Come probabilmente molti sanno, Carofiglio autore di importanti e noti libri, tra cui “Il passato è una terra straniera”, che lo ha reso famoso, e il filone di romanzi che vede come protagonista l’avvocato Guerrieri, comparso per la prima volta in “Testimone inconsapevole”, del 2002, a cui ha fatto seguito “Ad occhi chiusi” e “Le perfezioni provvisorie”; altri titoli importanti sono “Né qui né altrove. Una notte a Bari”, “Il paradosso del poliziotto”, il saggio “La sottomissione delle parole”, “Il silenzio dell’onda” (finalista al Premio Strega). Tra gli ultimi lavori ricordiamo “Il bordo vertiginoso delle cose”, del 2013, “La casa nel bosco”, lavoro scritto a quattro mani insieme al fratello pubblicato nel 2014 e dello stesso anno è anche il suo ultimo lavoro “La regola dell’equilibrio” in cui torna in azione l’avvocato Guerrieri. Oltre ad essere autore di questi e altri importanti romanzi e racconti che gli hanno fruttato notevoli premi, lo scrittore barese è stato anche magistrato dal 1986 (da cui poi uscito successivamente alla sua attività parlamentare) e durante la XV Legislatura è stato designato consulente della Commissione parlamentare Antimafia, e dal 2008 è stato eletto senatore per il Partito Democratico.
A dare il via alla “chiacchierata” è stato Gennaro Capuano, titolare dell’Associazione culturale Pagine & Costole che opera in totale sintonia con la Libreria dei Lettori, che ha incalzato Carofiglio sottoponendogli la citazione dello scrittore Paul Nizan “Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”, accompagnandola con una citazione più prosaica letta sul post di una signora “scusatemi se sono vecchia”. Carofiglio commenta dicendo che in effetti oggi per molti è difficile accettare l’idea di invecchiare, la vecchiaia viene avvertita quasi come una colpa o comunque come una condizione di estrema fragilità, come anche la malattia, che ci fa sentire inadeguati e ci induce di conseguenza a provare addirittura un senso di vergogna per questa improvvisa condizione di debolezza, di progressiva perdita della propria autonomia, fisica e a volte anche mentale; dall’altro versante la giovinezza non sempre è così meravigliosa come ci appare nei ricordi che in qualche modo la idealizzano, la rivestono di un’aurea magica, un’età d’oro che forse sembra tale proprio nel momento in cui è irrimediabilmente perduta. Restano struggenti nostalgie evaporate nell’affastellarsi dei giorni, incise nella pelle incartapecorita dalle rughe, portate via dallo scorrere incombente e sempre più incalzante del tempo, quel senso di “superpotenza” incontenibile che una frase di “Ad occhi chiusi” dello stesso Carofiglio rende così bene: “L’aria vibrava delle nostre possibilità infinite, in quelle sere di primavera. Vibrava nei nostri occhi un po' sfuocati dalla birra, sulle nostre pelli tese e abbronzate, sui nostri muscoli giovani, sulla nostra voglia rabbiosa di tutto”. Restano teneri e fantastici vagheggiamenti quei sogni così iperbolici e gettati sempre più avanti, verso orizzonti alti e inaccessibili (ma che quando si è giovani sembrano accessibilissimi); resta un’effimera chimera quell’idea che fosse la realtà ad innalzarsi ad essi e non loro ad abbassarsi e piegarsi alla realtà; svaporano come bolle di sapone quegli istanti che sembravano dilatarsi all’infinito, traboccanti di speranza, ideali, fantasia, quei sentimenti vissuti all’ennesima potenza, quando una ferita diventa mortale e un bacio si trasforma immediatamente nella promessa – poi probabilmente non mantenuta – di un amore eterno, e un piccolo torto o una minima ingiustizia fanno accendere la furia dell’ira funesta di un Achille dei nostri giorni, viene impietosamente irrigidito nelle maglie dei doveri e delle responsabilità concrete quel senso di incondizionata libertà, la libertà che andava dal disimpegno incompreso proprio della “spavalda impenetrabilità” (cit. Serra) degli adolescenti alla Libertà con la L maiuscola, intesa nel suo significato più alto e nobile.
Ebbene tutto questo, una volta che è fuggito via esalando il suo ultimo alito di fiato, una volta che i sogni sono stati abortiti dal brutale impatto umano troppo umano del reale che li soffoca o li ridimensiona miseramente, appare nella mente ormai pienamente adulta o già vecchia di colui che rimembra al suo passato in una luce di intoccabile e gloriosa bellezza, di irripetibile felicità, che ci è stata strappata una volta per sempre e che mai tornerà a trovarci, e ci viene da pensare che mai ci sentiremo di nuovo così vivi e immensi, mai avvertiremo più la vita scoppiarci dentro ed esplodere da ogni poro della nostra pelle, mai ci risentiremo padroni del mondo, re solitari e selvaggi di un universo soltanto nostro. Ma, dice Carofiglio, è soprattutto il gioco della memoria che ricolora con tinte chiare e solari un periodo che quando lo viviamo in realtà presenta anche molti toni scuri e ombre grigie, quando ci siamo in mezzo alla giovinezza, non è detto (non lo è quasi mai) che ci si stia così bene. In uno dei suoi romanzi, il protagonista in un dialogo interiore tra sé e sé comincia a vedere il suo passato come se gli si snodassero davanti le immagini di un film, sempre lo stesso, ma in realtà la memoria non agisce in questo modo: ogni ricordo, nel momento stesso in cui si attiva sarà sempre diverso da un ricordo che riporta alla mente gli stessi avvenimenti ma facendoli riaffiorare in maniera completamente diversa, anche fosse solo per minimi dettagli, dalla prima volta in cui si era attivato. La memoria è costruttiva, non ripete, ma piuttosto crea, o comunque gioca intessendo una ragnatela di ricordi con fili sempre diversi.
Gennaro punta poi l’accento su un termine ricorrente nei romanzi di Gianrico, ovvero disposofobia. Questa parola, spiega l’autore indica il comportamento di acquisto o possesso compulsivo, è la malattia di chi si procura in maniera quasi ossessiva, patologica beni materiali che accumula e di cui non riesce a disfarsi. Anche l’avvocato Guido Guerrieri soffre di disposofobia, per quanto riguarda i libri, tanto da non esser capace di uscire da una libreria senza averne comprato almeno uno e a un certo punto costretto a prender la sofferta decisione di sbarazzarsi di un quintale di libri che avrebbero forse finito per seppellirlo!
A una domanda di una signora del pubblico, su come sia nata l’idea de “Il passato è una terra straniera”, Carofiglio risponde che l’idea di quel romanzo la stessa che muove anche l’ultimo lavoro, ovvero una riflessione che parte dal labile confine, molto spesso difficile da discriminare, tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. I protagonisti di quel libro cominciano barando a carte e da lì si immettono in una strada che li porterà a commettere azioni ben più peccaminose e pericolose..questo per dire come sia umanamente facile e quasi naturale scivolare in comportamenti sbagliati, anche da una piccola prima mossa falsa rischiamo di perdere totalmente l’equilibrio, troppo fragile e delicato e compromettere tutto il nostro cammino, è fin troppo frequente immettersi in quella che De André in una bellissima canzone chiamava “La cattiva strada”, o perché seguiamo seduzioni che provengono dall’esterno o perché siamo umanamente deboli, incapaci di resistere alle lusinghe del “diavolo”, che si presenta sotto infinite vesti e molteplici e ingannevoli maschere luccicanti, o perché, aggiungerei, magari il male a volte ci piace e ci piace commetterlo, soprattutto se finalizzato a preservare il nostro bene o i nostri interessi. Il consiglio di Gianrico è cercare di camminare mantenendosi in equilibrio ma con la consapevolezza e l’accettazione del fatto che quell’equilibrio si spezza facilmente e che qualche volta rischiamo di perderlo e cadere, se non addirittura sprofondare.
Il dialogo tra pubblico e autore continua brioso, condito da aneddoti divertenti e dall’ironia (e autoironia, che non è dote da poco in un autore di così alto calibro e notorietà!) scanzonata e simpatica (ma mai sguaiata o scontata) di Carofiglio, che a un certo punto si sofferma sulla figura del libraio. A suo parere la bravura di un libraio professionista, o comunque di un buon libraio sta nel capire chi si trovi di fronte, nel parlare con l’eventuale lettore, capire i suoi gusti, i suoi interessi, la sua indole e saper dare consigli che rispecchino questi aspetti e non i gusti personali del libraio, che quindi dovrebbe essere persino capace di consigliare libri che magari a lui per primo non sono piaciuti, se a suo avviso vanno però incontro a quelli di colui che ha davanti o rispecchiano le sue esigenze di lettore. L’importante è proprio il saper parlare di libri, tentare di farlo – e non solo tra librai e avventori di librerie – anche tra i giovani è una cosa bella e preziosa, è importante e addirittura gratificante. Parlare di libri tra amici, conoscenti, persone sconosciute pure, è la miccia che consente l’esplosione dei libri di cui si parla, perché parlare di questi innesca il passaparola, che ha molto più potere della pubblicità o delle buone recensioni, che sì, certamente aiutano e fanno piacere, ma senza lo scambio di opinioni, consigli di lettura di libri che ci hanno folgorato, l’entusiasmo con cui parliamo a qualcuno del nostro autore preferito..anche la pubblicità e le recensioni rimarrebbero piuttosto inerti, se non vengono accompagnate da questo “contagio” tra individui che si scambiano pareri, suggestioni e giudizi, invogliando o meno a leggere questo o quest’altro libro. Lo scrittore aggiunge anche che la bellezza della lettura sta principalmente nel fatto di essere un’attività anarchica, totalmente libera e per questo si dice un po’ insofferente a liste composte da un certo numero di libri da leggere stilate da editori che si sono riuniti per stilarla. La lettura non è un’attività pianificata, di costruzione da un vertice verso il basso, ma è libertina, irregolare, e più “clandestina” è meglio è.
Rispondendo ancora a una domanda da parte del pubblico, Carofiglio precisa:
“Quando scrivo i miei libri non ho una tesi da enunciare o dimostrare, non voglio convincere il lettore a pensare in un certo modo. Io voglio raccontare una storia, con dei personaggi che certo hanno un senso ma che non vogliono essere delle categorie indicative su come orientarsi nel mondo, non voglio dare delle ricette morali ma presentare i personaggi e la loro storia. Poi sicuramente attraverso di essi vengono fuori anche quelli che sono le mie gerarchie morali, i miei punti di vista, che possono riflettersi in quelli dei personaggi che animano i libri..ma tutto questo è semmai un risultato non certo una premessa, viene fuori da sé e solo dopo”.
Il libro non fornisce dogmi, verità, costruzioni sui massimi sistemi, ma sta lì per “moltiplicarsi indefinitivamente per il gran numero di lettori” che lo legge. La scrittura è certamente un atto creativo, partorito dalla fantasia dell’autore, ma altrettanto creativa è la lettura, perché essa colma i vuoti che intenzionalmente l’autore lascia nelle pagine dei suoi romanzi, perché ogni lettore con la sua fantasia e immaginazione si crea nella sua testa il volto del personaggio, la strada su cui cammina, la casa in cui abita, dà le interpretazioni che più gli sembrano adeguate ai fatti della storia, ai comportamenti dei personaggi, alle sue azioni, ai suoi pensieri e quindi anche lui in qualche modo crea. Crea un libro che diventa anche il suo libro, dipinge con gli occhi della sua fantasia gli spazi bianchi che fortunatamente ci sono in ogni libro, proprio perché anche il lettore, con la sua sensibilità, la sua capacità immaginativa, riflessiva, interpretativa, partecipi attivamente alla lettura/co-scrittura del libro che legge e più sarà stimolato ad attivare la sua mente e il suo pensiero, più significherà che quel libro lo sta coinvolgendo e lo sta facendo spaziare con mente e cuore in quel mondo di carta, mondo che da fittizio assume sempre maggiore realtà dentro il cervello e l’anima del lettore. È come se la mano che ha scritto il libro toccasse quella di chi legge, accompagnandola inizialmente per un po’e poi, quando la mano comincia a farsi più autonoma e a muoversi con disinvoltura tra le pagine, la lasciasse completamente libera di seguire la sua strada tra quelle pieghe che in qua e in là sono lasciate all’interpretazione creativa del lettore: “il lettore dipinge con gli occhi della sua fantasia quegli spazi bianchi lasciati dall’autore”, perché un libro è loquace certo, ma non deve dire tutto, spiegare tutto, descrivere tutto, deve anche aver la capacità di sussurrare segreti e domande a cui ogni lettore può dare la sua intima e personale risposta.
Gennaro si sofferma poi su una scena di Testimone inconsapevole: siamo nello studio dell’Avvocato Guerrieri e alle pareti vediamo una foto con dei bambini palestinesi circondati dalle macerie e dalle devastazioni della guerra, dalla violenza delle bombe e in fondo una famosa citazione di Bertol Brecht: “Ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano stati occupati”. Può un rappresentante della legge, come Guerrieri appunto, “sedersi dalla parte del torto?”, chiede a questo punto Capuano. “Deve”, afferma l’autore. Un rappresentante della legge deve stare dalla parte del debole, dell’indifeso, dell’inerme, di chi è lasciato solo. La frase di Brecht è meravigliosa proprio perché capace di fotografare perfettamente, in sole poche righe, l’essenza del comportamento morale, che è appunto quello di stare dalla parta del debole, di chi non ce la può fare da solo, di chi è lasciato a sé stesso e non ha mezzi o strumenti per difendersi, per proteggersi, pur non avendo commesso alcuna colpa. Emblematico è il caso di quei bambini palestinesi della foto, che gridano aiuto senza venire ascoltati. Anche il successo, così tanto decantato, assunto a mito nella nostra epoca, è soprattutto dovuto alla fortuna. Fortuna che però è in debito nei confronti di chi questa fortuna non ce l’ha, ha degli obblighi, degli oneri (e non solo onori) verso coloro che “sono seduti dalla parte del torto”, un torto molto spesso deciso soltanto da una cattiva sorta o dalla sopraffazione di chi invece è intronato su sedie regali chiamate “giuste”. Un’altra frase fondamentale, a detta dall’autore è di Adorno: “La forma più alta di moralità è quella di non sentirsi mai a casa, nemmeno a casa propria”. Ciò significa che il nostro agio dovrebbe metterci a disagio, nei confronti di chi questo agio non ce l’ha, il nostro benessere non dovrebbe farci stare tanto bene, pensando a chi questo benessere non lo vive o lo ha perduto, la nostra ricchezza dovrebbe crearci un po’di imbarazzo nei confronti di chi è povero. A casa nostra non dovremmo perciò sentirci così piacevolmente e serenamente a casa.
Incalzato da una domande sulla critica, Carofiglio scherza sarcasticamente un po’ citando Steinbeck, non molto lusinghiero verso i critici, tanto che per lui trattamento da riservare ad essi avrebbe dovuto essere quello di calarli nella pece fino a coprirli sempre di più. “Almeno che quei bastardi non ci diano approvazione incondizionata, il mio consiglio è ignorarli”, scriveva lo straordinario autore americano. In Italia, prosegue Gianrico, la situazione dei critici, è, permettetemi il gioco di parole, piuttosto critica. Gran parte di loro non legge neanche i libri che recensisce o in parte scrive determinate cose per problemi di concorrenza con altri critici. In ogni caso il critico rimane comunque un lettore. Ma la sua opinione non deve essere la verità assoluta. Se ci piace un quadro, anche se il critico d’arte ci vede tutt’altro a noi non deve smettere di suscitare quello che ci suscita, indipendentemente dal giudizio che ne dà l’esperto. Certo, pareri di chi ha più strumenti o maggiori competenze per giudicare le opere d’arte possono essere utili ma non sostituiscono le nostre personali sensazioni o anche le nostre libere interpretazioni, non è la critica che deve farci o meno apprezzare un libro, né un esperto d’arte può cancellare le emozioni che un determinato quadro ci infonde, per quanto possa aiutarci a comprenderlo, a spiegarcelo, a contestualizzarlo ecc.. ma poi il giudizio finale è rimesso soltanto a noi. Anzi, a volte, avere un approccio più vergine alla bellezza, in qualsiasi forma si presenti ci porta forse ad estasiarci di più, ci riempie in maniera ancora più intensa, proprio perché non sentiamo il bisogno di spiegarcela, di capirla perfettamente. Ci lasciamo toccare da questa magia, questo incanto che non ha bisogno di commenti, di delucidazioni, è qualcosa che ci tocca nel profondo, qualcosa che ci mette in moto un brusio di infinite sensazioni dentro di noi, uno sciabordio di pensieri, immagini, che non hanno neanche bisogno di trovare parole per essere espressi o tantomeno spiegati nei minimi dettagli. Quello che ci accade dentro rimane nostro, intimo, meravigliosamente inesplicabile, immensamente inesprimibile. La bellezza ci sorprende, ci invade, ci possiede a anche quando rimane in silenzio, anche quando non siamo degli esperti intenditori che ne diano delle teorie assertive. Così anche il personaggio di Guerrieri, definito dal Times, come un “personaggio meraviglioso”, è tale perché ad essere meraviglioso è il modo in cui si presenta, è il suo essere trasparente e il suo venirci incontro con estrema trasparenza. Prodigioso è riuscire a intravedere un mondo che balena e si anima dentro quella meravigliosa trasparenza che potenzialmente è propria di ogni cosa, se sappiamo guardarvi attraverso.
Una cosa che invece l’autore pugliese detesta è la banalità, che è “un tossico dell’intelligenza, così come lo è il luogo comune. Proprio per evitare questi due veleni dovremmo imparare a essere un po’vigili su noi stessi e su quello che diciamo, per non correre il rischio di dire cose che non servono a comunicare, ma anzi che intossicano la conversazione.” La banalità uccide il pensiero, il pensiero autonomo, il pensiero critico, interessante, crea qualunquismo, conformismo, nozionismi inutili, luoghi comuni pericolosi e assurdi, giudizi affrettati e non meditati, che non sono frutto di informazione vera o ragionamento serio. Uccidono le parole. Uccide i silenzi, a volte così necessari.
Infine, dopo averci raccontato un divertente fatto personale capitatogli in treno, l’autore ci lascia leggendoci quella che la Libreria dei lettori, che ha pubblicato sul sito, scrive essere la sua “dichiarazione” sulle librerie e su quanto lo abbiano influenzato.
“Avevo nove anni quando un cugino di mio padre aprì una piccola, bellissima libreria vicina a casa. Certi pomeriggi d’inverno, se finivo presto di studiare, avevo il permesso di andare da solo in quella libreria – Rinascita, si chiamava – dove il cugino di papà mi lasciava leggere tutti i libri che volevo.
Giravo fra gli scaffali per una decina di minuti, poi prendevo due o tre libri e andavo a sedermi vicino alla cassa dove li sfogliavo e finalmente sceglievo quello che avrei letto quel pomeriggio.
Franco – il libraio – era un uomo piccolo, dall’aria mite, sorridente ma con una piega amara, come un presagio. Quando non c’erano clienti chiacchierava con me, di libri e altre cose, trattandomi come un adulto. Ogni volta, mi offriva, facendola portare dal bar lì vicino, una tazza di cioccolata calda. Poche volte, nella mia vita, mi sono sentito così perfettamente al mio posto come in quei pomeriggi d’inverno.
Tutto finì quando la libreria dovette chiudere dopo aver subito un attentato incendiario da parte di una banda di fanatici neofascisti, cui non piacevano le idee politiche del libraio. Ai fascisti e a i nazisti è sempre piaciuto dare fuoco ai libri.
Credo sia il ricordo di quei pomeriggi di inverno e di quella sensazione perfetta, che mi porta a entrare in una libreria ogni volta che ci passo davanti; nella mia città o in qualsiasi posto in giro per il mondo. Entro in libreria, comincio a sfogliare i libri per scegliere quello che comprerò (ne compro sempre uno) e il ritmo, spesso assurdo, dell’esistenza riprende in un attimo una dimensione più umana. E io mi sento al mio posto, semplicemente.”