Non è dato sapere perché Giacomo Puccini, nel 1924, non concluse la partitura della favola di Turandot, principessa crudele che, per vendicare un’antenata violata da un conquistatore straniero, fa decapitare tutti i pretendenti che non risolvono i suoi indovinelli, ma che è costretta a cedere a Calaf, l’ignoto spasimante che scioglie gli enigmi e le vince il cuore. È certo che prima di morire di cancro egli ebbe tutto il tempo di poterne elaborare il finale, ma è forse legittimo ipotizzare che il Maestro non sapesse come riuscire a mettere in musica la trasformazione della “principessa di morte” in docile e fragile amante, una metamorfosi che egli non aveva mai sperimentato e che nessun capolavoro aveva ancora immortalato.
La Turandot di Ferruccio Busoni, del 1917, non può essere considerata un antecedente, poiché sebbene l’ispirazione del soggetto è la medesima (Turandot, pièce del 1762 di Carlo Gozzi, poi tradotta da Friedrich Schiller, suggerita da un racconto della raccolta “Le mille et un jours” di François Pétis de la Croix del 1710, probabilmente tratto dalla tradizione orale persiana), è agli stilemi classici che si rifà il Busoni, con numeri musicali chiusi e persino espliciti rimandi alla commedia dell’arte, mentre è al panorama musicale europeo (Stravinski, Bartok, Schonberg, Mahler, Debussy, Wagner, Strauss, ecc.), cui guarda Puccini, che utilizza ravvicinate tutte e dodici le note e fa un uso del tempo e dell’armonia azzardato, quasi audace. Una tavolozza timbrica che gira attorno alla melodia, costruendo un binario modernissimo armonia-melodia, in cui le continue modulazioni sembrano inseguire una tonalità che mai viene raggiunta appieno. Quasi un omaggio estremo alla scuola di Bach.
Chailly, che inaugurò la sua carriera sul podio dirigendo la Madama Butterfly a Chicago nel 1974, è forse il massimo conoscitore del genio pucciniano, e l’ha pienamente dimostrato. Lo studio filologico e analitico del direttore milanese si spinge ad una scelta curiosa: la “t” finale di Turandot viene fatta pronunciare. Non è dato sapere se così volesse Puccini, e molto probabilmente no. Il nome Turandot, dall’antico persiano Turan-dokht, figlia di Turan, ci viene dal Pétis de la Croix, in francese, e dunque con t afona (*Turandó), ma in Italia giunge attraverso il Gozzi, nella cui regione di provenienza, il Veneto, molti cognomi terminano in consonante. Toscanini non faceva pronunciare la t finale, e così avviene abitualmente, se non altro per ragioni eufoniche. Chailly decide invece di troncare il suono, trasformando radicalmente la percezione di un nome poetico e suggestivo che assume, così, un sapore decisamente più duro e cupo.
La Turandot secondo l’interpretazione di Chailly non è mai stata ascoltata alla Scala in forma scenica: ogni nota è eseguita con scrupolo e attenzione, le frasi secondarie evidenziate e riportate in luce dalla marginalità cui sono state confinate per decenni, e le musicalità stridenti, avanguardiste, emergono dalla melodia. Il risultato è sorprendente e rivela un’orchestrazione mirabile, di ricercatissime armonie, che spazza via ogni ascolto precedente: non più un poema eroico e grandioso, quanto piuttosto una storia d’amore morbosa, ossessiva, che si sublima nel sacrificio e nell’alienazione. Con Chailly l’orchestra suona sempre appieno, le percussioni battono rumorosamente, e nessun fraseggio si perde in sottofondo: le citazioni con cui Puccini omaggia i suoi contemporanei, le sue stesse sperimentazioni e ogni passaggio critico vengono abilmente sottolineati ed evidenziati.
Se è questa la Turandot filologica, quella che aveva in mente e nel cuore il tormentato Puccini, allora non è più l’opera che chiude la storia del melodramma italiano aperta da Monteverdi nel 1607 con Orfeo, ma è invece l’inaugurazione del ‘900. Non più una fine, ma un inizio.
Ed è così allora che assume ancora più significato il finale di Luciano Berio, tra i massimi compositori italiani del XX secolo, chiamato a concludere il lavoro pucciniano a 80 anni di distanza.
Il suo finale non ha nulla a che vedere con quello tradizionale di Franco Alfano, del 1926, che aderiva al libretto secondo il gusto del tempo e che fu l’unico finale di Turandot composto da contemporanei di Puccini. Luciano Berio riprende gli appunti del Puccini, ne riutilizza le parti completate e costruisce una partitura alquanto corposa. La melodia viene sconvolta, la politonalità trionfa e sconfina nella dodecafonia, gli intervalli di tritono si sprecano e dal mi bemolle d’ottavino del corteo funebre di Liù l’opera cambia volto: la metamorfosi della principessa Turandot sconvolge la musica. Il bacio di Calaf impone un lungo intermezzo sinfonico, alla Debussy, interrotto da alcune misure pucciniane che hanno però il gusto di Stravinski e, infine, l’evanescente conclusione wagneriana, in morendo (“come Tristano”).
Impossibile che questo finale possa avere qualcosa a che fare con ciò cui stava lavorando Puccini. Ma altrettanto vero è che il finale di Alfano contraddice clamorosamente le indicazioni del Maestro: dalle testimonianze d’epoca apprendiamo che alcuni amici di Puccini, e lo stesso Toscanini, sapevano che Turandot non poteva e non doveva finire nella pompa e nella gloria corale, ma nell’intimità della coppia che ritrova se stessa, finalmente in pace. L’unica Turandot originale deve quindi forse concludersi con il corteo funebre di Liù, e i finali di Alfano e di Berio devono essere considerati a parte, entrambi estranei all’opera. Come disse Arturo Toscanini dirigendo la prima assoluta alla Scala nel 1926 e fermando la bacchetta sull’ultima pagina autografa: “qui il Maestro è morto”.
La regia di Lehnhoff tenta di sostenere l’interpretazione di Chailly e Berio, ma senza intuito. Se i due hanno ricollocato Turandot sul piano della ricerca armonica, Lehnhoff non è riuscito a ridisegnare l’immaginario tradizionale secondo un’ermeneutica rinnovata.
A dominare la scena, dall’inizio alla fine, è un imponente cortile esterno di alte e lisce pareti rosse puntellate, come architetture di terra protostoriche, che segnano un confine inviolabile tra lo stuolo di dignitari e la plebe, che spunta dal sottosuolo. Non c’è cielo, ma una grande apertura circolare, nella quale si libra la figura dell’imperatore Altoum, abbigliato come una maschera dell’opera di Pechino, etereo e sovrannaturale. A collegare l’iperuranio con la terra sono i tre ministri Ping, Pong, Pang, che salgono e scendono dai bastioni con delle funi e interagiscono con tutti i personaggi.
Lehnhoff ci riporta alla Turandot di Gozzi e li veste come pagliacci da canovaccio, anche le loro movenze sono quelle irreali della commedia dell’arte: un’ironia sottile e grottesca, per tre personaggi che si comportano sempre all’unisono, individualisti e cinici.
Sparisce il boia Pu Tin Pao, sostituito da una mistica fiamma di fuoco vivo che scaturisce dal centro del palco, come un ancestrale rituale sacrificatorio.
L’ambientazione generale è marcatamente noir, apocalittica e surreale, i colori dominanti sono rosso, bianco e nero, che spariscono solo sulle note finali, nel bagliore giallo dell’alba che accoglie la coppia di amanti Calaf e Turandot.
I costumi disorientano. Comici e gotici quelli dei tre ministri, maestoso Altoum, Turandot è una soubrette in nero e tacchi a spillo, Liù e Timur indossano tuniche candide da cavalieri jedi, Calaf è in veste scura a strascico. Il popolo e i dignitari sembrano usciti da uno splatter apocalittico anni ’70, con tanto di cappottoni di cuoio scuro, lucidi coltelli alla mano, neutre maschere bianche e oro ed enormi cappelli a cilindro.
Non c’è maestosità né favolosità ed il risultato stanca, laddove non sfora il ridicolo, riducendo lo spettacolo ad un underground di maniera. La mancanza di gusto è suggellata dalla scelta di mantenere il cadavere di Liù in scena, dalla sua morte all’annuncio del matrimonio tra Calaf e Turandot, eliminando il pathos tragico e catartico dell’opera a vantaggio di un’interpretazione macabra, spersonalizzata, raccapricciante. A Liù, forse, tocca la stessa sorte di Puccini, entrambi morti prima che la storia di Turandot possa concludersi ed entrambi costretti a perpetuarsi spettralmente nel finale.
La regia non riesce a costruire i personaggi alla luce delle nuove sonorità emerse dalla lettura di Chailly, le gestualità sono rituali e l’innovazione non dialoga con la tradizione. Il risultato ha un effetto di straniamento ed alienazione, che forse combacia con le intenzioni di Berio, ma che avvilisce il portato drammatico del libretto e della musicalità pucciniana.
A non rendere merito alla mirabile direzione di Chailly è anche il cast, tutto sotto tono. A dire il vero è possibile che la scenografia, così profonda, frastagliata e piena di buchi, abbia minato l’acustica del canto, già provata dal suono molto forte dell’orchestra.
In Prova Generale non abbiamo potuto assistere al Calaf di Aleksandrs Antonenko, che si esibirà alla prima del 1 maggio, ma a quello di Stefano La Colla: decisamente inascoltabile. Nessuna espressività, persino qualche stonatura e in generale una voce che non ha niente a che fare con un personaggio che non può avere sonorità spezzata e afflitta, ma che deve essere deciso e risoluto, squillante e preciso, un tenore eroico e non patetico.
Incerto anche l’imperatore Altoum del tenore Carlo Bosi, nelle sue poche battute. Niente di eccezionale il Timur di Alexander Tsymbalyuk, un basso preciso e intonato, bravo ma inespressivo.
Molto bene il Mandarino del baritono Ernesto Panariello, nelle sue pochissime battute ha fornito ottima prova di sé.
Freddi e dalle voci un po’ cigolanti i tre ministri Ping, Pong e Pang, cioè i cantanti Angelo Veccia, Roberto Covatta e Blagoj Nacoski. Ottimi e simpatici attori, molto espressivi e perfettamente nella parte, ma le cui voci non hanno trasmesso emozione.
Molto brave le due interpreti femminili.
Nina Stemme, soprano, è una Turandot dal timbro corposo ed espressivo, caldo e pieno. Precisa ed intonata, squillante e penetrante, incredibile che la sua voce proferisca da un personaggio vestito così malamente.
Ottima e davvero sensazionale la Liù di Maria Agresta. Voce perfetta ed espressione azzeccata, una soprano dalle grandi potenzialità che sa rendere alla perfezione un personaggio così travagliato.
La storia di Turandot ha i contorni dell’oriente tragico e passionale, da Mille e una notte. Il libretto è di Giuseppe Adami e Renato Simoni, liberamente tratto dalla favola di Pétis de la Croix, Gozzi e Schiller. Dal racconto francese è tratta la storia d’amore di Calaf, che sfida gli enigmi di Turandot pur di conquistarla, da Gozzi sono ricavati le tre maschere di corte e il rapporto della capricciosa principessa con la plebe e col padre imperatore. Di Schiller si notano le sfumature patetiche ed eroiche della vicenda ed è su questa versione che si era cimentato nel 1809 Carl Maria von Weber. Del tutto innovativo il personaggio di Liù, la schiava perdutamente innamorata di Calaf.
Era la prima volta, dalle Villi del 1884, che Puccini affrontava un soggetto fantasioso, in cui l’elemento femminile principale è algido e orgoglioso. Turandot è una novità assoluta per il genio pucciniano, e solo Liù ci riporta al novero dei suoi memorabili personaggi. Nella tradizione s’inseriscono anche Ping, Pong e Pang, dai tratti comici e buffi, che Puccini aveva già affrontato più volte.
L’ambiente esotico, ma fiabesco, è deliziosamente affrescato da raffinati motivi originali cinesi, musicati da un Puccini che mai viaggiò in oriente e che li aveva potuti ascoltare solo indirettamente. I motivi cinesi assurgono a leitmotiv dell’opera, e ricompaiono frequentemente durante tutti e tre gli atti.
La storia è piuttosto lineare, per quanto densa e struggente.
Atto primo. Un Mandarino ripete al volgo il decreto della principessa Turandot: “Popolo di Pechino! La legge è questa: Turandot la pura sposa sarà di chi, di sangue regio, spieghi i tre enigmi ch'ella proporrà. Ma chi affronta il cimento e vinto resta porga alla scure la superba testa!”. Il Principe di Persia, avendo fallito, è condannato a porgere la testa al boia Pu Tin Pao, la folla è divisa tra il visibilio e la pietà. Nel trambusto il vecchio Timur, re dei Tartari in esilio, vecchio e cieco, s’imbatte nel giovane Calaf, suo figlio, anch’egli fuggiasco, che credeva morto. Timur è accompagnato dalla schiava Liù, che lo serve fedelmente assorbita dall’amore che nutre per Calaf da cui spera d’essere ricambiata.
Dal palazzo appare la principessa Turandot, bianca come la luna, pallida come la testa del Principe di Persia. Calaf ne resta immediatamente folgorato e decide di affrontare la prova: a nulla valgono le suppliche di Timur e Liù. Anche i tre ministri Ping, Pong e Pang si frappongono e tentano di dissuaderlo, ma Calaf è inamovibile e suona il gong della sfida.
Atto secondo. I tre ministri sono sconsolati, rimpiangono i giorni felici di un tempo e la gloria della Cina, scontenti del governo crudele e truce di Turandot. Sono divenuti servi del boia, a furia di organizzare esecuzioni pubbliche dei miseri pretendenti della principessa.
Anche l’imperatore Altoum è scoraggiato e tenta di scacciare Calaf, rifiutandosi di ammetterlo alla prova degli enigmi. Il principe dei Tartari è inamovibile e vuole affrontare le tre domande di Turandot. I sapienti di corte giungono con gli indovinelli, nel frattempo la principessa racconta la storia della sua antenata Lou-Ling, profanata, rapita e uccisa da un tartaro in seguito ad una disfatta militare dei cinesi: Turandot è decisa a vendicarla. Calaf accetta la provocazione, è certo di poter vincere.
La principessa pone gli enigmi e Calaf, con qualche esitazione, li risolve tutti: le risposte sono “speranza”, “sangue”, “Turandot”. Il popolo esulta, l’imperatore è deciso a sposare la figlia, ma Turandot è disperata, supplica il padre di annullare il giuramento, ma invano. Calaf non accetta una simile vittoria, vuole Turandot, ma non senza essere ricambiato, così pone a sua volta una domanda fatale alla principessa, se lei la risolverà lo potrà condannare a morte: prima dell’alba Turandot deve scoprire il suo nome e la sua ascendenza.
Atto terzo. Turandot ha emanato un nuovo editto: che nessuno dorma a Pechino finché il nome dello straniero sia scoperto, pena la morte per chi non collaborasse con la polizia. Calaf è certo del suo anonimato, Ping, Pong e Pang tentato di corromperlo con ricchezze, donne e gloria purché egli riveli loro il nome e fugga lontano. Niente però lo può convincere. Ma proprio ora giungono delle guardie che cingono Timur e Liù, anch’essi stranieri e visti parlare con Calaf poche ore prima.
Turandot ordina ai suoi ministri di torturare i due finché non si sappia il nome, ma Liù dichiara di esserne la sola a conoscenza. La schiava invita Turandot a cedere all’amore di Calaf, cui lei è tanto devota. Al colmo delle torture, per non rivelare il nome del suo principe, Liù strappa una spada da una guardia e si pugnala a morte. Timur, che non ha visto nulla, si accorge del misfatto e maledice Turandot: la folla è attonita e impietosita. Anche Ping, Pong e Pang sono colti dai rimorsi e si uniscono al corteo funebre. (Qui finisce la partitura di Puccini.)
Calaf, sdegnato, si fionda su Turandot, le strappa il velo e la bacia con passione. La principessa è sconvolta, l’amore di Liù e il bacio di Calaf le hanno rivelato il potere e l’attrazione dei sentimenti e sciolto il cuore. La principessa sbianca e piange, Calaf l’ha vinta per la seconda volta. Il principe sa di non avere più nulla da perdere e di aver ormai conquistato il cuore dell’amata: le rivela la sua identità proprio prima che il sole albeggi.
Alle prime luci dell’alba Turandot, annunciata da squilli di tromba, dichiara all’imperatore e al popolo il nome del pretendente: Amore. Calaf è salvo e ricambiato.
Nel finale di Alfano, il tripudio generale suggella la felice conclusione del dramma, in Berio la scena è deserta e irradiata di luce. La sua musica, pur stupenda, eccede tuttavia notevolmente la poetica di Puccini, e rischia di annullare la tensione crescente creata dall’opera, pur reggendo il paragone col finale di Franco Alfano, che resta forse quello più orecchiabile e in continuità con l’opera, specialmente il finale II (quello scelto da Toscanini, cioè un taglio verticale dal finale I, più bello ma anche più lungo).
La direzione di Chailly è e resterà memorabile, commuovente, un evento raro e di qualità indiscutibile. Con questo capolavoro egli debutta al Teatro alla Scala come direttore stabile. Del tutto deprecabile invece la regia di Lehnhoff.
Una Turandot sensazionale e discutibile insieme, il cui snodo interpretativo è, ancora oggi, la mancata conclusione. Una degna inaugurazione per Expo.