La grande retrospettiva che è attualmente visitabile (fino all’8 febbraio 2015) al Complesso del Vittoriano di Roma – Mario Sironi 1885-1961 – lo dimostra abbondantemente, proponendo una selezione delle sue opere più significative e ripercorrendo le stagioni della sua pittura: dagli esordi simbolisti alla fase divisionista, dal periodo futurista a quello metafisico, dal Novecento italiano alla pittura murale, fino alle opere del secondo dopoguerra. Espunta dagli accenti più palesemente propagandistici (sono raccapriccianti i suoi ritratti del duce mascellato cavaliere), l’opera di questo grande pittore sardo presenta nel suo complesso una forza di ispirazione e un impianto epico che si combina, in un fraseggio che ne rappresenta la cifra più preziosa, con una idea quasi disperata della solitudine umana. Le sue grandi montagne disabitate fanno il paio con le periferie svuotate di una città ostile che mette insieme milioni di separatezze.
Uno spunto interessante offerto dalla parabola creativa di questo artista è rappresentato dal fatto che, nonostante sia evidente il peso e l’intrusione del regime nelle sue opere, fino ad esiti a volte caricaturali, pur tuttavia permane, nella sua ricerca, una autenticità che lo colloca sicuramente fra i grandi artisti del nostro paese. Non a caso disse di lui Picasso: «Avete un grande artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto». Mario Sironi rappresenta, insomma, uno dei casi alti di un’arte che nonostante il “potere”, riesce a mantenersi tale, anzi raggiunge a tratti, con quella che appare una singolare e forse inconsapevole “astuzia della ragione”, dei picchi di sincerità che contraddicono la natura stessa del contesto entro il quale si sviluppano. Un’osservazione non irrilevante specie a fronte di quella che appare la deriva attuale dell’arte post-contemporanea. Da trenta-quaranta anni ad oggi, infatti, ciò che la creatività di tutti i tempi era riuscita a fare, e cioè mantenere la sua essenza, la sua più intima natura, nonostante la pressione (magari condivisa come nel caso di Sironi) dei vari poteri (politico economico, religioso ecc.), oggi, con l’avvento di un ultracapitalismo scatenato che tutto mercifica e sussume, non è più possibile.
L’intervento infatti del trinomio finanza-tecnologia-comunicazione non esercita più una semplice e negoziabile influenza ma una dittatura spietata, un dominio che seleziona mode, stili, mercati e star. Ne volete una piccola dimostrazione? Considerate che negli ultimi anni, diciamo dal 2008 al 2012, in piena crisi, il fatturato della più grandi case d’asta, Sotheby’s e Christies, è lievitato di oltre il cinquecento percento. Ma la cosa più straordinaria è che lo ha fatto attraverso la compravendita di opere realizzata da non più di una cinquantina di artisti, molto dei quali già defunti. Insomma, gli artisti viventi e le lobby che li seguono e li sostengono, controllando il grosso del mercato, sono poche decine nel mondo. Gli altri non contano o contano molto poco. È evidente che tutto questo assesti un colpo mortale alla libertà dell’arte e alla sua stessa sopravvivenza così come è stata concepita per millenni. È proprio l’interesse per queste questioni di importanza capitale che mi ha spinto a scrivere un saggio recentemente pubblicato da Ediesse intitolato Arte e potere. Il mondo salverà la bellezza? che analizza la questione e fornisce argomenti a chi sia interessato al tema.
Ma tornando alla mostra, cuore pulsante dell’esposizione sono le opere monumentali di Sironi, come Il lavoratore (1936) e l’Impero (1936). Anche se particolarmente suggestivi sono i dipinti più intimi, come l’Autoritratto del 1909 e le tante opere con soggetti che trasudano umanità e tristezza (un muro, un palazzo dalle finestre squadrate, un ciclista piegato dalla fatica). E, per finire, dalla mostra emerge il senso di un isolamento inemendabile che non è certo la retorica di regime a poter medicare. Ne Il mio funerale, una piccola tela del 1960 posta alla fine del percorso espositivo, sfila un piccolo corteo funebre. Sironi lo aveva previsto: alla sua morte, quattro gatti avrebbero accompagnato il suo feretro, nonostante la grandezza della sua pittura.