“Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizetti è tra i capolavori romantici per eccellenza, una storia tanto semplice quanto tragica, il cui dramma intreccia un amore impossibile con i maneggi politici, il destino individuale con la famiglia, l’onore e Dio, l’eterna dialettica tra passione e morte. Chiamati a interpretare i primi ruoli sono, questa volta, la nota soprano Diana Damrau e l’italiano Vittorio Grigolo, tenore alla ribalta. Abbiamo avuto la fortuna di ascoltare invece Elena Mosuc e Piero Pretti in Prova Generale nei ruoli rispettivamente di Lucia ed Edgardo, interpretati meravigliosamente da questi due artisti fenomenali, perfettamente all'altezza dei due interpreti del primo cast.
La regia ricostruisce la Scozia dell’ottocento donizettiano con impeccabile precisione e realismo, eccetto qualche accorgimento scenico, come le rigide quinte nere che ridisegnano lo spazio nel primo e nel terzo atto, piuttosto superflue a dire il vero. Costumi, scene e luci immergono lo spettatore tra le brughiere, le rovine e i palazzi dell’immaginario scozzese con un’accuratezza e una precisione degne del Teatro alla Scala. L’ambientazione ottocentesca, invece che cinquecentesca, sebbene non pertinente con le vicende narrate, in cui si parla di re Giacomo e della regina Maria, non scalfisce la fruizione dell’opera che fu scritta per il Teatro San Carlo di Napoli nel 1835.
Tra gli elementi che più collidono con la trama, e che sono davvero ingiustificabili, vi sono il fotografo che scatta un ritratto di famiglia durante un matrimonio che più disastrato non si può, e il medico chiamato a tranquillizzare una “Lucia di Lammermoor” in delirio e morente: caratteri inventati dalla Zimmermann in maniera del tutto arbitraria.
Immaginiamo che lo spettatore di questa “Lucia”, richiamato alla Scala in un giugno dominato dall’Expo, non avrà le esigenze del melomane, quanto piuttosto quelle del turista internazionale, e che dunque lo spettacolo godrà di sicuro successo.
Dalla direzione di Stefano Ranzani ci si poteva attendere di più e di meglio. L’orchestra pare lasciata a se stessa e il risultato è una generale mancanza di espressività e qualche scivolone: nel complesso la sensazione è di appiattimento e insipidezza, tutto il contrario di quanto ci vuole fare ascoltare Donizetti. Abbastanza incomprensibili alcuni tagli che accorciano qui e là le arie e i concertati dei protagonisti.
“Lucia di Lammermoor” è un melodramma in pieno stile, con i numeri tradizionali e l’orchestrazione tipica dell’opera italiana, eppure Gaetano Donizetti riesce a colorare straordinariamente le parti, soprattutto quella di Lucia che rompe gli schemi in più occasioni fino alla celeberrima scena della follia, accompagnata dal suono spettrale e stridente della glassarmonica, spesso sostituita dal flauto traverso, dal timbro però molto più fresco e limpido, con un lunghissimo recitativo e due arie dagli accenti estremamente virtuosistici (la cadenza è invece un'interpolazione successiva).
Il soggetto, tratto dall’omonimo romanzo di Walter Scott pubblicato nel 1819, si basa su una leggenda del 1600 riguardante la famiglia Dalrymple. Se Scott aveva posticipato le vicende al 1700, il librettista Salvadore Cammarano le anticipa di un secolo, incentrandole soprattutto sull’amore e la follia di Lucia, e insieme a Donizetti sperimenta alcune assolute novità come la rottura della tradizionale struttura strofica della cavatina di Lucia, l’asimmetrica e lunga scena della follia e la morte in scena, per suicidio, del tenore a conclusione dell’opera.
La trama è ambientata nella Scozia delle lotte intestine del XVI secolo, a Lammermoor (Lammermuir sulle carte). Lucia Ashton è segretamente innamorata di Edgardo Ravenswood, acerrimo rivale del fratello di lei Enrico. L’armigero di casa Ashton, Normanno, ha scoperto la tresca e ne informa il suo lord, che ha stabilito di sposare la sorella ad Arturo Bucklaw: la famiglia Ashton è infatti in una situazione politicamente delicata e le sue sorti sono in grave stallo, solo questa unione con i Bucklaw può risollevarle. Lucia confida il suo amore alla dama Alisa, che la avverte dei suoi cattivi presentimenti. Edgardo, in partenza per le incombenze politiche, incontra clandestinamente Lucia giurandole eterna fede e rinunciando al patto di vendetta che il padre gli aveva fatto pronunciare contro gli Ashton: Lucia ricambia commossa e i due stringono un patto nuziale invocando come unico testimone Dio.
Con Edgardo fuori gioco, Enrico e Normanno hanno il campo sgombro: per convincere Lucia diffondono la falsa voce dell’unione di Edgardo con una nobildonna straniera e, intercettata ogni sua corrispondenza verso Lammermoor, la occultano, così che le lettere di Lucia non abbiano mai ricevuto risposta. Il padre spirituale della giovane Ashton, Raimondo, la induce a sopportare di buon grado il matrimonio con Arturo e a dimenticare Edgardo, dal quale anche lui non ha mai ricevuto risposta.
Lucia è disperata e acconsente solo sotto le minacce e le percosse di Enrico. Le nozze con Arturo sono celebrate nella massima pompa, tutti paiono gioire eccetto Lucia, che firma le carte di matrimonio tra le lacrime e il pianto. Proprio non appena concluso il rito nuziale irrompe a palazzo Edgardo, per reclamare la mano dell’amata. Quando vede le carte matrimoniali si infuria con Lucia, gridando vendetta contro la casata fedifraga degli Ashton: i presenti lo cacciano sdegnati ed Enrico gli accorda un duello, da celebrarsi all’alba. Lucia è frastornata, il suo cuore è ormai a pezzi e la mente sempre più confusa.
I festeggiamenti proseguono fino a notte, quando Raimondo ferma improvvisamente le danze: nella stanza di Arturo e Lucia è avvenuto un omicidio. Piomba il silenzio e dal buio avanza Lucia, bianca in volto e ancora in abito nuziale. Nel delirio essa rivive il suo amore per Edgardo e non s’accorge d’aver ucciso lo sposo Arturo. Enrico è cieco di follia, la sta per colpire, ma gli invitati e Raimondo lo fermano in tempo: Lucia è talmente scossa e sconvolta che non solo delira, ma sviene senza più forze in corpo. In una battuta qui tagliata dalla Zimmerman, Raimondo accusa Normanno del misfatto, che in questo allestimento è invece ben visibile in scena, sebbene muto.
Edgardo nel frattempo sta attendendo l’alba nel cimitero del castello, maledicendo la sua sorte e il tradimento dell’amata si è deciso a farsi uccidere in duello da Enrico, quando vede alcuni invitati uscire di palazzo affranti: alle sue domande gli confidano che Lucia è in punto di morte ed egli capisce di essere sempre stato fedelmente amato. Al suono delle campane in agonia, Edgardo si pugnala a morte, nonostante l’intervento di Raimondo, per potersi così riunire alla cara Lucia.
Il cast è di prim’ordine: tanto la Damrau che Grigolo si sono cimentati recentemente in “Lucia di Lammermoor” su palchi internazionali, anche se senza particolare bravura. Non nuovi nella parte, e sempre bravissimi, Mosuc e Pretti, che hanno sostituito Damrau e Grigolo con un'ottima esibizione.
Elena Mosuc ha fornito prova di doti davvero notevoli, che aveva già mostrato nella parte di Micaela in “Carmen”: una voce angelica e tragica insieme, assai espressiva e piena. La qualità tecnica è migliorabile, ma le minime sbavature non riescono ad offuscare un livello davvero alto di virtuosismo e belcanto.
Piero Pretti, chiamato all’ultimo momento, ha interpretato la parte con piglio sicuro e ben saldo. Voce, tecnica ed espressione sempre puntuali, che sono riusciti a dare la giusta impronta ad un personaggio che spesso risulta quasi secondario.
I due interpreti hanno caratterizzato molto bene i travagli interiori e le trasfigurazioni esteriori dei due personaggi donizettiani.
Davvero bravo anche l’Enrico del baritono Gabriele Viviani, con voce densa e vibrante, piena e drammatica. Le sue potenzialità sono davvero grandi, nonostante qualche piccolissimo errore.
Squillante e acutissimo il Normanno di Edoardo Milletti, preciso e puntuale ma forse poco adatto al ruolo. Ugualmente secco e dal timbro assai pungente Juan José de Leon nel ruolo di Arturo, potente ma anche insicuro nell’espressione. Due caratteri certamente secondari, ma con una personalità decisiva per lo svolgersi degli eventi.
Brava Chiara Isotton, Alisa, nelle poche battute che le competono, molto espressiva e accurata. Ugualmente bravo il Raimondo di Alexander Tsymbalyuk, in una prestazione migliore di quella che ci aveva regalato in Turandot, in un ruolo assai difficile da rendere per l’importanza nella storia e la scarsità di battute.
Molto bene il coro, ancora una volta, che sotto la direzione di Bruno Casoni non perde occasione di dimostrare eccezionale versatilità.
Niente da ridire sulla breve coreografia del terzo atto, una ricostruzione filologica delle danze del tempo ben eseguita dal Corpo di ballo nella sua semplicità.
Gli applausi sono stati lunghi e calorosi, per uno spettacolo che non cessa di commuovere gli spettatori e gli ascoltatori di tutto il mondo.