l’invisibile presenza dell’ “eroe del risorgimento” che il racconto scivola su una surreale linea del tempo che abbraccia un presente non meglio precisato e il passato dei fatti del 1848/49, creando un vertiginoso interscambio tra gli episodi rivoluzionari dell’epoca risorgimentale e la realtà della prigione che diviene l’osservatorio perfetto per scandagliare, analizzare, interrogare la Storia e il presente, che su questo’ultimo si riversa. Diviene lo specchio attraverso cui interpretare la realtà, chiedendosi se ancora possano esistere quegli ideali di giustizia e di riscatto, quei sogni di unità e libertà che hanno portato a lottare tutti i rivoluzionari, i partigiani che hanno scritto le pagine della nostra storia, e anche a spezzare le loro giovani vite. Tra le sbarre del carcere filtra poi tutta la società attuale e i problemi che essa comporta, soprattutto riguardo al tema della detenzione, pensata soltanto a scopi punitivi anziché rieducativi, affollata come una topaia in cui i detenuti vivono in condizioni disumane, stretti in micro spazi centimetrati, in attesa di processi, considerati come relitti, escrementi inaccettabili della società, quand’anche la maggior parte di loro siano tossicodipendenti, piccoli spacciatori, immigrati, o colpevoli di piccoli furti recidivi.
La formazione del protagonista oltre a passare attraverso le letture riguardanti il processo che portò all’Unità d’Italia si sviluppa anche tramite la conoscenza diretta dei carcerati che facevano parte del periodo dello stragismo –anni ’70-80, periodo in cui coloro che finivano in carcere, soprattutto terroristi – non solo facenti parte delle Brigate Rosse – e rapinatori venivano considerati una sorta di eroi, perché i loro gesti, seppur criminali avevano alle spalle una feroce posizione contro lo status quo, celavano motivi politici di ribellione all’ordine dato e di volontà rivoluzionaria. Persino le grandi rapine, come quelle nel triangolo industriale – Torino, Milano e Genova - trovavano la loro matrice e la loro miccia in motivazioni di tipo politico: questi criminali volevano fare la rivoluzione, dice Celestini, si sentivano una specie di partigiani, spostati molto a sinistra rispetto alle scelte di partito e sindacati e che combattevano contro il sistema. Proprio questo “essere contro”, fuori dalle regole, li univa tutti entro un grande sentimento di appartenenza, anche dal punto di vista “territoriale”: chi faceva parte di un determinato quartiere era considerato “dei nostri”, indipendentemente dal colore politico di cui era tinto. Sentimento di appartenenza che lega tutti coloro che in qualche modo si sentono parte di una stessa “lotta di classe”, tutti coloro che si oppongono con svariate azioni, anche quelle più efferate e sanguinose.
Oggi, continua Celestini le condizioni delle carceri sono ben più peggiori di quelle del passato, sebbene, come abbiamo detto, la maggior parte di coloro che vi sono rinchiusi siano meno criminali dei criminali di una volta. Nel 48 il numero di omicidi volontari si aggirava intorno alla cifra di 3000, negli anni 70-80 tale cifra è scesa a 1000 e oggi si aggira intorno ai 500. Questa radicale diminuzione indica che il Paese è diventato più sicuro ma paradossalmente ciò non comporta anche una riduzione del numero di detenuti confinati dentro celle sempre più misere e minuscole. Per questo, a detta di Celestini è importante affrontare la questione di amnistia e indulto, che non deve concentrarsi solo sulla figura di Berlusconi, sulla quale gli occhi degli italiani e l’Italia stessa si è purtroppo immobilizzata, ma deve estendersi alle problematiche di una detenzione sempre più incivile, tanto da ricevere moratorie da parte dell’Unione Europea, oltre ad una decisiva presa di posizione da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il problema non è quello di costruire ma di rivedere tutta la questione che sta a monte del sovraffollamento delle carceri. Prendiamo la questione immigrazione, bacino da cui provengono migliaia di detenuti: gli italiani sono convinti di essere un paese di stranieri. Niente di più errato, Francia, Germania, Olanda ne hanno ben di più: noi contiamo circa 50.000 rifugiati, a fronte dei 70.000 dell’Olanda o del mezzo milione della Germania, che addirittura se li va “a prendere” dai campi profughi, mentre noi crediamo di risolvere questo “problema” gettando gli immigrati che vengono da noi in cerca di una speranza e affrontando un viaggio in cui molti rischiano o perdono la vita, come rifiuti di spazzatura nelle carceri o nei centri di cosiddetta accoglienza (termine spudoratamente ipocrita, viste le condizioni di questi luoghi), i CIE, nei quali lo straniero trascorrere un periodo che può arrivare fino ai 18 mesi – 18 mesi vissuti ai limiti dell’umano – dopodiché gli viene detto di tornare da dove è fuggito ed è quindi costretto, non potendo ritornare nel paese d’origine, a entrare in clandestinità e quindi, finire probabilmente in galera. A monte del “problema carceri” ci sono dunque tre leggi infami, la Bossi-Fini, sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulla tossicodipendenza (il ben 30% dei carcerati sono tossicodipendenti) e la ex Cirielli, che prolunga i tempi di prescrizione ma acuisce la recideva, così che va ad accanirsi su che commettono furti irrisori ma magari ripetuti (c’è chi finisce in carcere per aver rubato più volte una bicicletta, o magari un prosciutto al supermercato; contro questi disperati affamati sono anche i supermercati stessi che si accaniscono, riempiendosi di guardie giurate che non si accontentano di riavere indietro la refurtiva o l’equivalente del suo valore, ma vogliono ed esigono che questi disgraziati vengano puniti ferocemente, che finiscano in galera: a Imperia c’è chi ci è finito per aver rubato noci e mele per un valore di ben 4 euro! Bisogna decongestionare le carceri e ritornare a livelli di umanità nel segno delle parole di Dostoevskij, che già considerava come il livello di civiltà di un paese lo si rilevi dalle condizioni delle sue prigioni. È terrificante pensare che oggi tra i detenuti, almeno uno su tre muoia per suicidio, non sopportando la violenza fisica e mentale che deve subire o non riuscendo a riadattarsi, una volta uscito, alla normalità di un’esistenza fuori dalle mura che per troppo tempo lo hanno stretto duramente. Tra l’altro le statistiche parlano chiaro: una volta che il carcere aveva anche una funzione rieducativa il numero dei reati era sceso notevolmente, da quando invece ha assunto soltanto la faccia intransigente della punizione il numero è salito.
Oltre a queste riflessioni, tornando al libro, è interessante notare come la formazione politica del protagonista provenga dalle letture dei padri risorgimentali (Mazzini appunto, ma anche Pisacane e altri), nei quali avverte una forte carica eversiva che può essere trasposta anche ai giorni nostri, sempre più caratterizzati da un netto distacco e da una rabbia feroce e sprezzante nei confronti dello Stato e della rappresentanza politica.
Ascanio afferma di essersi cominciato a interessare dell’argomento parlando col regista Mario Martone, nel periodo in cui questi stava girando le riprese del suo capolavoro “Noi credevamo”, film che ripercorre alcuni episodi del Risorgimento italiano attraverso le vicende di tre ragazzi del sud. L’autore di Pro Patria tiene poi a spendere due parole sul personaggio di Pisacane, raccontando alcuni sprazzi della sua piena esistenza, dalla fuga da Napoli con l’amante Enrichetta de Lorenzo, all’arruolamento nella Legione Straniera, al ritorno in Italia, nel 48 per combattere gli austriaci e nel 1849 per la libertà della Repubblica romana – ed Enrichetta per la libertà delle donne. Nel ‘56-‘57 Pisacane parte dalla Liguria, per sbarcare a Ponza, dove riesce a liberare circa 300 detenuti che vengono aggregati alla spedizione e si dirige verso il golfo del Cilento, convinto, insieme agli altri compagni rivoluzionari, che ci sia un’insurrezione che invece non c’è. Alla fine l’arrivo dei gendarmi borbonici costringe Pisacane alla ritirata, ma nel brutale massacro operato dai borboni muoiono 53 dei suoi seguaci e gli altri – circa 150 – consegnati ai gendarmi. La vicenda di Pisacane e di altri come lui fa comprendere come in migliaia partivano, anche alla sbandata, anche nella consapevolezza di un possibile o probabile esito fallimentare, perché credevano fermamente in delle idee, perché erano profondamente convinti che è meglio andare che stare fermi, come scrive Emilio Dandolo: “noi corriamo come pazzi dietro a un fantasma, però corriamo”. Sempre costui, nelle sue cronache racconta come Garibaldi che passava tra i suoi soldati assomigliasse più ad un capotribù piuttosto che a un generale, proprio perché la sua “tribù” era per lo più composta da giovani, giovanissimi – tra loro, si può ricordare Mameli e Luciano Manara, il quale aveva solo 24 anni.. – che andavano a morire per delle idee, l’idea romantica di “fare il salto” piuttosto che non farlo. A proposito di giovani che hanno sacrificato la loro vita per grandi ideali o grandi battaglie, Celestini cita poi Bianca Olivetti Serra, la quale racconta la storia di Emanuele Artom, che dopo aver aderito nel 1943 al Partito d’Azione si unì ai partigiani e lei che lo incontra sulla montagna chiede di portargli dei libri, per i suoi compagni, che cresciuti sotto il fascismo conoscevano solo letture di regime senza aver mai letto nient’altro e che quindi avevano bisogno di una formazione culturale e mentale. Giovani rivoluzionari, partigiani, persino i terroristi, sono tutti pronti a morire in nome di qualcosa di più grande, che sia animata da nobili ideali di libertà e giustizia o fomentata da una rabbia fanatica e omicida che ricade anche sulle teste di innocenti in nome di una cieca lotta al potere o ai sistemi dati che non guarda in faccia a nessuno.
Oggi è ancora possibile morire per delle idee? O ancora, è giusto morire per esse? “Morire per delle idee, sì, vabbè ma di morte lenta”, risuona nelle parole di Ascanio la famosa canzone di De Andrè. Oggi più che altro a suo parere c’è una forte rabbia e la mancanza di qualsiasi tentativo di prendere atto di ciò che sta accadendo e un vuoto abissale di coscienza politica. Questa oggi la si fa in maniera “clandestina” , a livello locale, territoriale, perché non si accetta la politica dei piani più alti, la politica globale. Non si riesce più, secondo l’autore romano, ad avere relazioni profonde e dirette con i rappresentanti, così che la vera politica emerge più all’interno di autorganizzazioni, comitatie movimenti – quali quello dei NoTAV, del NoMUOS, del NOdalMOLIN ecc.. – privi di una gerarchizzazione verticale, di rappresentanti veri e propri, movimenti autonomi che si rifiuta nodi entrare nella “stanza dei bottoni”, perché entrarci significherebbe piegarsi alle sue regole, ai suoi dettami, ai suoi compromessi. La vittoria di un territorio consiste già nell’applicazione del concetto di abitante, piuttosto che di cittadino. Partire dal primo concetto significa già superare le discriminazioni che può comportare il secondo: “io ABITO qui, lavoro qui, vivo qui e di conseguenza faccio parte di questo territorio e lotto per difenderlo, ho tutto il diritto di farlo”. Ed è proprio a livello territoriale che secondo Ascanio è possibile innescare un attivismo che a livello politico non si instaura. Oggi a smuovere le persone, addormentate o rese sonnambuli e sempre più apatiche, non sono più le idee, grandi o piccole che siano, ma la capacità comunicativa e retorica di chi le sa sbandierare, per questo hanno la meglio leader quali Berlusconi, Grillo o Renzi. Si crede a chi sa dire bene qualcosa, non per convinzioni nostre, non perché abbiamo maturato idee e punti di vista veramente nostri. Seguiamo le parole, vuote o fasulle che siano, e non le idee, se non quelle di qualcuno capace di comunicarle. L’unica miccia all’azione, escluso ciò, rimane l’immediatezza di ciò che ci tocca da vicino. Solo a quel punto siamo spinti ad agire, perché qualcosa sfonda la porta in cui siamo barricati e ci fa comprendere che dobbiamo affrontare la realtà esterna, che non possiamo più tenerle la porta chiusa per non farla entrare. Ecco allora il proliferarsi di questi movimenti, di questi gruppi autonomi, di questi comitati che lottano per qualcosa che li riguarda da vicino – anche se Celestini dimentica forse il fatto che tali movimenti non sono rimasti chiusi in un’intima e ovattata lotta per difendere solo “il proprio orticello”, ma si sono caricati di motivi più ampi, politici e sociali, armonizzandosi in una battaglia comune e condivisa con altri movimenti e con altre forze del paese. Lottano tutti insieme per qualcosa che non è più solo il No alla ferrovia o il no all’inceneritore, ma tutto questo e altro ancora. In ogni caso, secondo Ascanio per cambiare prospettiva politica bisogna innanzitutto cambiare la propria prospettiva e rendersi conto che anche a cominciare dal piccolo, agendo più criticamente, consapevolmente e selettivamente, cominciando pure da piccole azioni nel quotidiano, qualcosa si può fare e a chi sostiene che tanto i cambiamenti, i miglioramenti non si vedono, si deve rispondere che sì, forse non se ne vedono, ma sicuramente non si vedono neanche peggioramenti.
Per concludere, Celestini legge un passo tratto dal suo libro, che forse cerca di esprimere l’incomunicabilità tra il mondo della prigione e il mondo di fuori, laddove parlando del suicidio del calciatore Agostino di Bartolomei – “il capitano non è mica come i giocatori di adesso che sembrano di marmo scolpiti direttamente da Fidia, allenati col martello e lo scalpello” – il quale lasciò scritto su un biglietto “mi sento chiuso in un buco”, nel passaggio seguente del testo la voce narrante commenta: “e come deve sentirsi uno che la moglie la vede un’ora a settimana sotto gli occhi della guardia e poi se ritorna in un buco che è davvero un buco di due metri per due?”
Immagine tratta da: www.teatrionline.org