Iniziamo parlando di fotografia. Ho appena sfogliato C’era una volta la bellezza, un libro fotografico che raccoglie dei bellissimi ritratti di bambini nell’America degli anni ’20. L’autore, Lewis Wickes Hine, è un fotografo americano non molto conosciuto, ma le foto sono straordinariamente belle e questo album fotografico mi ha colpito molto. Ci racconti come è nata l’idea di pubblicarlo in Italia?
L’idea del libro nasce a 70 anni dalla morte di Lewis Hine. La sua è è la storia di un grande innovatore, paradigmatica dell’America in ebollizione culturale nella prima metà del secolo scorso e in modo particolare nei primi 20 anni. Non è un caso che lui nasca sociologo. Si potrebbe dire che è un sociologo del lavoro ante litteram: la codificazione disciplinare è di molto posteriore all’esperienza di Lewis Hine, la sociologia del lavoro infatti è una disciplina per la cui nascita possiamo risalire forse agli anni ’50 agli anni ’60. Lewis Hine intuisce la grande potenzialità della macchina da ripresa fotografica per parlare a un pubblico vastissimo e per creare una consapevolezza diffusa su di un problema che non era neppure percepito come tale. Questi bambini italiani, irlandesi, ebrei, polacchi e latinoamericani sono il motore della crescita economica e della grande industrializzazione americana tra il 1890 e il 1920. Il committente è il National Child Labor Committee, un’agenzia governativa che nasce con l’idea precisa di istituzionalizzare una ricerca sulle condizioni dei minori al lavoro in tutta l’America, nei campi, nelle miniere, nell’industria tessile e non ultimo nelle città. Si ritiene a torto che in città i lavori siano meno usuranti di quelli nei campi, di quelli nelle miniere o nell’industria di trasformazione alimentare. In realtà la città è l’inferno per i lavoratori bambini, anche perché li espone a rischi che vanno al di là del lavoro. L’età media in città è molto bassa: vengono assunti bambini anche sotto i 6 anni per distribuire giornali, per lustrare le scarpe, o per lavori come il facchinaggio o la consegna della posta.
Lewis Hine si avventura in America e la percorre in lungo e in largo. Una delle cose senz’altro più rilevanti dell’indagine della ricerca di Lewis Hine è che alla fine degli anni 20 e lui può scrivere in una delle numerose note di corredo alle fotografie, che questo determinato bambino non avrebbe potuto lavorare in queste condizione in quest’orario qui. Se può scrivere questo è perché alla fine degli anni 20 si è diffusa una consapevolezza molto ampia e molto significativa del dramma del lavoro minorile, e a questa consapevolezza lui ha partecipato in modo determinante.
C’era una volta la bellezza. Qual è il motivo del titolo?
È che tutto questo non sarebbe stato possibile senza la bellezza delle fotografie: il valore documentaristico è molto alto, sul lavoro minorile è irripetibile perché è pionieristico, lui è stato davvero l’inizio. L’avere acquisito con il tempo una perizia e una consapevolezza sempre crescenti nell’uso della macchina fotografica, fa di Lewis Hine un fotografo vero e del suo lavoro di fotografo qualcosa che ha un valore estetico molto alto. In forza di questo valore estetico si può parlare con un largo giro di suggestioni magari, ma non del tutto infondate, del fatto che la coscienza civile americana, prima quella elitaria, apicale, e poi quella più comune, è stata in qualche modo arricchita rispetto a questo problema, perché le fotografie sono molto belle. La bellezza è stata come una specie di chiavistello, di grimaldello per muovere la consapevolezza.
Per cosa furono usate le fotografie che gli erano state commissionate?
Vennero usate semplicemente per i poster o la comunicazione sul lavoro minorile, tanto è vero che alla fine degli anni ’30 Hine comincia a fotografare le locandine con le sue stesse fotografie. Negli anni immediatamente precedenti al reportage commissionatogli del National Child Labor Committee, aveva fotografato la costruzione dell’Empire State Building, e aveva fotografato molto altro, prevalentemente opere mastodontiche di costruzione. Per lui il ritratto dei bambini, che sono figure complicate, spesso in movimento, fantasmi fotografici, era una novità assoluta, alla quale si era avvicinato perché nella cantieristica c’erano dei minori che lavoravano. Ma a partire dal 1932, il National Child Labor Committee comincia a guardare ad altri fotografi emergenti e Lewis Hine finisce nel dimenticatoio. Morirà in miseria, dimenticato da tutti, dopo aver segnato in maniera indelebile la storia della fotografia.
Il libro pubblicato da Aguaplano ha contribuito in maniera decisiva a farlo conoscere anche in Italia…
È un fotografo che in Italia è stato celebrato con quattro o cinque mostre dal 2011 ad oggi e questo è stato forse il primo libro in Italia. Avevamo usato alcune sue foto già prima dei 70 anni dalla morte, perché c’erano per alcune licenze molto più larghe di uso. A 70 anni dalla morte, scadendo i diritti, abbiamo potuto scaricare tutto il materiale dalla Library of Congress e fare finalmente il libro che stai vedendo.
Il vostro interesse per la fotografia non si ferma qui. Parliamo di un altro fotografo, Luigi Fiorillo e di un altro dei vostri libri fotografici: A Gerusalemme! Immagini dei Francescani in Terra Santa, a cura di Marco Pizzo.
Qui torniamo indietro rispetto ad Hine, a 20 anni prima. Se Lewis Hine è stato un pioniere nella scelta del soggetto, si può dire che Luigi Fiorillo è stato un pioniere nella scelta della tecnica, perché siamo nel periodo in cui il mondo dei fotografi stava passando dall’alchimia alla possibilità di realizzazione molto più alla portata di mano, per cui non era necessario essere un orafo per fare delle fotografie. A determinare questo cambiamento furono tutta una serie di fattori, ma quello decisivo fu la stampa all’albumina, cioè il fatto che per impressionare la carta fotosensibile non si usano più i sali di metallo, sali d’oro e d’argento soprattutto, ma si inizia a usare l’albume d’uovo, materia molto più facilmente reperibile e che non richiede la perizia e il costo del chimico. Luigi Fiorillo è uno dei primi ad usare questa tecnologia in Italia, però questo progresso fa sì che il ventaglio dei fotografi si ampli immediatamente a dismisura. L’attrezzatura si può trovare più a buon mercato, le competenze in gioco diventano meno significative e più facilmente conseguibili e allora tutti cominciano a fare i fotografi. Di conseguenza mercato si restringe improvvisamente, e buona parte dei grandi fotografi italiani, dei pionieri, scappa. La scuola fotografica di Yokoama ad esempio, in Giappone, è fondata da un italiano, Felice Beato e molte delle grandi fotografie di Asia, per esempio lungo la via della seta, e i grandi reportage fotografici al seguito delle campagne di esplorazione, dal 1870 al 1890, sono fatte tutte da fotografi che vanno a seguire gli esploratori e restano impiantati lì. Il futuro era quello all’epoca.
Questo è talmente vero che Fiorillo se ne accorge, vede nelle campagne di scavo in Egitto la sua “mecca” e dice: gli esploratori e gli archeologi avranno pur bisogno di una documentazione fotografica, i turisti, tra virgolette, e gli avventurieri vorranno fotografie e suvenir esotici; mi trasferisco ad Alessandria d’Egitto. Le cose più o meno devono essere andate così, perché sono andate così per molti altri.
Ad Alessandria d’Egitto è impiantata una nutrita colonia di francescani, che, a Gerusalemme e in Galilea, hanno disseminate tutta una serie di attività, educative, produttive, artigianali, ma anche di salvaguardia dei luoghi del cristianesimo in posti lontani e apparentemente sganciati dalle vicende della terra santa: Rodi, o la Siria, Damasco, o per esempio Alessandria d’Egitto, buona parte dei quartieri del Cairo e le città agli estremi del canale di Suez, Porto Said e Ismailia. I francescani di Gerusalemme vengono a sapere che c’è un fotografo impiantato ad Alessandria d’Egitto e gli commissionano la prima documentazione fotografica del loro lavoro. Questi tre album realizzati dallo studio fotografico Fiorillo, di cui abbiamo perso le lastre, i vetri, ma di cui abbiamo soltanto le riproduzioni a stampa su carta, sono stati ritrovati in maniera più o meno fortunosa, all’Archivio dell’Aracoeli, dai frati minori della provincia romana, che hanno proposto alla Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia di realizzare una mostra ad Assisi, che è la madrepatria dei francescani, e ne è venuto fuori questo libro qui, che è un inedito assoluto.
Essendo fotografia documentaristica, si alternano fotografie di gruppo, istituzionalizzate quanto vuoi, però segnate da una certa spontaneità in qualche caso. Sono le fotografie degli scolari, perché attività importantissima dei francescani è quella dell’educazione, nelle scuole maschili e femminili, per i tanti cristiani impiantati in Galilea, in Giudea (i palestinesi cristiani erano numerosissimi fino alla fine dell’800), e anche in Egitto, dove c’era una nutrita colonia cristiana che esiste anche oggi; i copti tutt’ora sono numerosi. Ci sono dunque queste fotografie di gruppo che testimoniano le attività di educazione, le scuole musicali, le scuole di lingua e quelle tecniche di avviamento al lavoro. Poi ci sono le attività di lavoro vero e proprio, la tipografia ad esempio: la tipografia più importante di Gerusalemme, per anni, per decenni, è stata quella dei francescani, come la legatoria di libri sacri più importante del medio oriente. E la stessa cosa vale per l’Egitto.
Oltre al valore documentaristico poi, che è altissimo, in più c’è un’altra cosa: le foto dei francescani in preghiera, che riprendono l’essenza più autentica della “custodia del luogo sacro” che ritorna a vivere: la Via dolorosa, il monte Tabor, Betlemme, la Grotta. Qui è successo e iniziato tutto e noi siamo ancora qui a pregare sulla pietra del consiglio. E non solo noi, anche i pellegrini in giacca e cravatta che vengono dall’Europa e che noi sosteniamo nel pellegrinaggio, sosteniamo spiritualmente e logisticamente e tutto questo lo facciamo davanti ai territori sconfinati del deserto. Noi se necessario predichiamo anche nel deserto. Questa grande varietà di interessi dunque trova un punto di innesto fondamentale nella preghiera e nell’attività di conservazione e salvaguardia dei luoghi sacri, che è l’attività centrale della custodia in terra santa, è il perno su cui tutto gira tutto il resto.
Cambiamo argomento. Ho conosciuto la vostra casa editrice attraverso un libro comprato qualche anno fa, Storie di psico-oncologia. Racconti e riflessioni tra medicina e psicoanalisi, di Francesco Milani. Se sono venuto a cercare il vostro stand oggi per intervistarvi è grazie a quel libro, che ho trovato estremamente interessante.
È stato il primo libro pubblicato dalla casa editrice. Ed è stato anche il primo libro in Italia di psico-oncologia. La disciplina era stata codificata da poco, esisteva solo un manuale e un altro testo la cui diffusione era destinata prevalentemente ai corsi di specializzazione accademica. Però non esisteva un libro di storie. Il bello di questo libro infatti è che è configurato in due parti. La prima parte è un pamphlet sullo stato dell’arte della medicina in Italia, ed è un pamphlet crudele. La seconda parte è delirante, visionaria, e si compone di sei o sette storie non sono tutte a lieto fine, di donne, perché è un libro di genere che parla di cancro della mammella. Queste storie vengono ricollocate in un percorso nel quale si sgranano alcuni luoghi con un forte carico simbolico, Narciso, le Amazzoni, altri miti. Questo tentativo molto radicale di riconducimento a istanze, quasi ipostatizzate, apparentemente lontane e slegate, è qualcosa di davvero visionario. È l’altro lato della luna, the dark side of the moon: i Pink Floyd sono citati a più riprese, per tutta una serie di suggestioni.
Accanto a questo, c’è il lavoro del medico: Francesco Milani era un medico, era un chirurgo d’urgenza addirittura. Uno che è passato dal paziente zero, sedato, senza dialogo possibile, all’ascolto del paziente. Questo libro traduce in maniera speculare la metamorfosi dell’uomo, che è passato dal rapporto nullo con una macchina da riparare, all’ascolto di una persona da sostenere, di cui prendere in carico la malattia. Quindi accanto alle suggestioni c’è l’idea di un uomo che prova a collocare la malattia nella storia di vita del paziente, questo è il cuore del libro, e nella storia di vita del paziente la malattia ha un posto preciso, che richiama ad altri posti, ad altri luoghi, ad altri traumi, ad atre sconfitte, ecc. Il tentativo di questo libro è un po’ questo, cercare nelle storie un posto per la malattia e riorganizzare le storie in funzione del posto che la malattia occupa. Il lavoro che lui faceva coi pazienti era questo ed era un lavoro molto proficuo.
Ed è anche un tipo lavoro che tra i medici si sta diffondendo con una maggiore consapevolezza solo negli ultimi anni.
Lui ne parlava quando questa consapevolezza era ancora relativa. Alessandro Cerami, quando ha finito di scrivere un altro dei libri del nostro catalogo, Una certa inquietudine naturale, sulla scultura ellenistica, ha voluto leggere il libro di Francesco Milani e ha detto: ora dovrei riscrivere buona parte del mio libro, perché gli uomini di marmo, gli uomini di bronzo di cui parlo, non soffrono meno degli uomini di carne di cui parla Francesco Milani. Il dolore ha una connotazione che non è soltanto meccanica, fisiologica, di elettricità, di reagenti, è qualcosa che ha molto a che vedere con la storia di vita delle persone, che siano di carne, che siano di marmo.
Una delle linee di interesse della casa editrice è certamente quella della filosofia. Ne è testimone per esempio, tra gli altri, il quarto libro che mi ha incuriosito e di cui ti chiedo di parlarci: Il tramonto di Faust, di Francesco Gagliardi.
Questo libro è una novità assoluta, è un’idea molto ardita di guardare al Tramonto dell’Occidente di Spengler come ad una trasposizione filosofica del tramonto di Faust, cioè guardare a Faust come l’esemplificazione massima del cammino dell’Occidente, il suo sorgere, lo splendere nel delirio della tecnica e nel delirio della costruzione di questa città immensa … e poi la disgregazione totale, la dissoluzione, la fine. Che non ha nessuna connotazione tragica o morale, ma è semplicemente inquadrata nella parabola naturale delle civiltà. Qui si spiega in maniera molto suggestiva, come nel tramonto di Faust, il tramonto dell’Occidente, tutto questo sia naturale. Non c’è nulla di male o di bene. Se noi guardiamo alla storia vista non come nascita, splendore e fine ma come qualcos’altro di più organico, se applichiamo il risultato di questa rivoluzione copernicana alla storia, possiamo vederla come un nuovo nascere, un nuovo splendere, un nuovo morire, tutto questo con la naturalezza di un fiore, che nasce, sboccia e che appassisce. Con la gratuità di questo fiore. Le civiltà fioriscono, fioriscono e appassiscono, e la civiltà occidentale appassisce con Faust.