Cultura

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Dalla divulgazione scientifica alle recensioni di romanzi, passando per filosofia e scienze sociali, abbracciando il grande schermo e la musica, senza disdegnare ogni forma del sapere.

Immagine liberamente tratta da pixabay.com

Mercoledì, 06 Aprile 2016 00:00

Il White Album dei Weezer

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Il White Album dei Weezer

Dopo quello blu, quello verde e quello rosso, non poteva mancare un White Album per i Weezer, disco che più che un nuovo inizio, rappresenta piuttosto una piacevole riconferma dopo la buona prova del precedente Everything Will Be Alright in the End (2014). Così Rivers Cuomo e soci si lasciano definitivamente alle spalle i passi falsi dei primi anni duemila, segnato da prove mediocri che hanno caratterizzato il punto più basso della oltre che ventennale carriera del gruppo di Los Angeles. Ora, il declino può dirsi totalmente interrotto per uno dei progetti musicali più di culto degli anni novanta.

Aiuta un atteggiamento ottimistico (in apertura si declama a gran voce "Wind in our Sail" ) e un ritrovato ed apprezzabile esercizio di modestia: consapevoli dei propri limiti e senza strafare, si rafforza il ritorno a quel linguaggio college rock semplice ma efficace, che i Weezer hanno contribuito a coniare, fra chitarre taglienti e melodie dirette in un baccanale power pop, con increspature grunge, gustoso e adrenalinico.

Eterni portavoce del disagio nerd, prototipi dell'onnipresente senso di inadeguatezza post-adolescenziale, Cuomo e soci, ormai troppo "in là" con gli anni per riproporre l'ennesima collezione di piccole tragedie esistenzial- amorose da college, tracciano un policromatico affresco della loro west coast, gironzolando fra comunità Hare Krishna e Sikh su roller blades e passando il tempo a bighellonare con i colleghi di altri gruppi locali. In un disco che suona come un amaro ma sincero tributo alla California ("California Kids", "L.A. Girlz"), si rincorrono sinistre storie di dipendenza ("Do You Wanna Get High") e ironiche riflessioni sui moderni sistemi di online dating come Tinder ("Thank God for the Girls").

Permeata da una patina di nostalgia anni novanta volta a riportare i Weezer allo stile alternative rock del celebre Blue Album e ai devastanti singoli "Buddy Holly" e "Say It Ain't So", il nuovo lavoro si destreggia con armonia fra irruzioni punk-pop ("King of The World"), grunge-pop ("Do You Wanna Get High"), ammiccamenti emo ("Wind in Our Sails") e concedendosi persino un indie-folk un po' Elliott Smith ("Endless Bummer"). Sullo sfondo, la solita, ingombrante presenza del pop solare e sofisticato dei giganti Beach Boys permea tutto il disco.

Se il 2014 è stato l'anno della resurrezione dei Weezer col bel lavoro di Everything Will Be Alright in the End, il 2016 verrà ricordato come l'anno della conferma di un ritrovato stato di forma che sembrava ormai una chimera anche per i fan più ottimisti. Questo White Album segna anche il definitivo ritorno al loro stile originario, alla loro sapiente miscela di punk pop, indie e grunge. Nonostante ciò comporti un suono più canonico e prevedibile, i Weezer tornano a fare ciò che sanno fare meglio e la scelta paga.

voto: 6,5/10

Nell’ambito del suggestivo convegno “La magia dell’arte, l’arte nella magia nel Medioevo e Rinascimento”, organizzato dall’Istituto francese in collaborazione con l’Università degli Studi di Udine, con il SAGAS (dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo) dell’Università degli Studi di Firenze, con il Centre d’Études Supérieures de la Renaissance (CESR) e l’Université Fançois Rabelais de Tours, molto si è parlato di magia, di alchimia, di amuleti, gemme magiche, stregoneria, influenze astrali , “signa”, macchine sonore e tanto altro ancora.

Il convegno, inaugurato giovedì 31 marzo dalla lectio Magistralis di Attilio Mastrocinque sul fascino e l’origine di amuleti e gemme gnostiche, e conclusosi sabato 2 aprile, ha visto susseguirsi interventi da parte di docenti, ricercatori, e dottorandi italiani e francesi esperti e appassionati di magia, esoterismo, iconografia alchimia, misteri isiaci e altro ancora.

Uno degli interventi, di Mino Gabriele, professore di iconografia e iconologia e di Scienza e filologia delle immagini presso l’Università degli Studi di Udine, si è concentrato sulla “Magia e alchimia nei simboli della Porta Ermetica di Roma”.
Secondo l’esperto di iconografia, la Porta Ermetica è la sintesi perfetta di quelle forze ed energie spirituali, esoteriche, alchemiche, ricorrenti dall’antichità fino ai tempi moderni. Gabriele tende a sottolineare come oggi la nostra conoscenza e la nostra mentalità, più scientifiche, selettive, parcellizzate o persino “frantumate” abbiano perso quella visione, che dall’antichità fin verso il Rinascimento, teneva insieme saperi diversi e, per noi moderni, opposti tra di loro. Irrazionale (come chiameremo noi tutto ciò che è attinente alla magia, alla stregoneria, alla necromanzia, all’alchimia o all’astrologia) e razionale andavano a braccetto. Filosofi, scienziati, matematici, astronomi erano quasi sempre interessati o esperti di influenze astrali, di simboli alchemici, di magia ed esoterismo. Nel “De Architettura” di Vitruvio ad esempio, si legge che l’architetto deve essere anche un astrologo, un geologo, un archeologo, a rimostranza che esisteva una visione unitaria e chiasmatica delle varie discipline. Porfirio, ad esempio, nonostante sia stato uno dei più importanti logici dell’antichità, riusciva a combinare perfettamente la propria visione matematica e logica del mondo con l’interesse per i simulacri e le pratiche alchemiche. Persino i personaggi più insospettabili, o che noi conosciamo grazie alle loro scoperte matematiche, astronomiche, geometriche, scientifiche in generale, erano in realtà molto legati ai saperi magici e pure un po’superstiziosi. L’alchimia, l’astrologia, la magia, erano considerati saperi di portata scientifica.

Gabriele esordisce raccontandoci l’episodio dell’Obelisco egiziano (secondo Plinio originario della città di Heliopolis) portato a Roma, da Alessandria d’Egitto, da Caligola nel 40 d.C. e collocato sulla spina del Circo di Nerone. Quando, verso la metà del ‘500, grazie a Papa Sisto V (che realizzò il progetto che già era di Papa Nicolò V – 1450 circa), esso fu trasferito in Piazza San Pietro, fu indetta un’immensa processione organizzatissima e accompagnata da un rito di esorcismo con preghiere caratterizzate dal sanare l’obelisco da eventuali demoni pagani che avrebbero potuto possederlo. L’obelisco che, come ci insegna Plinio, era simbolo dei raggi solari, diventa ora simbolo cristico, tanto che sul dado che lo sostiene vi è incisa un’iscrizione in cui si legge: “l’obelisco dedicato dagli antichi ad empio culti, e purgato da impura superstizione, ora più giustamente e più felicemente viene dedicato da Sisto alla Croce Invitta”.
Anche ai nostri giorni restano comunque residui di pratiche apotropaiche. C’è tutto un mondo che per quanto possiamo oggi confinare nell’irrazionale o viverlo in maniera quasi atarassica, indifferente, continua a pullulare, sotto o in parallelo alla nostra razionalità scientifica e selettiva. Moro stesso, ad esempio praticava sedute spiritiche a Roma. Insomma, la lunga tradizione magica, esoterica, e misterica è una tradizione ininterrotta e forse mai del tutto destinata a scomparire, sebbene vissuta e interpretata in maniera molto diversa.

Ma veniamo alla nostra Porta magica. Siamo a Roma nel 1600. Anche il papa di allora, Clemente VII, era un noto praticante di alchimia. L’alchimia era una sorta di proto-chimica. Ovviamente non c’erano ancora le basi matematiche e prettamente scientifiche sviluppatesi più tardi, ma essa riguardava lo studio della trasformazione dei metalli, degli elementi vegetali e della costruzione delle armi. Evento di radicale importanza, in questo periodo, fu l’arrivo di Cristina di Svezia a Roma, regina protestante che però si convertì al cattolicesimo, cosa che rappresentava un evento straordinario e mirabile per i cattolici dell’epoca. Così, quando costei arrivò a Roma, Papa e vescovi l’accolsero con estrema devozione. Cristina era tra l’altro una donna dotata di un’intelligenza sorprendente, oltre ad essere dottissima e coltissima. Era anche una donna molto libera dal punto di vista della sessualità e soprattutto con un tenore di vita dispendiosissimo. La regina amava circondarsi dei chimici, scienziati, filosofi, astronomi, artisti e musicisti più noti dell’epoca, che invitava nei laboratori sparsi nelle proprie tenute e di cui finanziava numerosi progetti, tra cui l’edizione greca e latina (pubblicata a Roma nel 1630) del grecista Holstenius della porfirea Vita di Pitagora, di cui lei era molto appassionata. In particolare si dedicava molto all’alchimia, mossa soprattutto dal desiderio quasi ossessivo di scoprire il modo per trasformare i metalli in oro. Con una portata di intelligenza, cultura e libertà tali, fu piuttosto scontato che intorno a lei si formasse anche a Roma una corte di matematici, filosofi, artisti, scienziati. Tra questi, alla corte di Cristina, c’era anche Massimiliano Palombara, marchese di Pietraforte e noto a Roma per la sua passione per l’esoterismo e le pratiche magiche, nonostante anch’egli fosse comunque poeta e studioso dei maggiori trattati scientifici dell’epoca. Costui fece edificare nella sua residenza – villa Palombara – presso la campagna orientale romana, sul colle Esquilino, la succitata Porta Alchemica, tutt’oggi collocata in Piazza Vittorio, e che è l’unica porta sopravvissuta delle cinque che contornavano la villa, anch’essa piena di epigrafi alchemiche e scritte simboliche di Palombara, a testimonianza dei suoi interessi esoterici. La villa venne distrutta in epoca ottocentesca, insieme a molte altre, in seguito alla realizzazione di progetti urbanistici volti alla trasformazione di Roma in una grande capitale moderna. Sull’area in cui sorgeva la villa vennero però rinvenuti importanti reperti, tra cui il famoso discobolo. Tornando alla Porta Magica. Ancora oggi la porta, essendo andato perduto ciò che racchiudeva, è di difficile, se non impossibile, decifrazione e de-criptazione, ricca com’è di simboli alchemici. Poco o nulla si sa di essa, se non che era aperta – priva cioè di ante – e che era sita nel giardino della Villa, sebbene non si sappia precisamente dove. Si potrebbe supporre, data l’ammirazione di Cristina verso Pitagora, il quale insegnava ai suoi iniziati attraverso un velo, che anche in mezzo alla porta ci fosse una sorta di velo, a simboleggiare che dietro di esso si celasse l’accesso ai saperi universali e alla conoscenza misterica. Ma anche questa è solo un’ipotesi.

Uno dei testi di riferimento per tutti gli appassionati dell’alchimia dell’epoca, tra cui appunto lo stesso Palombara, era “L’anfiteatro della sapienza eterna”, da cui provenivano le maggiori conoscenze di alchimia mistica e cabalistica, ma collegate con la rivelazione divina, con chiare evocazioni del Mistero Cristiano. L’autore dell’opera, Heinrich Khunrath, era stimatissimo da Palombara e dai seguaci seicenteschi della setta dei Rosacroce ed è (anche) da questo testo che probabilmente provengono molte simbologie della porta ermetica. Occorre ricordare che nel 1558 la Chiesa Cattolica stilò l’Index dei libri proibiti, terribile strumento demandato alla Santa Inquisizione, nelle cui grinfie censorie finirono molti testi non conformi ai canoni cattolici e che quindi venivano condannati e/o bruciati. Tra di essi anche molti testi magici o alchemici. In alcune biblioteche o archivi storici potrebbe capitare di vedere sulla costola di libri antichi una, due, o tre croci: esse indicavano la progressiva gravità eretica del testo, laddove ovviamente le tre croci marchiavano i libri maggiormente pericolosi, considerati come vere e proprie opere del demonio. Siamo dunque in un periodo di controllo intellettuale e culturale pesantissimo e anche altri testi del Khunrath, contenenti simbologie alchemiche e cabalistiche avversate dalla Chiesa cattolica come residui pagani, non poterono sfuggire alla censura e alla distruzione.

Insistente, sulla porta, è la presenza e la simbologia di mercurio, metallo che, se volatizzato ad alta temperatura, diventa oro. Forti sono gli accostamenti tra questo metallo e Cristo. Sui montanti degli stipiti sono raffigurati i simboli dei pianeti, a ciascuno dei quali corrisponde un metallo. Questi simboli sono dei “signa” di cui non facile è la decifrazione. Essi si ritrovano anche su diverse gemme gnostiche, di origine egizia, e che circolavano nel medioevo (e poi nel Rinascimento), soprattutto quando, verso il 1200 si diffuse la cosiddetta ars notoria. Questa arte, che si riteneva esser stata rivelata da un angelo del Signore a Salomone, conteneva una raccolta di preghiere, mescolate con parole cabalistiche e mistiche, che, se opportunamente recitate avevano il poter di far discendere un angelo dal cielo che avrebbe insegnato al mortale qualunque disciplina egli avesse voluto conoscere. Anche se l’ars notoria era considerata dai suoi praticanti come una magia bianca, cristiana, fu molto avversata, non solo perché contenente simbologie misteriche “pagane”(ritenute tali), ma anche negli ambiti delle Universitas medievali, dato che lo studente, investito della scienza infusa proveniente dagli insegnamenti anglici invocati con l’ars notoria non avrebbe più avuto bisogno di studiare. Nella sua Summa contra gentiles Tommaso non prendeva sul serio questa pratica, degradandola a mera superstizione. I cattolici che la praticavano si difendevano dalle accuse ammettendo che anche il medico guariva il malato attraverso la forza delle sue parole che quindi dovevano necessariamente possedere un potere magico. Sta di fatto che molti testi notari non furono risparmiati. La porta che però fu salvaguardata riporta molti di questi signa. Molte delle epigrafi, dei simboli e delle iscrizioni presenti provengono da un altro testo fondamentale per gli appassionati di alchimia, reinterpretata però alla luce della dottrina cattolica. Si tratta del De pharmaco catholico, testo rosacrociano (l’autore, anonimo, si professa tale) che in epoca seicentesca potrebbe dirsi un vero e proprio libro culto. Pare che lo stesso Isaac Newton, che tutti conosciamo per le sue rivoluzionarie scoperte scientifiche, tenesse questo testo sempre in tasca, come una sorta di reliquario, a dimostrazione che, persino un fisico, astronomo, matematico della portata di Newton, fosse ampiamente interessato ai speri esoterici e si fosse anche molto occupato di studi alchemici. Di nuovo si avverte come i vari ambiti disciplinari fossero spesso mescolati e inseriti entro una visione complessiva della conoscenza che tutti li teneva insieme, senza gerarchia o esclusività.

Il De pharmaco riguarda in particolare la trasformazione della materia e i modi per farlo. Il principio che sta alla base è il seguente: così come un discorso è composto da parole, che a sua volta sono composte da sillabe e queste da lettere, anche la materia è costituita dai suoi elementi che come le parole, racchiudono dei segni magici come fossero le sue sillabe. Una volta rivelato il significato di queste “sillabe” magiche io posso arrivare a trasformare tutto ciò che voglio. Questo tipo di trattati hanno avuto notevole successo. Uno dei più diffusi in epoca tardo-medievale e rinascimentale era il Picatrix, traduzione latina di un testo arabo del 1008 d.C, che racchiudeva ricette magiche per la costruzione di talismani e gemme, trasformazioni di metalli, invocazioni ai pianeti, corrispondenze tra piante, animali e segni dello Zodiaco, e presente, tra le altre, nella biblioteca di Cornelio Agrippa, Pitagora, Marsilio Ficino. Talismani, sillabe, parole ritenute magiche, gemme e metalli, divengono veri e propri strumenti energetici dotati di valore protettivo o apotropaico. Anelli e amuleti venivano portati addosso o fogliettini contenenti questi signa venivano addirittura mangiati, in modo da poter incorporare dentro di sé tutto il potere, la forza e l’energia sprigionata da questi strumenti magici. Purtroppo, come già detto, questi oggetti e i testi ad essi riferiti subirono tutta l’avversione della Chiesa Cattolica che li condannava come residui del paganesimo. La Porta di Palombara però, reca su di sé tutto quell’universo che univa magia a scienza, esoterismo alchemico e cabalistico e verità cristologiche in un connubio di simbologie alchemiche e verità divine che non finiscono di interrogare e di affascinare colui che vi si trova davanti, come una sfinge il cui enigma resta però insoluto. In questo caso, l’enigma o il messaggio “sfingico” lo si legge nell’iscrizione palindroma incisa sulla pietra dello stipite inferiore, il cui valore è polisemantico ed esoterico. Se infatti l’iscrizione viene letta da sinistra verso destra il suo significato è “se ti siedi non procedi”, ma se letta al contrario, da destra verso sinistra, essa diventa “se non ti siedi procedi”, denotando un invito a varcare la porta e accedere forse a un mondo di saperi inesauribili e commisti tra loro, di cui la porta magica è il simbolo e la rappresentazione perfetta, anche se il suo mistero resterà forse per sempre racchiuso dietro e dentro di sé. Anche per questo, però, essa avrà sempre il potere di incantarci.

Oggi quello del condividere è un concetto astratto, sia negli ideali che in famiglia

LA COMUNE ***1/2
(Danimarca 2016)
titolo originale: The Commune
Regia: Thomas VINTERBERG
Sceneggiatura: Thomas VINTERBERG e Tobias LINDHOLM
Cast: Ulrich THOMSEN, Trine DYRHOLM, Lars RANTHE
Durata: 1h e 50 minuti
Distribuzione: Bim
Uscita: 31 Marzo 2016

Questa è una storia che merita di essere raccontata. Da essere umano mi rendo sempre più conto di quanto sia importante condividere, ma contemporaneamente so quanto effettivamente sia difficile da applicare questo concetto in larga scala in questo mondo. Almeno in questo tempo storico. Questo film mostra tutto questo.
Se anche voi sentite questa esigenza, vi consiglio di arrivare fino in fondo.

Prendiamo la macchina del tempo e torniamo nell'anno 1995. Danimarca. Un gruppo di registi danesi aderirono al "Dogma 95" scegliendo di liberare le loro opere dalla "cancrena" degli effetti speciali. Solo camera a mano, luce naturale e realismo. I fondatori del movimento erano Lars Von Trier e Thomas Vinterberg. In dieci anni sono stati prodotti 35 film, ufficialmente registrati sotto il marchio del "Dogma".
1998. Al Festival di Cannes venne presentata la prima opera al pubblico. Si chiamava "Festen" e la regia era di Thomas Vinterberg. Inoltre nel cast c'erano sia Ulrich Thomsen sia Trine Dyrholm, presenti anche ne "La Comune". Il regista infranse una delle regole del manifesto. Era stato acquistato un abito apposta per il film e il regista dichiarò la "violazione". Il film vinse il Gran Premio della Giuria (per la cronaca, la Palma D'Oro andò a Theodoros Angelopoulos per "L'eternità e un giorno").

Proprio quest'opera venne definita necessaria e ottenne diversi riconoscimenti internazionali da critica e pubblico. Raccontava del finto perbenismo, dei vizi, della cattiveria della società, il rapporto tra implosione interiore ed esplosione esteriore, il rapporto tra apparire ed essere. In particolar modo in una famiglia ricca, protagonista della storia.
Dopo la fine del "Dogma" nel 2005, sia Lars Von Trier sia Thomas Vinterberg hanno continuato a fare film di qualità. A fine 2012 il secondo portò in sala il meraviglioso "Il Sospetto" che avrebbe meritato la statuetta agli Oscar 2014 (per la cronaca vinse "La grande bellezza" di Sorrentino). Se non conoscete questi due film, è difficile capire "La Comune", la nuova pellicola di Vinterberg presentata al Festival di Berlino 2016.

L'opera è ambientata negli anni '70 a Copenhagen, in Danimarca. Erik, docente di architettura, eredita dal padre una casa molto grande. La sua famiglia, composta dalla moglie Anna (Trine Dyrholm) e dalla figlia adolescente Freja, non può permettersi un immobile di quel livello. Lei decide di provare a portare amici e persone fidate nell'appartamento, condividendo tutto. “450 mq sono troppi. Vivere insieme significa potersi percepire, vedere, sentire, ascoltare” - dice Erik alla moglie. La donna, nota giornalista televisiva, riesce a convincere anche il marito. Invita gli amici ad andare a vivere tutti insieme sotto lo stesso tetto. Una casa privata diventa di fatto la comune del titolo. Il cohousing, insomma. “Forse un ambiente ristretto ti rende di vedute ristrette” - è il rimprovero di Anna verso Erik. Cominciano ad arrivano persone, le decisioni vengono prese “democraticamente”. Tutto sembra funzionare. Il problema è che l'armonia durerà poco (come in “Festen”, anche se con minor intensità).
Ha ragione il proverbio: tra moglie e marito non mettere il dito. Figuriamoci una caterva di gente. Infatti, poco dopo, Erik confida alla moglie un segreto: ha un'amante. È una sua studentessa, la giovane Emma (Helene Reingaard Neumann, nella realtà moglie e musa del regista). Talmente bella che sembra esser “uscita da un film francese”. Anna, nonostante tutto, gli dice di portarla nella comune. Riusciranno i nostri eroi a coesistere?

Un film dal solido impianto teatrale che pende tra commedia e dramma, dove gli adulti sono più “miopi” dei bambini. Nettamente. Gli emancipati sono proprio i giovani Freya e Vilads, che sono le proiezioni del regista stesso. Vinterberg, che in una comune ci ha vissuto davvero, racconta benissimo l'idealismo e l'utopia di quegli anni. L'emblema di tutto ciò è perfettamente incarnato nella figura di Anna (la strepitosa Trine Dyrholm, già vista in “Festen” e premiata con l'Orso d'argento a Berlino per questo film) che rimane due volte intrappolata nel mito della comunità. Dapprima è lei che convince il marito a fare questo passo, finendo poi per rimanere vittima del collettivismo. Il triangolo amoroso tra lei, il marito e l'amante è l'emblema della mancanza di collettività oggi. Si può condividere una vita? E un essere umano? Funziona oggi la vita di coppia? E la famiglia allargata? Le risposte si possono trovare in una battuta: “troveremo un modo”. Oggi tutto ha un prezzo. Ogni cosa viene fatta per interesse personale. Il marito, che non gliene frega niente di condividere, finisce per utilizzare questo sogno in suo favore. Anche la stessa Anna che è quella che ha necessità di fare tutto ciò, è una nota giornalista televisiva che usa il tutto per accrescere la sua immagine mediatica. Diciamolo forte e duro: la condivisione pura oggi non esiste. C'è sempre qualcuno che usa questo termine per trarne effettivamente un vantaggio (spesso economico e/o di visibilità). “Questa è casa mia” - dice un abitante della comune. “Invece no, è la casa di tutti!” - le risponde un'altra componente. È proprio in questo scambio dove si capisce il cambio di prospettiva: dal “pubblico” degli anni '70 alla privacy di oggi, dalla condivisione dell'epoca all'individualismo sfrenato di oggi, dal radicalismo di ieri al moderato di oggi (politicamente parlando). È questa la trasformazione che questo film riesce a far comprendere allo spettatore. Tutto ha un tempo. Tutto, prima o poi, finisce, sembra dirci Vinterberg. Anche il “Dogma” è stato così, a suo tempo. Esiste un tempo per nascere e uno per morire. Come gli esseri umani o i replicanti di “Blade Runner”. Ma quella è un'altra storia.

TOP
I temi del film sono raccontati con sapienza da Vinterberg attraverso l'esperienza personale. Le interpretazioni del cast (su tutti Thomsen e la Dyrholm, entrambi interpreti di "Festen") sono di primissimo livello

FLOP
Nella prima parte sceglie di raccontare la convivenza nella comune (il collettivo), poi nella seconda parte si sposta su quella familiare (aspetto individuale) "tradendo" l'input iniziale. "La comune" non ha la stessa intensità e la stessa ferocia di "Festen"

Il pop contemporaneo e lo spettro di Marx: il rapporto fra musica e innovazione

Se si dovesse fare un bilancio critico del panorama della musica popolare degli ultimi quindici anni, non sarebbero tanti gli analisti propensi a esprimere giudizi entusiasti. Ma l'immagine statica e desolante di un periodo di crisi artistica senza precedenti si scontra con la crescente consapevolezza che anche al giorno d'oggi è possibile realizzare ottimi dischi. Si fa così sempre più strada l'impressione che siamo di fronte a un problema che non riguarda tanto la qualità di ciò che ci ascolta, quanto piuttosto il rapporto fra musica e innovazione, che pare essere radicalmente mutato.

Questo aspetto è stato immortalato magnificamente nel seminale saggio Retromania del critico musicale Symon Reynolds. Lo studioso britannico ha messo in luce come la musica popolare sia diventata vittima di una forte dipendenza dal suo passato. Non solo non si possono scorgere all'orizzonte nuove forme espressive degne di nota (l'unico nuovo genere degli anni zero è probabilmente la dubstep), ma anche le più interessanti proposte musicali contemporanee sono molto spesso il risultato di un'operazione di contaminazione di vecchi generi musicali o di riproposizione di sonorità appartenenti a gruppi del passato. Questa ossessione per il passato, in realtà non riguarda solo gli artisti ma anche l'industria musicale e il pubblico stesso, sempre più infatuato per tutto ciò che è vintage e retro: i vinili vanno a ruba, i concerti delle più leggendarie rockstar, che spesso ripropongono l'intera scaletta di qualche loro vecchio classico, vanno sold out, mentre pullulano musei in cui sono conservati, come fossero cimeli, i più disparati oggetti di modernariato musicale (chitarre, plettri, piatti della batteria, vecchie locandine, ecc...).

Con la svolta del nuovo millennio, la musica si è catapultata in un'era in cui l'urgenza del nuovo è stata strozzata dall'incedere inarrestabile di un cultura retro che ha reso gli anni zero (e oltre), piuttosto che un epoca a sé stante, come la riproposizione simultanea di tutte le decadi del passato, dagli anni sessanta psichedelici, fino ai novanta della cultura rave. Scrive Reynolds che la nostra epoca è segnata dal prefisso "re": re-vivals, re-issues, re-makes, re-anactments, re-unions, re-vivals. Appare evidente come questa tendenza non riguardi solo la musica, ma anche il cinema (coi suoi remakes di vecchi blockbuster), la moda, la gastronomia e quasi tutte le altre forme di cultura popolare in voga nella contemporaneità. Ma la musica appare il settore più segnato da questo fenomeno di ossessione nostalgica, anche in virtù del fatto che il rock e il pop in tutte le loro declinazioni sono sempre state collegate alla cultura giovanile e alla loro voglia di sovvertire il presente e di rompere col passato.
Lo scenario tracciato si fa ancora più cupo se pensiamo che il passato, lungi dal prendere le sembianze della scrupolosa analisi storica o della attenta precisione cronologica e filologica, assume piuttosto l'aspetto di un ripescaggio casuale di elementi del passato che, isolati e decontestualizzati, vengono ripresi sotto forma di mere citazioni o all'interno di caotici pastiche stilistici. Ma non c'è da meravigliarsi, perché la tradizione non conta nulla quando non è messa in discussione e modificata. Senza una prospettiva futura di novità, la storia è svuotata del suo portato e si configura solo come un enorme appendiabiti dal quale attingere disordinatamente a seconda delle esigenze del momento: una cultura che è meramente preservata non può definirsi cultura.

Ovviamente l'ipercitazionismo e la cultura del ripescaggio hanno portato alla realizzazione non solo di mediocrità derivative ma anche di opere musicali eccelse: abbiamo grandi e spesso sottovalutati artisti come Joanna Newsom, Julia Holter, Fennesz, Andrew Bird, Jon Hopkins, Bon Iver, ecc... che sono emersi o hanno realizzato i loro migliori lavori dopo gli anni novanta. Se è dunque vero che ancora si può ascoltare ottima nuova musica popolare, occorre domandarsi come quest'ultima sia cambiata in relazione a trasformazioni socio-economiche e culturali più vaste. Quale può essere il futuro della musica, bella o brutta che sia, in un contesto in cui il nuovo si configura come riproposizione caotica di stilemi del passato? Ma sopratutto, come siamo arrivati a una logica culturale così ripiegata sul suo recente passato da non riuscire più a concettualizzare la possibilità dell'innovazione?

Come ho provato a mettere in luce in un precedente articolo (leggi qua) la musica popolare nasce in un alveo culturale ben preciso, quello del modernismo. Si tratta di un enorme movimento artistico e culturale che rispecchiava l'inquietudine e il disagio rispetto alle grandi trasformazioni sociali ed economiche successive alla rivoluzione industriale: l'artista si trova improvvisamente a vivere in un mondo che ha perso ogni legame come la comunità tradizionale e attorno a sé percepisce il frastuono di un mondo che aveva accelerato a dismisura la sua corsa verso il futuro. Processi di urbanizzazione rapidissima, il regime di fabbrica, la trasformazione nei trasporti e nei sistemi di comunicazione concorrono tutti a definire una esperienza di vita che, persa la sua prevedibilità, è un susseguirsi di urti, collisioni ed eventi. Nella modernità "tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria", come ci ricorda Bergman.
Il clima modernista, inquieto di fronte al cambiamento imposto dal ritmo frenetico e martellante del capitalismo, riproduce il bisogno di superare, di rivoluzionare continuamente la realtà. Il modernismo fa così dell'"oltre" un culto: oltre la moralità, oltre la cultura, oltre l’arte diventano le parole chiave di un movimento che tramite lo sperimentalismo puntava a mettere in discussione il dato per scontato. Nonostante il Novecento porti con sé un crescente disillusione verso l'idea borghese di progresso, il modernismo continua a configurarsi come spinta avanguardistica verso il futuro e verso il nuovo.

La fine di questo movimento culturale, ha profondamente segnato anche il mondo della musica. Dagli anni ottanta la tendenza postmoderna porta a un deciso cambio di rotta: il futuro si frammenta, i concetti di linearità e progresso vengono radicalmente decostruiti, prevale quel senso di cinismo di chi avendo visto tutto, non si stupisce più di nulla, che Nietzsche attribuiva all'Ultimo Uomo il quale, non portando più il caos dentro di sé, non era in grado di inventare più nulla.

Ma queste trasformazioni culturali non avvengono in maniera spontanea bensì sono strettamente connesse a mutamenti più profondi nella società e legati agli avvenimenti storici degli ultimi trenta anni. Non si tratta tanto di sottolineare il pur significativo ruolo distruttivo che il credo neoliberista, secondo cui ogni aspetto della realtà deve funzionare in conformità al modello di un'impresa, ha apportato alla cultura, quanto sopratutto mettere in luce il carattere intrinsecamente totalitario di una nuova configurazione della realtà che fa apparire come naturali e normali atteggiamenti individualistici, competitivi, cinici che in realtà sono il frutto di un sistema di verità strutturatosi solo a partire dalla fine della Guerra Fredda.

Ma che ruolo può avere tutto ciò con la cultura e con la crisi di creatività della musica? Seguendo le stimolanti tesi dello studioso britannico Mark Fisher, si può ipotizzare che l'emergere di un mondo dominato da un solo sistema politico -ideologico, da un'unica meta-narrazione neoliberista, chiuda lo spazio per immaginare il diverso. Il trionfo globale delle logiche capitaliste, che Fukuyama ha interpretato come "la Fine della Storia", rende impossibile immaginare a un sistema diverso, un' alternativa possibile. Non sembra cioè immaginabile qualcosa di diverso e "oltre" la configurazione attuale. Come sostiene il filosofo sloveno Zizek, "è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo". Mancando un oltre verso cui tendere, anche la musica popolare risulta schiacciata su un passato che invece di essere utilizzato come strumento per rompere il presente, viene decontestualizzato, ripulito dai suoi potenziali aspetti rivoluzionari e reimpiegato sotto forma di citazione e pastiche.

Così, il modernismo musicale, incarnato in particolare in artisti come Kraftwerk, Per Ubu, Velvet Underground, Pink Floyd, Jefferson Airplane, Slint, David Bowie, Soft Machine, Brian Eno, solo per citarne alcuni, perde nella contemporaneità ogni possibilità di esprimersi. In un vuoto che non può essere colmato, in una restrizione della possibilità di immaginare il diverso, la musica contemporanea esprime appieno questo disagio. Non solo il capitalismo occupa da solo l'orizzonte del pensabile e del possibile ma, come mette in risalto Zizek, occupa in profondità anche l'inconscio dell'uomo, colonizzando le modalità di pensiero ed azione dell'individuo.

È a partire da queste basi che si può capire perché il filosofo Fredric Jameson parli di una "maniera nostalgica" che prevale nell'arte e nella cultura: non si tratta di un atteggiamento psicologico dell'artistica bensì di un attaccamento formale alle tecniche e alle formule del passato, conseguenza di un abbandono di quella sfida tipicamente modernista che animava il continuo rinnovamento delle forme culturali affinché queste fossero adeguate a descrivere l’esperienza contemporanea. A titolo di esempio, nel mainstream ciò è ravvisabile in particolare nel revival soul di Adele e Amy Winehouse, nella patina vintage di Lana del Rey, nei calderoni r'n'b di Rihanna e Pharrell Williams, negli scimmiottamenti eurodance di Mika, mentre nell'indie proliferano generi revivalistici di ogni tipo, dalla neopsichedelia (Tame Impala, The War on Drugs, Foxygen ecc....) , al revival new wave (Interpol, Editors, Soft Moon, Arctic Monkeys ecc...) alle fascinazioni pop anni ottanta (Ariel Pink, Beach House,Wild Nothing, Antlers) senza dimenticare il nuovo synth-electro pop (Grimes, Austra, Cold Cave, ecc...).

Cosa è rimasto? Mark Fisher, che riprende un concetto del filosofo algerino Derrida, ritiene che del futuro permanga solo un fantasma. Così come Marx ed Engels indicavano nel comunismo lo spettro che si aggirava per l'Europa facendo tremare la borghesia dell'Ottocento, così ora lo spettro, seppellito sotto le macerie del socialismo reale, resta solo nella forma eterea e impalpabile di una possibilità che ci sia qualcosa di diverso da ciò che l'establishment liberista ha imposto come credo unico. Questo spettro, impalpabile e inafferrabile, allora come oggi gioca ancora un ruolo nella società contemporanea perché si configura come un virtualità che però ha già dei potenziali effetti reali nel minare lo status quo.

Ciò che è rimasto allora è la possibilità di intravedere quello spettro, la capacità di capire - scostando il velo di Maya dell'ideologia capitalista - che l'oblio del futuro e la retromania musicale non sono la normalità e che il futuro, il nuovo, il diverso, sono ancora possibili. Da questo punto di vista, come enfatizzano Reynolds e Fisher, una folta schiera di artisti che vanno da William Basinski, Philip Jeck, Burial, Leyland Kirby, oltre a quelli vicini all'etichetta Ghost Box e al genere dell' Hypnagogic pop di Neon Indian, Memory Tapes e Washed Out (a cui forse potremmo aggiungerci alcuni esponenti della "nostra" Italian Occult Psychedelia e la Vapor Wave), è arrivata a convergere verso delle formule sonore che si situano su quel delicato confine che separa conformismo e innovazione: da una parte si tratta di artisti che, tramite l'uso smodato delle tecniche di sampling, hanno fatto della loro musica un collage di registrazioni del passato, ma dall'altra parte, questi stessi artisti sono anche quelli che nella loro disperata nostalgia, mostrano un nuovo disagio nei confronti dello status quo e mandano, più o meno inconsciamente, anche un certo messaggio politico avanguardistico: che non ci si può arrendere di fronte all'oblio creato da un sistema totalizzante, che si vuole andare a scovare lo spettro, che si vuole ripescare il futuro insito dentro il passato, che non si vuole rinunciare al fantasma e con esso, alla possibilità dell'innovazione e di un futuro aperto e molteplice.

Riferimenti Bibliografici:
Derrida J. (1994) Spettri di Marx
Fisher M. (2009) Capitalist Realism: Is there no alternative?
Fisher M. (2014) Ghosts of My Life: Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures
Jameson F. (2007) Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo
Reynolds S. (2011) Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato

Nessuno rimane buono in questo mondo, tanto meno Batman e Superman

BATMAN VS SUPERMAN: DAWN OF JUSTICE ***
(USA 2016)
Regia: Zack SNYDER
Sceneggiatura: Chris TERRIO, David S. GOYER e Zack SNYDER
Cast: Henry CAVILL, Ben AFFLECK, Amy ADAMS, Laurence FISHBURNE, Jeremy IRONS, Gal GADOT, Jesse EISENBERG, Kevin COSTNER, Diane LANE, Michael SHANNON
Durata: 2h e 31 minuti
Produzione e distribuzione: Warner Bros
Uscita: 23 Marzo 2016

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