Venerdì, 05 Dicembre 2014 00:00

Prima della Scala: Fidelio

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Fidelio non è l’opera popolare e grandiosa che ci si aspetterebbe alla Prima della Scala, e nemmeno fu facile a suo tempo comporla per il grande Beethoven: unico suo lavoro teatrale, dalla gestazione lunga e dolorosa, si presenta nella forma di opera in due atti “Singspiel”, ossia con dialoghi recitati senza accompagnamento. La storia dello spettacolo ci informa che il Fidelio, o “L’amore coniugale”, dovette essere più volte rimaneggiato, sia nella lunghezza della partitura, che nel libretto e nella stessa ouverture. Oggi Fidelio è perlopiù eseguito in forma di concerto e, senza dubbio, godono di maggior fortuna le sue sinfonie. La scelta del direttore Daniel Barenboim è un recupero di parti precedenti la stesura finale del 1814, con l’esecuzione tra i due atti di una delle ouverture “Léonore”.

 

Un’opera difficile fin dalla sua rappresentazione nella Vienna assediata da Napoleone, per il suo doppio livello interpretativo, etico-politico e amoroso-romantico, unitamente alla particolarità di Beethoven di trattare le voci “come fossero strumenti”, oggi Fidelio non attrae certamente per il libretto di Sonnleithner e Treitschke, ma per la straordinaria musicalità.

La trama del soggetto, tratta da vicende realmente accadute durante la Rivoluzione francese, è ambientata in Spagna e raccontata in tedesco.

Léonore, moglie di Florestan, si finge, en travesti, Fidelio per poter lavorare come aiutante del carceriere Rocco nella disperata ricerca del marito disperso. In tale veste Léonore/Fidelio suscita l’amore di Marzelline, figlia di Rocco, di cui è innamorato non corrisposto anche Jaquino, guardiano del carcere. Florestan è ingiustamente detenuto nelle segrete della prigione dal governatore Don Pizarro, suo nemico personale, all’insaputa di tutti, persino del vecchio carceriere Rocco che lo crede un criminale come altri.

Léonore/Fidelio convince Rocco a far uscire nel cortile della prigione i detenuti, contro le severe disposizioni del governatore, per cercare tra loro il marito, ma non lo trova. Florestan è infatti condannato a restare legato nei sotterranei, senza nome, isolato e costretto ad un rigido razionamento dei pasti. Nel frattempo Rocco promette in sposo alla figlia Marzelline il suo fidato aiutante Fidelio.

Don Pizarro riceve la notizia dell’imminente visita del ministro Don Fernando, vecchio amico di Florestan, che ha intenzione di verificare la corretta applicazione delle leggi, a partire dalla corrispondenza tra l’elenco dei prigionieri e i detenuti effettivi. L’ingiusta carcerazione di Florestan sta per essere scoperta.

Don Pizarro decide per l’estrema soluzione e convince Rocco, che si rifiuta di uccidere il prigioniero, a scavarne la fossa mentre si apprestano i preparativi per accogliere Don Fernando. Léonore/Fidelio, che a fatica è riuscita a farsi affidare questo delicato incarico, scende nelle segrete con Rocco e qui incontrano il derelitto Florestan, che nel delirio invoca il nome dell’amata. Mentre i due carcerieri scavano la fossa Léonore/Fidelio, già impietosita, riconosce infine il marito, ma Don Pizarro, giunto armato, è deciso a porre fine alla vita del suo rivale. Léonore/Fidelio si frappone ad ogni costo a difesa dell’amato e Rocco, al colmo della pietà, ne prende anch’egli le parti. Quando Léonore rivela a tutti la sua vera identità, nel grande stupore generale, la tromba della guardia di vedetta annuncia l’arrivo di Don Fernando. Per Don Pizarro è la fine.

Nel cortile della prigione, mentre la folla esulta per l’arrivo del liberale ministro, Don Pizarro è accusato da Rocco e dai presenti delle sue brutalità e Florestan, liberato da Léonore, viene accolto dal vecchio incredulo amico Don Fernando che annuncia l’amnistia generale. Marzelline si riconcilia con Jaquino nel tripudio generale che esalta in Léonore l’eroismo dell’amore e della giustizia.

L’opera si conclude con l’aria corale “Chi ha conquistato una cara sposa si unisca al nostro giubilo” tratta dall’Inno alla Gioia di Schiller, poi musicato da Beethoven nella celeberrima sinfonia n°9. 

Il passaggio alla Scala dal Sovrintendente Stéphane Lissner ad Alexander Pereira, patron della stagione Expo 2015, ha già creato numerose polemiche, e si teme a ragione che questa Prima non riuscirà a sedare gli animi.

Se il cast è di prim’ordine, e la direzione di Barenboim suggella la qualità dell’esecuzione, la regia di Deborah Warner non entusiasma l’unanimità della critica. Apprezzabile il tentativo di evidenziare entrambe le tematiche filosofiche, da un lato la giustizia che trionfa sull’oppressione, dall’altro l’amore che vince ogni ostacolo, e persino la scelta di una scena pulita e maestosa nella sua semplicità. Tuttavia la decisione di ambientare la vicenda nella stretta contemporaneità, l’eccesiva recitazione richiesta ai cantanti e una smania di colmare i vuoti in scena, anche con oggetti d’uso quotidiano, appesantiscono inevitabilmente l’allestimento. 

Deborah Warner, con la scenografa Chloe Obolenski, sembra più intenzionata a creare una sua propria opera d’arte, piuttosto che a mettere in scena il Fidelio di Beethoven, secondo una poetica diffusa della regia che però non sempre riesce a unificare la critica.

Il primo atto, dopo la lunga ouverture, è in particolare esemplare di un uso degli spazi e delle luci poco teatrale, più televisivo. Non ci sono quinte né effetti luminosi, ma un unico piano senza dimensioni. Lo stesso sipario si alza in verticale, rigidamente. I cantanti, impegnati addirittura a stirare vestiti o a scaraventare oggetti a terra, distraggono più del dovuto nell’eccesso di recitazione. I costumi anonimi, veri e propri abiti in borghese, alimentano una fastidiosa contraddizione tra la vicenda raccontata e la sua rappresentazione: soltanto le guardie hanno tutte gli stessi pantaloni grigioverdi con gli stessi scarponcini militari. Poco concreta, nel mezzo di una rappresentazione iperrealistica, la scena del coro di prigionieri senza catene e ben allineati. Del tutto fuori luogo la comparsa di un canelupo al guinzaglio e la scena del riposo delle guardie.

I cantanti, specie il soprano Mojca Erdmann/Marzelline e il tenore Florian Hoffmann/Jaquino, troppo indaffarati nel ruolo di attori, rischiano seriamente di affaticarsi inutilmente e di non eseguire al meglio la parte.

Il secondo atto, dopo la seconda più breve ouverture durante la quale si apre il sipario, è più maestoso, una colossale cattedrale postmoderna di cemento, ferro e macerie, una fabbrica abbandonata più che una prigione, buia e spettrale. Anche qui ai cantanti viene fatta recitare la parte in maniera melodrammatica, soprattutto alla bravissima Anja Kampe/Léonore. Qui compare finalmente anche Florestan, parte romantica dalle musicalità innovative, interpretato dal tenore Klaus Florian Vogt. Unica nota stonata l’epilogo frastornante, in cui si esagera con i colori, con i gesti e l’esito finale appare più come un’invasione di campo di esaltati tifosi che un coro inneggiante alla virtù e alla giustizia. Imperioso sulla scena il baritono Peter Mattei/Don Fernando, che alla Scala aveva trionfato col Don Giovanni del 2011.

Ottimi anche il baritono Falk Struckmann/Don Pizarro e il basso Kwangchul Youn /Rocco, due vere icone, insieme alla Kampe in scena continuamente dall’inizio alla fine dell’opera.

Mentre Barenboim, che nel 2015 abbandonerà la direzione musicale della Scala cedendo il posto a Riccardo Chailly, opta per una direzione filologica e psicologica insieme, la regia è certamente fin troppo creativa. La prigione è diventata una fabbrica abbandonata, in cui si esercita la violenza di Governo in ogni sua forma, anche attraverso il degrado stesso degli ambienti. La Warner vuole portare in scena l’ordinarietà della classe operaia e della classe borghese, entrambe alle prese con una situazione straordinaria. Di qui forse lo iato tra l’estrema insipidezza dei costumi e la sovrabbondante recitazione dei personaggi.

Nella discesa agli inferi, la catabasi di Orfeo in cerca di Euridice, Rocco, Léonore e Don Pizarro interpretano tre diverse disposizioni dell’uomo di fronte al destino individuale: l’accettazione, l’eroismo, la crudeltà. Ed è Léonore ad avere la meglio, (agitando grottescamente una ridicola arma giocattolo) perché amor omnia vincit, secondo giustizia e secondo religione.

Se le musiche di Beethoven bastano e avanzano al mistero etico della luce che scalza le tenebre, è evidente che una regia esosa rischia di vanificare l’effetto. La pioggia finale di coriandoli luminosi, a mo’ di neve, è degna di un musical di Broadway ma non certo del Teatro alla Scala. Restano pregevoli le intenzioni di intrecciare il tema amoroso con quello politico, il tema della virtù con quello della verità difficilmente conciliabili sulla scena. Sicuramente memorabile resterà l’enorme ricostruzione scenografica, che anche a distanza ravvicinata sembra aver portato al Piermarini un immenso capannone industriale, verosimile al dettaglio.

L’applauso è strappato, anche questa volta. Ma i fischi sono dietro l’angolo. 

La rappresentazione del 7 dicembre inizia alle 18.00 con l’esecuzione dell’inno nazionale ed ètrasmessa in diretta su Rai5 in Eurovisione, su Rai Hd canale 501, su Radio3, in 150 cinema, nelle carceri, nei teatri e in galleria Vittorio Emanuele, su Arté e Zdf, in differita nel resto del mondo.

Ultima modifica il Domenica, 01 Febbraio 2015 21:20
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