Martedì, 07 Luglio 2015 00:00

La Tosca di Bondy alla Scala di Milano

Al Teatro alla Scala Giacomo Puccini è sempre di casa, un suo busto trova posto nel foyer Toscanini al terzo ordine dei palchi e molte sue opere vi hanno trovato la propria prima rappresentazione. Quest’anno il palco ha già ospitato Turandot, con il finale di Berio, e in questi giorni calcano la scena le vicende romane di Tosca.

Opera dalla gestazione lunga e travagliata Tosca è senza dubbio un capolavoro sommo della musica operistica, tra le più rappresentate al mondo con clamoroso successo.

Quella allestita alla Scala per il 22 giugno è una produzione sui generis, del regista Luc Bondy, ripreso da Marie-Louise Bischofberger, con le scene di Richard Peduzzi

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È la stessa produzione che calca le scene ormai da qualche anno quella della "Lucia di Lammermoor" in programma al Teatro alla Scala nelle prossime settimane, sebbene ampiamente “ricostruita” per l’occasione dalle maestranze scaligere. Una regia piuttosto tradizionale, made in USA, della nota Mary Zimmerman.

L’allestimento, di facile consenso per il grande pubblico, può suscitare senza dubbio qualche perplessità tra gli appassionati del genere, ma ha il pregio di non disturbare con stravaganze e velleità un’opera tanto raffinata e melodrammatica.

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Era il 2007 quando Stéphane Lissner, Sovrintendente del Teatro alla Scala, commissionò al compositore Giorgio Battistelli un’opera per l’occasione dell’Esposizione Universale. Un lavoro teatrale e musicale che riguardasse il tema di Expo 2015, “nutrire il pianeta - energia per la vita”, e che fosse nuovo, moderno, attuale.

I lavori di scrittura del libretto e degli spartiti furono travagliati fin dall’inizio, con tensioni tra compositore, librettista e i registi che si sono susseguiti nel ruolo. Quando infine si approdò alla scelta di Robert Carsen alla regia e il libretto era completato, mancavano ancora numerose pagine di partitura. Il Teatro alla Scala, nel frattempo, scelse di inaugurare l’Expo con la Turandot di Puccini, diretta da Chailly, e il finale inedito di Luciano Berio.

Il maestro Battistelli ha lavorato all’orchestrazione di "CO2", titolo che riprende la formula chimica dell’anidride carbonica, fino agli ultimissimi giorni di prova, a qualche giorno di distanza dalla prima esecuzione, riducendo, allargando, tagliando e riscrivendo numerosi fogli. Il prodotto scaturito da una gestazione tanto lunga è senza dubbio, e non poteva non esserlo, di notevole qualità e pregio artistico.

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Una Turandot che farà storia quella diretta da Chailly, col finale di Luciano Berio, in scena al Teatro alla Scala per l'apertura di Expo. Un Puccini insolito, nuovissimo, rivisitato, che sfonda i confini del melodramma italiano e dirompe nell’espressionismo musicale, nella politonalità che strizza l’occhio alla dodecafonia.

Non è forse un allestimento eccezionale, ed è presumibile che il giudizio complessivo della critica non sarà granché positivo, ma senza dubbio lascerà il segno nella filologia pucciniana e nell’esecuzione del Puccini maturo il lavoro di ricerca intima, misura per misura, che Riccardo Chailly ha operato sulla partitura della Turandot dalla prima all’ultima nota, fino a congiungerla con il recentissimo spartito conclusivo di Berio.

Lo spettacolo è la riedizione aggiornata di quello che andò in scena ad Amsterdam nel 2002, con la regia di Nikolaus Lehnhoff, cui sovrintese lo stesso Berio, scomparso soltanto l’anno successivo.

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Mercoledì, 22 Aprile 2015 00:00

Giselle, il ballet blanc che commuove la Scala

Sono ormai diverse decadi che alla Scala si aggirano le Villi, leggendari spiriti danzanti, vestiti di bianco e tremendamente vendicativi: sono le anime immortali delle giovani tradite o abbandonate, che danzano sulle note di “Giselle”, intramontabile balletto di Adolphe-Charles Adam.

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L’immortale libertà di Carmen, alla Scala

Fu l’ultimo lavoro musicale di Georges Bizet, la Carmen che è oggi tra le opere più rappresentate al mondo e di cui lui, morto dopo soli pochi mesi dalla fallimentare prima parigina del marzo 1875, non potette assaporare il seguente clamoroso successo.

Un genio di cui si devono ancora indagare i molteplici risvolti, dalla produzione poliedrica ed eclettica, rimasto nella memoria popolare per i tre capolavori Les pêcheurs de perles, L’Arlésienne e la celebre Carmen, appunto.

Si potrebbe fare il paio con altri compositori precoci spentisi in giovane età nel pieno della produzione artistica, eppure Bizet resterebbe a buon diritto un unicum della storia della musica occidentale. Carmen, il suo lavoro sommo, è capace ancora oggi di stupire, commuovere e incuriosire ad ogni rappresentazione, ad ogni esecuzione, ad ogni ascolto: la trama e la musicalità di quest’opera non cessano di porci interrogativi e di darci risposte sempre nuove, come se fosse sempre la prima volta.

Il soggetto è tratto dal romanzo omonimo di Mérimée, ma nel libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy viene radicalmente stravolto, arricchendo i personaggi e ricostruendo ex novo la vicenda d’amore tra Carmen e Don José. Da novella di costume Carmen diventa un dramma quasi verista (e quasi politico, nella Parigi in piena lotta di classe che aveva appena combatto per la Comune), in cui però solo alla fine è permesso mettere in scena la morte, pure continuamente evocata.

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L’operetta si presta per definizione ad essere manipolata e reinterpretata ad ogni suo allestimento, e così avviene storicamente quando si mette in scena “Il Paese del sorriso”, Das Land des Lächelns nell’originale titolo tedesco, del noto compositore ungherese Franz Lehàr.

Ad esibirsi sulle sue note sono stati i cantanti, attori e ballerini della Compagnia Abbati, da molti anni in prima fila nella riproposizione di questo genere operistico sempre più dimenticato dai grandi circuiti e che abbiamo potuto vedere al Teatro Fraschini di Pavia, certamente piccolo ma altrettanto pregevole. Corrado Abbati approfitta a piene mani della sua dimestichezza con l’operetta e ci offre uno spettacolo inedito, dai dialoghi frizzanti e attualizzati e con un gusto molto italiano per il cabaret macchiettistico.

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Dopo più di due secoli riempie ancora le sale l’opera di un ragazzino di sedici anni, straordinaria e piacevole contro ogni aspettativa. Se è pur vero che il soggetto non è entusiasmante e che buona parte della partitura è semplicemente l’esito necessario delle regole di composizione del tempo, vi è già con chiarezza quell’insieme di sonorità cristalline e limpide decisamente mozartiane.

Composto a Milano nel 1772 per il Regio Ducal Teatro, l’antenato della Scala, il Lucio Silla è un’opera seria in tre atti in pieno stile classico: erano 30 anni che Lucio Silla non tornava al suo teatro natale ed è oggi in scena alla Scala in coproduzione col Festival di Salisburgo.

Sposta una sola nota e si immiserisce tutto. Cambia una sola frase e la struttura crolla.” Così viene a dire un estasiato Salieri nel famoso film di Forman, e così effettivamente è di fronte alle composizioni di Wolfgang Amadeus Mozart, genio musicale insuperato, precocissimo e prodigioso, che già da fanciullo componeva su commissione delle più importanti famiglie europee.

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Imponente e maestosa, Aida è l’opera nazionalpopolare per eccellenza, un capolavoro italiano famoso in tutto il mondo e tra i più rappresentati in assoluto.

Ad Aida non manca nulla, amore, guerra, pietà, odio, il travolgente corso collettivo degli eventi e l’intreccio inestricabile delle passioni individuali. Lo scenario esotico e la musicalità spettacolare incorniciano quest’opera intramontabile.

Giuseppe Verdi la compose nel 1871 su pressante richiesta del Chedivè d’Egitto Ismail Pascià per celebrare la precedente apertura del canale di Suez. In verità non molto propenso a scrivere su commissione, Verdi dovette essere convinto da amici francesi, tra cui il prezioso Du Locle, direttore dell’Opéra Comique di Parigi, e infine cedere, attratto dal soggetto del Mariette.

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Venerdì, 05 Dicembre 2014 00:00

Prima della Scala: Fidelio

Fidelio non è l’opera popolare e grandiosa che ci si aspetterebbe alla Prima della Scala, e nemmeno fu facile a suo tempo comporla per il grande Beethoven: unico suo lavoro teatrale, dalla gestazione lunga e dolorosa, si presenta nella forma di opera in due atti “Singspiel”, ossia con dialoghi recitati senza accompagnamento. La storia dello spettacolo ci informa che il Fidelio, o “L’amore coniugale”, dovette essere più volte rimaneggiato, sia nella lunghezza della partitura, che nel libretto e nella stessa ouverture. Oggi Fidelio è perlopiù eseguito in forma di concerto e, senza dubbio, godono di maggior fortuna le sue sinfonie. La scelta del direttore Daniel Barenboim è un recupero di parti precedenti la stesura finale del 1814, con l’esecuzione tra i due atti di una delle ouverture “Léonore”.

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