Anni ’70. L’Alto Adige è la “Belfast con lo strudel” in cui le tensioni etniche tra le popolazioni di lingua tedesca e lo Stato italiano sono alle stelle e possono manifestarsi con il fragore degli attentati dinamitardi così come attraverso il silenzio ostile riservato in un bar di paese al forestiero di lingua italiana. All’ombra di tutto ciò, si agitano e si arricchiscono figure losche e temibili come Robert Wegener, un “traditore di tutti” che negli anni oscuri della guerra, benché ragazzino, ha collaborato con l’occupante nazista per lasciarsi alle spalle la miseria e diventare un uomo ricco, potente e, soprattutto, temuto.
E Herr Wegener è in effetti capace di incutere terrore a tutti: vittime, nemici, alleati e tirapiedi. Solo una persona ha il coraggio di sfidarlo: la moglie Marlene che, in uno scatto di emancipazione che è al tempo stesso figlio della libertà e della generosità, scappa dal marito portando con sé un gruzzolo di zaffiri che rappresenta per Wegener il punto di svolta della sua carriera criminale.
I potentissimi soci di Robert -riuniti in un Consorzio che riunisce criminali, imprenditori e membri di apparati deviati di diversi Stati occidentali- non apprezzano la mossa di Marlene e decidono di mettere sulle sue tracce l’Uomo di Fiducia, un killer brutale e meticoloso deciso a riportare le preziose gemme ai suoi datori di lavoro.
Ma la fuga della donna si conclude presto e male: la notte stessa della sua partenza Marlene viene sopraffatta dalla neve e finisce fuori strada. La salverà Simon Keller, un Bau’r, un contadino che vive solo in un maso lontano da tutto e da tutti, dove porterà e accudirà la fuggiasca.
Lì, cullata dalle attenzioni di Simon e da una casa piena di oggetti e abitudini che la riportano alle radici profonde della civiltà montanara, Marlene si sente protetta, serena, tranquilla. Tutto quello che la circonda, in quel maso di alta montagna, appare rassicurante, puro, giusto, contrapposto alla violenza e alla meschinità della vita di città che ha abbandonato. Lì, nonostante le asprezze e le difficoltà di una vita scandita da consuetudini arcaiche e austere, appare possibile riscoprire le propria autenticità e immaginare un futuro felice per sé e per chi la circonda.
Ma cresce nell’ombra e si fa strada giorno dopo giorno la inconfessabile verità di quelle montagne, con le sue vicende agghiaccianti e i suoi fardelli troppo pesanti per essere retti sulle spalle di una sola persona.
E così, in una storia dove sembra esserci spazio solo per la lotta tra un potere famelico e la voglia di sfuggire ad esso, si insinua fino a occupare tutta la scena una follia che non ha nulla di astratto o di diabolico, ma è figlia del dolore, della solitudine e della fragilità umana.
“Lissy” è un’opera straordinaria: il ritmo incalzante della scrittura, l’abilità con cui l’autore tesse le singole traiettorie dei personaggi in un’unica trama, la rara capacità di D’Andrea di tratteggiare figure umane complesse andandone a scandagliare le profondità più recondite della mente, rendono questo romanzo (che ha meritatamente ricevuto il Premio Scerbanenco 2017) una delle novità più interessanti della letteratura noir italiana degli ultimi anni.