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Dalton Trumbo e gli hateful ten di Hollywood
L'ULTIMA PAROLA - LA VERA STORIA DI DALTON TRUMBO
(USA 2015)
di Jay ROACH
con Bryan CRANSTON, Helen MIRREN, John GOODMAN, Dean O'GORMAN
Durata: 2h e 4 minuti
Distribuzione: Eagle Pictures
Uscita: 11 Febbraio 2016
"Sono nato in Lousiana, e quando avevo due anni, mia mamma disse a mio padre, il nostro piccolo ha il blues.."
I tempi del blues sono passati ma il blues dei tempi del blues vive ancora.
La seconda parte dell’Orestea messa in scena da Luca De Fusco e rappresentata al teatro della Pergola dal 2 al 7 febbraio, diviene un vero e proprio Kolossal. Se nell’ Agamennone l’atmosfera risultava di un’arcana freddezza, di gelido e composto mistero e piuttosto statica imperiosità (ad eccezione delle danze che inframmezzavano i dialoghi), questo secondo episodio che condensa la seconda e la terza parte della trilogia eschilea (rispettivamente Le coefore e le Eumenidi) diviene un tripudio di effetti speciali e musiche potenti, luci psichedeliche, colori che si alternano tra il bianco e l’azzurro spettrali e il rosso violento, quasi a riprodurre una sorta di inferno dantesco di ultima generazione; le danze orientaleggianti (realizzate dalla coreografa Noa Wertheim) e i movimenti delle bravissime ballerine e dei personaggi in scena, soprattutto quelli delle mostruose e stregonesche Erinni, sembrano danze macabre uscite da un film dell’orrore; a terra la tomba di Agamennone diviene una specie di specchio e sullo sfondo un pannello proietta occhi azzurri della Pizia, varchi da cui fugge Oreste che forse metaforicamente riproducono anche i labirinti della sua mente, statue, porte, e, durante il processo finale i personaggi stessi impegnati nell’accusa (le Erinni), nella difesa (Oreste e Apollo) e Atena, dea della giustizia. Quest’ultima, con un costume che sembra quasi robotico pare uscita da Metropolis di Fritz Lang o da Star Wars. Molte sono infatti le suggestioni cinematografiche che possono venire in mente: dalle inquietanti e oniriche atmosfere Linchiane – soprattutto, di nuovo, le danze demoniache delle nere erinni che ingabbiano o inseguono il povero Oresteo sconvolgendo la sua mente per cercare di farlo impazzire – al musical The Rocky Horror Picture show passando per qualche macabro film di Tim Burton.
L’adattamento scenografico, che porta la firma di Mario Balò, di forte impatto, risulta alle volte sensuale, sospeso in una dimensione magica, fuori dal tempo mortale, mentre altre volte, grazie alla musica e al movimento incalzanti e agli effetti speciali, diviene angosciante e misterioso, tanto che a tratti sembra trasportarci in una dimensione demoniaca e da incubo. La recitazione degli attori però, molto classica ed energica ridona alla vicenda il suo spirito tragico e la sua algida intensità. Gaia Aprea si conferma attrice a tutto tondo, transitando dalla magnifica Cassandra dell’Agamennone ad un’Atena imponente e ferrea, divinamente altera e impassibilmente giusta; Elisabetta Pozzi dona alla sua feroce Clitennestra la forza quasi arrogante di una donna che non ha alcuna vergogna di confessare i suoi delitti e i propri sentimenti di odio, ma capace di simulare un falso affetto nei confronti del figlio per persuaderlo a non ucciderla. Sorprendente poi il cambio del tono di voce dell’attrice nel momento in cui Clitennestra è un’ombra scivolata nel regno dei morti e invoca le Erinni, sue “cagne maledette”, spingendole a perseguitare il suo assassino con una voce cantilenante e acuta che sembra veramente provenire da un altro mondo; Giacinto Palmarini è un Oreste credibile, che sa passare dall’odio più violento nei confronti di chi gli ha ucciso l’amato padre (Egisto e la madre Clitennestra) e alla sete di vendetta, alle titubanze e ai sensi di colpa per il sangue della madre versato, fino all’angoscia e la fatica della fuga e la paura delle erinni persecutrici; Angela Pagano come capa di queste creature demoniache e animalesche assume le fattezze e la voce rauca propria delle streghe.
Certo, se nell’Agamennone l’intensità tragica era più raccolta, intima e quindi forse più “avvolgente”, qui l’impatto scenico risulta predominante rispetto al sentimento tragico e lo spettatore resta più rapito da musiche, danze, canti ed effetti hi-tech, sicuramente molto suggestivi, ma che rischiano di mettere in sordina la potenza della vicenda tragica e la riflessione che da essa – soprattutto dal suo esito – dovrebbe seguire.
Veniamo alla trama. L’Agamennone si concludeva con la morte del re acheo per mano della moglie Clitennestra e del suo amante Egisto. Qui troviamo Elettra (figlia di Agamennone e Clitennestra) che piange sulla tomba del padre. Con lei, le Coefore, rendono onori funebri intorno alla tomba del re ucciso. Allo scorgere di una ciocca di riccioli (che Oreste aveva posto poco prima sulla tomba del apdre) Elettra spera che il fratello, lontano da anni, sia finalmente tornato. E infatti costui arriva e promette di vendicare la violenta uccisione del padre, come l’oracolo di Apollo, suo “protettore” gli aveva fatto vedere. “Da sangue e sangue sorbiti dalla terra madre assassina cruenta, indurita, che urla vendetta. Lancinante Perdizione condanna chi ha colpa a un eterno gemmare di pene: risarcimento totale […]Ferita assassina, per assassina ferita si paghi. Colpi a chi colpì!” questo e altri simili, sono i moniti con cui Elettra e le Coefore incitano l’uomo a compiere giustizia. Il destino, ancora una volta voluto da una divinità, si compierà e Oreste si reca al palazzo dove ora regnano Egisto e Clitennestra e, fingendosi uno straniero che porta notizia della morte di Oreste riesce a farsi ospitare nella reggia, dove, di lì a poco compirà la sua sanguinosa vendetta. Il suo gesto non rimane però impunito e le “cagne” della madre che perseguitano coloro che si macchiano di delitti di sangue cominciano a perseguitare l’uomo, in preda a visioni demoniache ispiratigli da queste nere creature della notte che accerchiano la sua mente e lo inseguono forsennatamente, senza tregua né riposo. Alla fine il fuggitivo, sotto consiglio di Apollo troverà riparo presso la statua della Dea Atena. Sarà lei a dare una svolta a una vicenda in cui il sangue che chiama altro sangue non fa che dar vita a un circolo infinito di altre morti e altre vendette. Atena fonda allora il Tribunale della Giustizia, l’Areopago che da quel momento in poi si occuperà di tutti i delitti più terribili, impedendo una scia di sangue e cieca vendetta ma giudicando, grazie a una commissione composta dai cittadini migliori la colpa o l’assoluzione dell’imputato. E solennemente dichiara, che, in caso il verdetto risulti alla pari, lei darà il suo voto per la non colpevolezza di Oreste. Il processo appare sorprendentemente moderno (si pensi che la tragedia risale al 458 a.C.). Accusa e difesa si incalzano in un diverbio portando ognuno le proprie valide ragioni, così da rendere labile il discrimine tra colpevolezza e innocenza. Le erinni accusano Oreste del delitto più terribile, in quanto ha ucciso sua madre, colei che ha il suo stesso sangue, il sangue più suo scorre nelle vene del figlio. Apollo ribatte con un argomento piuttosto misogino, sostenendo che l’uccisione del padre è molto più grave di quella della madre, perché, mentre l’uomo è sempre necessario per la nascita di un figlio, molti esempi mostrano come invece non sia necessario essere partoriti dal ventre materno, primo fra tutti la nascita della stessa Atena, venuta fuori dalla mente di Zeus, senza bisogno della gestazione nel ventre di una donna. Apollo e Atena rappresentano una società profondamente patriarcale, ma ciò non toglie l’acutezza di Eschilo nel tratteggiare con attenzione le sfumature dell’universo femminile, dando spessore e sentimento alle sue eroine (sia nel bene che nel male) e rendendole personaggi a tutti gli effetti, e non semplici spalle degli uomini senza personalità né emozioni. Clitennestra spicca in tutta la sua spavalda crudeltà e spregiudicatezza e Cassandra, nell’episodio precedente, emerge per dignità, orgogliosa forza e fiera seppur dolorosa consapevolezza del proprio destino di morte. Il processo, guidato dalla rettitudine di Atena si conclude con la parità, ma il voto determinante della dea regala l’assoluzione al matricida. Ma il vero colpo di scena finale è la trasformazione delle Erinni in Eumenidi da parte di Atena che con un seducente discorso (aiutata, dichiara, indirettamente da Peiso, dea della persuasione), convince le Erinni a restare nel suo tempio come dee benevole (Eumenidi per l’appunto) ed eternamente venerabili dai cittadini ateniesi.
Con il capitolo conclusivo Eschilo ha voluto dare solennità e spirito immemore e immortale (è la dea della Giustizia a fondarlo) all’istituzione giuridica della propria città e a sancire finalmente il passaggio da un’età arcaica dominata da Ate, che ottenebra la mene degli uomini spingendoli alla vendetta, alla società democratica delle Poleis, in cui non vige più la legge dell’occhio per occhio-dente per dente, del sangue che chiama incessantemente altro sangue, ma quella sancita dai tribunali e da processi equi, dalla partecipazione politica dei cittadini chiamati ad esprimersi col proprio voto (segreto o per alzata di mano). Una società più matura in cui è la giustizia e non la sete di vendetta a stabilire chi è colpevole e chi è innocente. Un’Atene democratica in cui ciascun individuo non è più mera marionetta spinta dalle saette della volontà divina, ma diviene vero e proprio cittadino, chiamato a rispondere, a decidere, ad essere responsabile, per sé e per gli altri, frenando i propri odi e le proprie rivalse, i propri impeti violenti, sotto lo sguardo sempre vigile dell’Areopago, il tribunale dei delitti di sangue. Anche gli dei, pur mantenendo il loro ruolo di tessitori di destini, si fanno da parte e lasciano che la giustizia mortale divenga esclusiva prerogativa degli uomini e delle loro istituzioni cittadine; Atena, col suo gesto fondativo (e simbolico, per dare maggior importanza e solennità all’istituto di un’Atene ormai democratica) sancisce la fine di un’ età della colpa e dà inizio a un’età in cui ogni uomo diviene responsabile delle proprie azioni e il cui operato verrà giudicato attraverso la legalità degli assetti giuridici e la partecipazione democratica, per quanto ancora molto elitaria.
Identità, memoria e politica: Egoyan, Chandor ed il ritorno esplosivo di Tarantino
Settimana zeppa di grandi uscite: il titolo più prestigioso è il nuovo film di Quentin Tarantino “The Hateful Eight”. Oltre a questo, ecco la nuova pellicola di Atom Egoyan “Remember” (passato all'ultimo Festival di Venezia) e un film del 2014 arrivato solo ora in Italia: sto parlando di “1981 Indagine a New York” di J.C. Chandor. Ecco il resoconto in dettaglio:
Un Agamennone spettacolare quello che è stato portato in scena alla Pergola dal 26 al 31 gennaio, per la regia di Luca De Fusco e con le interpretazioni di Elisabetta Pozzi, Mariano Rigillo, Gaia Aprea, Claudio di Palma e Paolo Serra.
L’Agamennone è la prima parte dell’Orestea, la trilogia eschilea composta, oltre che dal suddetto Agamennone, dalle Coefore e le Eumenidi. L’Orestea è per altro l’unica trilogia arrivata a noi per intero e la rappresentazione messa in atto da De Fusco ne ha mantenuto la potenza e l’intensità.
La trama è ben nota. Dopo i 10 anni di guerra tra achei al seguito di Agamennone e troiani che si conclude con la distruzione di Troia (grazie allo stratagemma del cavallo, di cui la sacerdotessa di Apollo Cassandra, figlia di Primo ed Ecuba, aveva previsto il nefasto tranello senza però venir creduta dai suoi concittadini), il re di Micene fa ritorno ad Argo, con Cassandra, caduta nelle sue mani come bottino di guerra, dove ad aspettarlo c’è la feroce moglie Clitennestra. È lei la vera protagonista della tragedia. Un personaggio sicuramente monolitico, spietato, spregiudicato, ma con una forza che poche altre figure femminili avevano ricevuto prima. Una forza e una schiettezza paragonabili a quelle di un uomo, come dicono più volte i cittadini di Argo: “questa donna parla come un uomo”. La regina, che, verso l’inizio della tragedia, nell’apprendere la notizia (tramite un messaggio di fuoco partito dal monte Ida) della presa di Troia e del ritorno del marito, si dice pronta ad accoglierlo con tutti gli onori e ad ammettere la sua completa fedeltà, sarà poi la stessa che verso il finale, non appena compiuta la carneficina, non smentirà del tutto le parole pronunciate all’inizio, ma dirà che quelle parole erano state espresse sul momento aggiungendo: “adesso non ho alcuno scrupolo ad affermare il contrario”. Agamennone dunque torna a casa con la schiava Cassandra di fronte a una moglie imponente che lo incita a camminare su un tessuto di porpora per entrare nel palazzo. Cassandra che rimane fuori, emettendo gemiti da rondine, diviene figura chiave, perché grazie al suo dono profetico concessole dal dio Apollo (lo stesso dio che poi la punirà facendo sì che le sue profezie non vengano più credute da nessuno) riesce a vedere i fatti di sangue che hanno macchiato nel passato la casa degli atridi. Un delitto mostruoso ha inaugurato quella stirpe maledetta: Atreo, padre di Agamennone e Tieste, padre di dieci figli, tra cui Egisto, si contendono il trono di Micene. Atreo la spunta e Tieste viene bandito. Quando Atreo viene a sapere dell’adulterio consumato prima dalla moglie Erope con Tieste di cui la donna era segretamente innamorata, fa richiamare il fratello fingendo una riconciliazione, ma gli preparerà un banchetto maledetto: cucinerà i tre figli che Tieste aveva avuto da una ninfa e costui, ignaro li mangerà boccone dopo boccone. Quando Tieste scoprirà di essersi cibato della carne dei propri figli maledirà tutta la stirpe degli atridi inaugurando una scia di delitti tra consanguinei. Cassandra vede anche un'altra morte colpevole, quella di Ifigenia la giovane figlia di Agamennone, sacrificata sull’altare come un agnello innocente proprio dal padre per ottenere la vittoria in guerra. È questo, in fondo, il fatto di sangue che Clitennestra non può perdonare al marito e che significherà la sua condanna a morte. Cassandra prevede così l’uccisione del re da parte della regina del palazzo; non solo del re: quella che vede durante gli spasmi e le convulsioni provocate dal “dono” profetico sarà anche la sua di morte, accanto a colui che l’ha resa schiava e che l’ha portata nella casa di Clitennestra che non le perdonerà il fatto di esser diventata la sua concubina e amante. Cassandra sa anche però che il sangue versato sul re Agamennone e su lei stessa non sarà lavato. Vendetta chiede vendetta e sarà Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, a vendicare il padre uccidendo a sua volta la madre.
Clitennestra, con la complicità del suo amante Egisto – desideroso di potersi finalmente vendicare del padre Tieste e punire il figlio di Atreo – uccide a colpi di spada Agamennone e Cassandra e rivendicherà senza rimpianto il suo delitto. In questo emerge l’immensità di questa figura femminile che con un orgoglio quasi arrogante si staglia davanti alle sue vittime sfoderando la spada portatrice di morte, e circondata da una luce fredda e crudele che la esalta in tutta la sua algida imponenza, la sua sconcertante lucida freddezza si arrogherà piena responsabilità del proprio gesto e rimarrà imperturbabile di fronte alle maledizioni degli argivi. Donna anticonformista in qualche modo, spietata, sì, ma in qualche modo non del tutto ingiustificabile se si riflette sulla perdita dolorosa di una figlia innocente inflittale dal marito. E soprattutto non del tutto colpevole perché ancora in Eschilo i personaggi non hanno la psicologia e il carattere più complesso dei futuri personaggi tragici di Sofocle e soprattutto di Euripide. Qui ancora sembrano pedine nelle mani di un disegno divino che li trascende del tutto, sono vittime di un destino contro cui non possono lottare né di cui possono cambiare le regole. “L’artiglio di un demone mi ha toccato il cuore” dice più o meno Clitennestra dopo la strage compiuta. La forza di queste figure però, della sua così come di quella di Cassandra che pur conoscendo ciò che le accadrà va incontro alla propria morte, consapevole che il destino previsto dagli dei non può essere cambiato e che inutile sarebbe fuggire tentando invano di evitarlo, sta proprio nel mantenere, pur in un disegno che sembra prestabilito, una sorta di libero arbitrio che li rende padroni di quel destino cui comunque in ogni caso, non possono sottrarsi. È un disegno sì costruito dagli dei ma sono gli uomini a realizzarlo, loro malgrado, e a rendersi protagonisti di quel che è stato previsto per loro e a rivendicare le proprie azioni. Non risultano così solo mere pedine in mano a qualcosa più grande di loro, ma giocatori di un gioco le cui regole comunque sono state già predisposte e i mortali non possono che seguire, più o meno inconsapevolmente, queste regole, ma sono anche essi stessi a deciderle. È una sorta di libera predeterminazione. La libertà consiste nel scegliere quello che sarà il proprio destino, già comunque stabilito dagli dei. Clitennestra sceglie di uccidere Agamennone, anche se la sua è una scelta voluta dagli dei, ma questo non toglie la responsabilità umana del suo gesto. E in questo caso la colpa della regina è colpa a tutti gli effetti, è aitia e non amartia che letteralmente significa mancare il bersaglio e che è la colpa di chi non ha colpe, la colpa dell’ignoranza, come quella di Edipo che inconsapevolmente ucciderà il proprio padre (perché non sa che si tratta del padre) e si macchierà di incesto, perché non sa che colei con cui dividerà il letto è la propria madre, Giocasta. La colpa di Clitennestra è invece una colpa di cui lei decide di macchiarsi, lei compie consapevolmente il suo gesto di sangue e lo rivendica quasi vantandosene. Lei sceglie il suo destino, Edipo invece vi si imbatte incoscientemente, come un cieco che cammina a tentoni nel buio e che come per un contrappasso dantesco, proprio per non aver saputo vedere i delitti di cui inconsapevolmente si macchiava, si auto provocherà la cecità.
L’Agamennone si conclude con l’uccisione del re e di Cassandra e la rivendicazione del gesto da parte dei due assassini e amanti, Clitennestra ed Egisto, mentre la vendetta di Oreste, il suo inseguimento da parte delle Erinni e infine la loro trasformazione in Eumenidi – dee della giustizia – durante il processo finale che vedrà Oreste giudicato nell’Areopago si consumeranno nelle altre parti della trilogia. Proprio le Eumenidi, fase conclusiva dell’Orestea segnano simbolicamente il passaggio da una sorta di legge del taglione, fondata sulla vendetta (occhio per occhio dente per dente) alla giustizia democratica del nuovo assetto delle polis e l’esaltazione dell’Atene democratica, in cui il colpevole non deve più essere vendicato ma sottoposto a giusto processo nella sede del tribunale dei delitti di sangue (l’Areopago appunto) e giudicato attraverso una votazione democratica, sotto l’egida della dea della giustizia Atena, che poi sancirà anche il verdetto finale.
La messa in scena de L’Agamennone di De Fusco è carica di atmosfera suggestiva e inquietante. Effetti speciali e intermezzi con danze di sinuose ballerine e musica potente, rendono pienamente la tensione e l’intensità tragica della storia e dei personaggi, creando un sentimento di angoscia e turbamento nell’animo degli spettatori, e riuscendo a rendere piuttosto labile il confine tra vittime e carnefici così come a prendere atto che tutti o nessuno siano in fondo dei colpevoli. Certo, la figura indomita e feroce di Clitennestra lascia poco spazio a un’immedesimazione empatica, ma in fondo perfino per lei si può provare pietà e ammirazione, per la sua forza di donna che vuole essere considerata pari ad un uomo, per il suo non nascondersi dietro quel gesto sanguinoso che decreterà la sua condanna a morte; per il non piegarsi di fronte a niente e nessuno, risultando figura di spessore e protagonista di una tragedia che pur non porta il suo nome. L’interpretazione di Elisabetta Pozzi è intensa ma rischia di essere scavalcata da un’altra figura femminile che dal momento in cui apre bocca ruba la scena a tutti: La Cassandra di Gaia Aprea è sublime, nel senso filosofico del termine. Passa dalla purezza e innocenza di giovane fanciulla sventurata, vittima di “dono”più grande di lei, alla versione quasi stregonesca e macabra di una Cassandra che con voce gracchiante, rauca e cavernosa (totalmente contrapposta alla voce limpida e cristallina nei momenti di lucidità) viene posseduta dalla profezia che le procura spasimi e convulsioni; per poi tornare invece infine a cantare con voce di usignolo mentre si incammina incontro al suo destino di morte. La sacerdotessa di Apollo è l’unica figura che esce completamente immacolata, è la vera vittima di una storia di cui sa non essere i mortali a tesserne i fili e con fierezza e orgoglioso coraggio non si piega ma si erge a testa alta di fronte alla sorte che le hanno decretato gli dei.
La scenografia abbastanza sobria, ma in qualche modo magica, grazie ad alcuni colpi di scena, e le luci cupe, a parte quelle che circondano, come un’aureola di luce nefasta anziché angelica, la figura di Clitennestra, diventano lo spazio perfetto per un crescendo di tensione drammatica e lo sfondo tetro che fin dai primi dialoghi presagisce il determinarsi di lugubri eventi, di cui i primi personaggi in scena si faranno testimoni impotenti.
È una romantica decadenza distopica. La voce straziata di Mustaine implora perdono per lo scadente livello delle sue recenti dichiarazioni, fortunatamente travolte dalla qualità della novità discografica che propone con i Megadeth ad inizio 2016.
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