Piccole imbarcazioni gonfiabili con tanto di remi, salvagenti, coniglietti, giocattoli da spiaggia, cuori di grandi dimensioni, le immagini culto di Keaton e Michael Jackson, i plastici policromatici degli accoppiamenti dell’artista con Cicciolina ed altro ancora dentro l’atmosfera impalpabile e luccicante (come si conviene a Natale) di un sogno americano che si vorrebbe che non finisca mai. Insomma: il repertorio infinito di un supermercato che ritrova nella ferialità un po’ stupida dell’oggetto banalissimo del quotidiano il suo radicamento ontologico.
Provavamo a dire recentemente in “Arte e potere” (Ediesse, vedi anche qui ndr) – ci si passi l’autocitazione – che se c’è una cosa che sigilla in modo inequivoco la natura del tempo postcontemporaneo dell’arte è la futilità delle sue rappresentazioni più paradigmatiche. Il loro essere destinate ad esaurirsi in breve tempo. Jeff Koons è fra i tre artisti più pagati al mondo. È un’icona del nostro tempo. Ma le sue opere molto spesso color acciaio (odierno surrogato della preziosità), possono aspirare fra cinque o seicento anni ad essere oggetto di culto come oggi lo sono quelle di Michelangelo, Botticelli o Piero della Francesca? Già il porsi il problema sembra uno scherzo. Eppure questa domanda ha una sua legittimità, perché nella scala dei valori del nostro tempo – lo dimostrano i prezzi di aggiudicazione delle aste internazionali – Jeff Koons è come Michelangelo. Ma può il Michelangelo del nostro tempo sperare di dare un contributo al mantenimento in vita della narrazione plurimillenaria dell’arte con opere di questo tipo?
Non si tratta di infierire su un personaggio che nel suo genere ha mostrato una sensibilità e un’astuzia innegabili nel capire dove spirava il vento, contribuendo ad imporre il catechismo di Andy Warhol e il mercimonio che si è impadronito del sistema dell’arte nella maniera più squallida e globale. Koons fa quello che vuole. A lui non interessa essere celebrato fra 500 anni. Vuole fare (e far fare) soldi hic et nunc. Il resto per lui non conta e in questo è onesto. Non è lui il nemico.
Il nemico è un sistema che ha sostituito il prezzo al valore. Il guadagno alla qualità. L’imbroglio all’eterno e sempre opinabile “discorso sull’arte”. Ma la cosa che più ci dà fastidio è che i cronisti più qualificati – quelli che fanno opinione - di questo tempo molto raramente riescono a dire una parola chiara su questi personaggi e sul fenomeno più generale di un’arte sacrificata sull’altare di un mercato sempre più onnivoro e americanizzato.
Le espressioni usate sono sempre doppie ed ambigue. Non si omette di descrivere il lato ludico e fanciullesco di certe forme espressive. Ma si fa di tutto per ricavarne un senso segreto che in realtà non esiste. Il punto è che smascherare Jeff Koons significa smascherare il sistema dell’arte. Cosa che non può fare chi ne fa parte. E le voci autorizzate a parlare entro questo sistema sono solo quelle organiche al sistema. Come vedete un circolo vizioso che andrebbe spezzato. Ma per farlo ci vuole una voce. E per avere una voce ci vuole un movimento di pensiero resistente e partigiano che si levi contro l’indecenza di un pensiero unico neoliberista che vuole imporre in tutti i modi i suoi diktat anche estetici. Non si tratta come al solito di buttarla gratuitamente in politica. Questa questione è propriamente politica perché parla della necessità di una sinistra culturale che abbia voglia e strumenti per esprimersi. Gente che sappia e intenda dire chiaro chiaro che quello di Koons non un “regalo” ma una “fregatura” di Natale.
Immagine liberamente tratta da www.creativeboysclub.com