, tale da sollevare le preoccupazioni e le proteste anche degli Stati Uniti.
Una risposta al perché, a questo punto d’obbligo, non solo da parte tedesca ma dell’intera zona euro di una prosecuzione acritica di “rigore” in sede di spesa pubblica, ovvero del perché dell’accodamento dell’insieme dei paesi della zona euro alla Germania, rinvia necessariamente alla posizione di classe della totalità dei governi. Fallimentare sul terreno della competitività e dello sviluppo, con la sola sostanziale eccezione tedesca in sede di competitività, il “rigore” di bilancio imposto dai Trattati si rivelerà da subito un eccellente strumento a giustificazione di tagli allo “stato sociale” e ai sistemi pensionistici, distruzioni di diritti dei lavoratori sui luoghi di lavoro, precarizzazione della condizione di decine di milioni di lavoratori, soprattutto giovani, provvedimenti fiscali a carico soprattutto, con il pretesto della rapidità dell’incasso, a danno delle classi popolari. In altre parole, si rivelerà un eccellente strumento di un trasferimento gigantesco di reddito dalle tasche delle classi popolari, ivi comprese quote crescenti di ceto medio, nelle tasche delle classi ricche. Al tempo stesso, un eccellente strumento di rimpinguimento della rendita finanziaria: il risparmio e il suo investimento finanziario sono infatti continuamente aumentati in Europa, in relazione inversa alla crescita del disagio sociale, della difficoltà di tante famiglie ad arrivare con le proprie possibilità di spesa alla fine del mese, della miseria estrema di tante altre.
Ma neanche la crisi indurrà la Germania (e sulla sua scia i poteri esecutivi europei) a politiche economiche espansive. Anzi la Germania sarà indotta all’inferocimento del “rigore”. Perché questo fatto? Nella crisi esso risulta economicamente inspiegabile, a meno di aggiungere agli obiettivi di arricchimento borghese qualcosa di immensamente più importante per il grande capitale tedesco e per le sue parti politiche democristiane, socialdemocratiche e liberali, qualcosa che guarda a uno sviluppo ormai necessario degli obiettivi strategici, non momentanei, al tempo stesso economici e politici della Germania in Europa, nella zona euro prima di tutto ma non solo, anche nella parte orientale dei paesi fuori dalla zona euro dell’UE e, perché no, anche verso paesi che stanno un po’ più a est come segnatamente l’Ucraina, povera in canna e in condizioni di default ma ricca di grandi potenzialità in agricoltura e in sede di delocalizzazioni industriali. Tale inferocimento (ben rappresentato dal fiscal compact) risulta cioè primariamente determinato dall’obiettivo di un consolidamento sostanziale dell’egemonia della Germania su larga parte dell’Europa anche in forma di controllo politico stretto, di comando politico diretto.
Nel corso degli oltre vent’anni di esistenza dell’euro, ma soprattutto nel corso della crisi, hanno teso a crescere e anche a generalizzarsi, in sintonia alle difficoltà più o meno ampie e durevoli dei sistemi industriali di quasi tutti i paesi dell’UE, una serie di loro radicali trasformazioni strutturali, in più forme ma tutte determinate dalle pretese e dagli investimenti tedeschi. Non è un fatto strano: i grandi sistemi economici planetari (gli stati-continente, le zone di libro scambio, l’UE) dispongono di una realtà dirigente, parimenti sono o tendono a essere sistemi semichiusi e in grado di svilupparsi autonomamente (anche quando necessitino di apporti tecnologici e finanziari dall’esterno); a ben vedere veramente mondializzati sono la grande finanza speculativa, il commercio e alcuni settori produttivi, come per esempio l’automobile, la costruzione di vettori aerei commerciali, i satelliti. Nella condizione di semistagnazione, infine di recessione, in cui ha vissuto l’UE la Germania ha esercitato una pressione competitiva sugli altri sistemi europei, in particolare sui due più industrializzati, quello italiano e quello francese, che ha avuto portata distruttiva, in primo luogo perché agevolata dagli impedimenti nei Trattati all’investimento industriale pubblico (e dai veti tedeschi a correggere questi impedimenti), dal corso elevato dell’euro, ecc. Per quanto riguarda l’Italia l’effetto è stato la trasformazione di parte congrua delle sue industrie a medio-alta tecnologia, soprattutto di quelle lombarde, venete, friulane, emiliane, in subfornitrici dell’industria tedesca. A ciò hanno anche concorso consistenti investimenti o shopping tedeschi. Queste industrie producono parti di prodotti, effettuano loro assemblaggi parziali, il tutto finisce in Germania dove viene eventualmente integrato da produzioni tedesche o effettuate in altri paesi, viene definitivamente assemblato e infine viene collocato nei circuiti commerciali mondiali. Accade molto spesso che il prezzo delle produzioni delle imprese subfornitrici sia il risultato di una gara tra più di esse, italiane e non, dove necessariamente vince chi produce, a parità di qualità, al prezzo minore. L’effetto finanziario è molto semplice: l’industria tedesca si prende la frazione più congrua del profitto, ai subfornitori rimangono le briciole. Anche l’effetto sulla condizione del mondo del lavoro dei paesi subfornitori è molto semplice: la depressione salariale. Non solo l’Italia ma pure la Francia sta subendo questi processi. Il fatto che il salario italiano sia grosso modo la metà di quello tedesco è perciò conseguenza anche di essi. Altri paesi europei, soprattutto quelli nord-orientali (Polonia, baltici, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia) sono stati invece prevalentemente oggetto di un’enorme quantità di delocalizzazioni, dati i bassissimi salari, da parte dei paesi occidentali, delle quali quelle tedesche tendono a essere ben la metà; sono così diventati una sorta di periferia povera dell’industria tedesca. Altri (Finlandia, Svezia, Danimarca, Olanda, Belgio, Austria) sono diventati appendici strette dell’industria e del sistema finanziario tedeschi, quasi degli altri Länder, quasi parti semi-autonome di una sorta di grande Germania. E’ vero che questi processi qui sono stati essenzializzati grossolanamente: ma il loro complessivo significato di fondo non risulta alterato. È in corso dunque di costituzione una Germania allargata coinvolgente un grande territorio e mezzo miliardo di individui, non soltanto un’Europa sottoposta al comando politico tedesco; una Germania allargata a cui, in un modo o nell’altro, poteri e istituzioni europei vanno sussunti, con le buone o con le cattive, mantenendone la forma o rifacendoli in radice. Una Germania allargata che, come tale, potrà competere veramente alla pari con gli altri grandi sistemi planetari. Una differenza tra Merkel e Schäuble è che Schäuble ha l’idea di una Germania allargata la cui forma potrebbe essere una confederazione, cioè uno stato, mentre Merkel è disponibile a più varianti istituzionali e naviga a vista.
Queste considerazioni inoltre chiariscono perché la quasi totalità dei governi della zona euro (e degli altri paesi dell’UE) abbia appoggiato totalmente e molti fanaticamente nella trattativa con la Grecia il governo tedesco, anzi Schäuble. Parimenti vengono ad argomentare perché la Francia e (cautamente) l’Italia (oltre a Cipro, il cui comportamento è determinato dall’essere greca) abbiano respinto la posizione di Schäuble: i loro sistemi economici, per quanto in via di più o meno accelerata succursalizzazione al sistema tedesco (anzi le loro realtà complessive, cioè, oltre che economiche, territoriali, politiche, culturali), conservano elementi di complessità e quindi di dissonanza rispetto alle pretese tedesche, che non possono non pesare. La Francia inoltre è una potenza nucleare e dispone di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU e del potere ivi di veto: è ovvio che continui a rivendicare, anche se le mancano i requisiti economici, la parità con la Germania alla testa dell’UE.
Quest’analisi, nonostante le sue rudezze e le sue semplificazioni, può essere di ausilio anche sul terreno di un giudizio veramente attento sul comportamento di Tsipras. Che esso abbia vissuto oscillazioni nel corso dei sei mesi successivi alla vittoria elettorale di Syriza è cosa evidente, prima di tutto per tentare di rompere un accerchiamento micidiale. Ma va soprattutto notato come alcuni elementi fondamentali di unità ci siano sempre stati, dichiarati o sottesi. Si è trattato continuamente per il governo greco di allentare il carattere ferocemente antisociale e radicalmente anti-economico delle pretese dei paesi creditori, cioè di Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda ecc. (e all’inizio anche dell’FMI, apparso come una succursale della Germania, ma poi richiamato all’ordine dagli Stati Uniti, suoi azionisti di maggioranza), per di più a carico di un tessuto sociale impoverito e di un’economia collassata, ma non solo: si è trattato anche di ottenere la possibilità di una discussione con i creditori in tema di ristrutturazione dell’enorme debito pubblico greco. Questa discussione è stata sempre rifiutata dai creditori, salvo che nell’ultima puntata altamente drammatica della trattativa. E veniamo alle conclusioni di essa, ma nel loro complesso. Primo, il “programma” di misure fiscali e di tagli antisociali imposto dai creditori è sostanzialmente rimasto eguale, con ritocchi alcuni peggiorativi altri migliorativi di debolissima consistenza. Secondo, sono stati definiti versamenti significativi alla Grecia da parte prima di tutto dell’ESM (il fondo salvastati), inoltre la BCE ha incrementato il finanziamento d’emergenza alle banche greche e acquisterà nuovamente a prezzi di superfavore titoli di imprese, di banche e sovrani greci, qualcosa arriverà dalla Commissione Europea, infine è stata dichiarata una possibilità di finanziamento, pur condizionata, da parte dell’FMI: tutte cose solo in parte molto ridotta scontate all’inizio della trattativa. Conclusione: è probabilmente vero che il “programma” è in parte irrealizzabile (valga l’esempio, fantasioso, di ben 50 miliardi di euro di proventi da privatizzazioni), inoltre è vero che esso è pesantemente recessivo, inoltre che il debito pubblico continuerà a galoppare, ecc.: ma è anche vero che alla Grecia viene consegnata una boccata di ossigeno che potrà durare molti mesi, e che le consentirà di tentare misure effettive contro l’evasione fiscale dei ricchi e di razionalizzare il baraccone statale.
L’alternativa auspicata in Italia fin dall’inizio della trattativa da parecchi a sinistra (e, sembra chiaro, da parecchi anche nel quadro dirigente di Syriza) è stata l’uscita o la semi-uscita della Grecia dall’euro, attraverso l’emissione di una moneta sostitutiva o complementare, nella forma piena di una nuova dracma o in quella tecnicamente diversa ma sostanzialmente simile di titoli di credito a breve e di taglio ridotto eventualmente garantiti da beni pubblici alienabili (ci sono numerosi precedenti storici, tra i quali gli assegnati nel corso iniziale della Rivoluzione Francese e i rubli červonec della Russia rivoluzionaria nel corso della NEP). Ha talvolta giocato nell’adesione a tale alternativa un errore teorico assai presente negli economisti di sinistra o in politici con formazione economica: l’attitudine a far derivare linee e obiettivi della lotta politica dal mero quadro economico. Linee e obiettivi fanno fatti derivare, al contrario, primo momento della loro elaborazione, dall’“analisi concreta della situazione concreta” economica, politica, sociale, sul piano dei rapporti di classe, ecc. ecc. (Lenin), secondo momento, dall’“individuazione dell’anello debole della catena da tirare”, su cui agire (Lenin), terzo momento, “e poi si vedrà” (citazione di Napoleone da parte di Lenin). Se così non si fa, se linee e obiettivi di lotta politica muovono da singoli processi sociali, accadrà in genere che risulteranno astratti, inciamperanno nelle complessità della realtà, non funzioneranno. Ciò vale vale anche quando si tratti di definire obiettivi di politica economica: la politica economica è un ramo della politica, cioè di una riflessione sulla totalità sociale, non dell’economia.
L’alternativa in questione implicava il default greco, e con esso la mancata restituzione dei denari prestati dai creditori. Da più parti è stato fatto l’esempio del default argentino, a pretesa documentazione di una sua fattibilità socialmente pesantissima ma in ultima analisi reggibile, e il cui vantaggio (oltre a quello psicologico di fregare i creditori) è di diventare indipendenti rispetto a condizionamenti oppressivi. Certamente il default non avrebbe determinato la scomparsa della Grecia: ma il default argentino fu lunghissimo e immiserì la popolazione argentina in termini neanche lontanamente confrontabili alle miserie subite e prossime della popolazione greca. Non va ignorato che la Grecia deve importare tutta l’energia di cui abbisogna e metà del cibo che la sua popolazione mangia, mentre l’Argentina dispone di produzione energetica e di produzione alimentare, e che al default segue necessariamente l’acquisto all’estero cash e con valuta pregiata, euro, dollari, ecc. Dracma o assegnati che fosse la moneta sostitutiva o complementare greca, questi dati affermano che una Grecia che faccia default precipiterebbe, anche disponendo di soccorsi europei (stando all’ipotesi di Schäuble di un grexit pilotato), in una lunga inflazione galoppante che si mangerebbe risparmi e pensioni oltre a chiudere altre decine di migliaia di imprese e impresine e a buttare sul lastrico altre centinaia di migliaia di lavoratori.
Tsipras ha voluto un referendum che, se vinto, ed è stato abbondantemente vinto, significava il rifiuto del “programma” dei creditori. È vero; ma questo non significa che a disposizione di Tsipras ci fosse l’opzione da parte greca dell’uscita della Grecia dall’euro. Era ben noto che la popolazione greca voleva a larghissima maggioranza che il suo paese rimanesse nella zona euro; quindi anche questo ha composto il mandato popolare a Tsipras.
Fortunatamente Tsipras ce l’ha fatta, e non solo dal punto di vista delle immediate condizioni della popolazione greca e della possibilità di un periodo in cui essa possa respirare, anche se, va da sé, problemi e di supplementi pesanti di trattativa, a partire da quella complicatissima sul debito, continueranno a far fibrillare la situazione greca. E fortunatamente egli ce l’ha fatta anche dal punto di vista di un incremento delle possibilità per la sinistra europea di ridiventare anche altrove una cosa seria. Il grexit avrebbe semplicemente depresso gli spiriti di tutti quanti in Europa stanno a sinistra, salvo qualche gruppo di esagitati o di estremisti. Le possibilità quanto meno per Podemos in Spagna di un eccellente risultato elettorale a novembre sono aumentate. Ma c’è molto di più che questo: sono emerse possibilità per le sinistre europee di lotta politica che prima erano inesistenti in quasi tutta l’UE: alla condizione, va da sé, che queste sinistre escano dalle loro fantasticherie e dalle loro sostanziali inezie e tornino a essere una cosa seria ergo che sa fare e vuole fare politica.
Le scelte e il comportamento di Tsipras nel momento terminale delle trattative sul “programma” dei creditori, questo anche è importantissimo, hanno fatto saltare il tappo dei salamelecchi e dei pateracchi tra i portatori dei diversi poteri europei e nazionali, hanno inasprito e portato alla luce divergenze tra essi a fondo sia economico che politico e culturale che sono importanti, soprattutto hanno portato alla luce del sole il tentativo tedesco di appropriazione del potere su gran parte dell’Europa, basato sulla succursalizzazione dei sistemi economici europei a quello tedesco, sulla deflazione salariale, sulla miseria di larghe quote delle popolazioni, basato infine sulla sostanziale abolizione, salvo un’impolverata di superficie, della democrazia sia a livello comunitario, dove non è mai stata un granché, che a livello nazionale. Non solo: muovendosi brutalmente in questa direzione, tentando cioè di fare della Grecia lo stato paria d’Europa, in modo che ovunque in Europa si capisse che la Germania avrebbe punito nel modo più duro chi a essa non consenta, è emersa tutta la debolezza politica e culturale del comando politico tedesco. Non c’è solo la Grecia a trovarsi in una situazione contraddittoria, volendo la sua popolazione uscire dall’“austerità” e contemporaneamente rimanere nell’euro: anche la popolazione tedesca è in una situazione contraddittoria, che vuole tutti gli europei diventare luterani felici di essere spremuti e presi a calci da padroni e ceti politici autoreferenziali, vuole buttare fuori dalla zona euro e, se del caso, dall’UE la poco virtuosa Grecia e magari l’Italia, ma al tempo stesso vuole che procedano UE e solidarietà e amicizia tra i popoli europei. I giornali tedeschi, a parte quelli scandalistici, sono ferocemente critici nei confronti di Merkel e Schäuble, proprio per avere essi portato a crisi inoltrata la costruzione europea, proprio per la pochezza delle argomentazioni di costoro, i ridicoli proverbi luterani di Merkel e il brutale darwinismo sociale di Schäuble, proprio per aver messo essi ulteriore benzina nei serbatoi delle destre fasciste e semifasciste europee, soprattutto in quelli delle destre orientate all’uscita dall’euro o anche all’uscita tout court dall’UE. Anzi i giornali di tutta Europa sono prevalentemente su questa linea. La Germania, in breve, ha esagerato, non ha saputo prendere le giuste misure, e ora subisce una sorta di effetto boomerang che orientato a indebolirla. Tra i dati di questa situazione c’è che le vaghe chiacchiere e le timorate richieste di governi come quelli francese e italiano sono diventate un fatto politico potenzialmente importante. È chiaro che il governo italiano non voleva arrivarci, ma la politica è spesso sorprendente.
Le sinistre europee potranno giocare, dato questo nuovo contesto, una partita utile alle classi popolari europee e alla democrazia? Bisognerà che si uniscano, nei vari paesi e a livello europeo: ma su una base seria, cioè diventando capaci di fare politica anziché produrre chiacchiere vacue e altisonanti, quindi capaci di intervenire anche sulle contraddizioni, come si diceva una volta, dell’avversario, cioè su quelle degli schieramenti politici dei vari paesi UE e su quelle che si sono aperte tra i poteri europei. Da sole queste sinistre, chiuse di fatto o per scelta in ridotti settari, è chiaro che non ce la farebbero mai. Hic Rhodus, hic salta.