Partiamo, come faccio sempre, da dati oggettivi: il nostro paese investe in ricerca e sviluppo l’1,27% del PIL (triennio 2011-2014), contro il 2,23% medio dei paesi OCSE, il 2,06% dell’Eurozona e l’1,92% di tutta l’Unione Europea. Inoltre questo dato è a sua volta mediato tra enormi differenze regionali che vedono scendere le risorse investite, partendo dal Piemonte, che viaggia in linea con l’Eurozona (2.03%), fino alla Calabria (0,55%) e alla Valle d’Aosta (0,40%)[1]. Investiamo pochi soldi rispetto ai paesi con cui dovremmo competere e lo facciamo seguendo una “filosofia” ben precisa: puntare sulla ricerca applicata più che su quella pura. Dai dati ISTAT e ANVUR si vede come circa la metà della risorse venga utilizzato in campo applicativo, mentre la restante metà si divida tra ricerca pura e sviluppo sperimentale. Percentuali che variano se parliamo di Università (dove circa il 60% è ricerca pura), istituzioni di ricerca e private no-profit (66% applicativa) o imprese (solo il 10% in ricerca di base). Altro dato che, forse più di altri merita attenzione, riguarda le classifiche di “produttività” scientifica, dove il nostro paese segue da vicino il Regno Unito, gli USA e il Canada. Praticamente riusciamo ad eccellere, pur non avendo le risorse per farlo. Siamo fenomenali nel fare le nozze con i fichi secchi!
Ultimo dato economico: i fondi di cui parliamo provengono principalmente dal MIUR (fondo ordinario FOE, fondi investimento per la ricerca di base FIRB, progetti di interesse nazionale PRIN), dalle regioni e dall’Unione Europea (Horizon 2020 è la principale voce di bilancio comunitaria per il mandato 2014-2019). I fondi statali sono stati praticamente dimezzati dal 2004 a oggi con il fondo ordinario che praticamente è rimasta l’unica voce consistente, quelli regionali sono la ragione della così ampia divergenza tra le regioni, mentre su quelli europei va riportato un dato che parla da solo: i soldi che l’Italia riceve dall’Unione sono inferiori a quelli teorici che dovrebbe ricevere. E non per i solito ritornello dell’Europa brutta e cattiva, ma solo perché non siamo in grado di presentare proposte che soddisfino pienamente i requisiti richiesti. Quindi scegliamo di investire poco, investire male e con idee che non portano altre risorse dall’esterno. E se parliamo di risorse umane? Come siamo messi sull’aspetto formativo e intellettuale?
Il sistema universitario italiano, dalla grande riforma “del 3+2”, è diventato un sistema teso sempre più alla creazione di tecnici specializzati in possesso sì di una laurea, ma appiattito sul sistema produttivo che richiede lavoratori giovani. Si sono moltiplicate così le lauree triennali (tanto che si parla anche di un futuro obbligo di laurea per mestieri storicamente da diplomati come ragionieri e geometri) e si è iniziata un’opera di smontamento del percorso accademico puro, cioè quello che sfocia nel dottorato e nella possibilità di una carriera nell’accademia. Facciamo però un piccolo passo indietro. In Italia il concetto del dottorato è sempre stato molto nebuloso, sospeso tra lavoro e continuazione degli studi, con un termine che non aggiunge, nel curriculum, niente che possa essere speso fuori dagli ambienti accademici. Pensateci: in Italia chiamiamo “Dottore” chiunque abbia una laurea, anche triennale, mentre nella realtà mondiale è “Dottore” è solo chi ha un dottorato!
Ok, chiudiamo questa parentesi. Torniamo al nostro discorso iniziale: siamo laureati, dottorati, abbiamo voglia di fare ricerca, com’è possibile finire come nei film di Sydney Sibilia? Dopo il dottorato non c’è un meccanismo univoco di selezione che porti i migliori ad emergere, ma una palude in cui tanti fattori (luogo di lavoro, continuità della ricerca, argomento di studio) contribuiscono alla qualità e alla quantità delle pubblicazioni e dei brevetti che si riesce a produrre. Questa mole di lavoro viene valutata, attraverso sistemi più o meno discutibili, e ci porta alla possibilità di poter concorrere per l’abilitazione scientifica[2]. Dalla palude (post-dottorato, luogo di perdizione in cui anch’io mi trovo!) si punta a passare nella “più tranquilla” fascia dei ricercatori a tempo determinato da dove, si spera, si può essere assunti alla prima posizione indeterminata nel sistema universitario italiano: quella di professore associato.
Mi soffermo un attimo sul fatto che non esista più la figura di ricercatore a tempo indeterminato (riforma Gelmini, 2011). Anche questa modifica segue la filosofia dell’inutilità di investire risorse in una fascia di personale ritenuta non produttiva né dal punto di vista didattico (grandissime risate), né da quello della ricerca applicata (per quello meglio schiavizzare dottorandi e post-doc) e che costa circa il doppio rispetto ad un assegnista di ricerca. Per ovviare leggermente le storture di questa mostruosità si è cercato di incardinare la figura del ricercatore in una tenure track, cioè un percorso che porti, attraverso valutazioni positive, all’associatura automatica dopo un triennio. Peccato che questo percorso valga solo una tipologia di ricercatori (RTDb) e non per altri (RTDa), i quali hanno a disposizione tre anni prorogabili una volta e la speranza in concorsi aperti per diventare RTDb o professori. Altrimenti, alla fine del percorso c’è il nulla. Davvero.
Probabilmente vi ho fatto venire il mal di testa con tutte queste sigle, ma non ho ancora finito! Infatti, tornando nella palude del post-dottorato, non posso non parlare del sistema degli assegni, delle borse e dei contratti farlocchi che caratterizza questa fascia di personale. Con il dottorato in tasca si può accedere a borse di studio, assegni di ricerca e contratti di collaborazione, tutte forme di lavoro che sono state riconosciute come contratti a tempo determinato dalla Corte di Giustizia Europea[3]. In base a questa sentenza dopo tre anni di lavoro presso lo stesso datore, si acquisisce il diritto alla stabilizzazione, cosa che va esattamente in direzione opposta ad ogni riforma pensata e attuata in Italia negli ultimi 20 anni!
Non a caso, in questi giorni, i precari del CNR, il principale ente pubblico di ricerca italiano, stanno occupando molte sedi in vista della legge finanziaria 2018 e come diretta conseguenza del decreto Madia che prevede circa 50.000 stabilizzazioni nel settore della pubblica amministrazione. Ad oggi sembra che il Governo stia scegliendo una strada molto “tentennante”, stanziando circa 10 milioni per il 2018 e 50 per il 2019 e 2020 (da cofinanziare obbligatoriamente), per una stabilizzazione potenziale di massimo 1600 precari dell’ente (su circa 9000 totali). Possiamo pensare di avere un programma di investimenti pubblici nella ricerca fondato sulla campagna elettorale? O sulla necessità di stabilizzare una parte di precari sulla pelle di altri? Questo è il mondo della ricerca italiano: una guerra “tra poveri” che vengono considerati o dei privilegiati o un peso per il sistema paese tutto focalizzato sul “produci, consuma, crepa”.
Concludo questo pezzo con due riflessioni: è certamente chiaro che la soluzione sta nel pensare un piano globale di investimenti e di reclutamenti che vada al di là dei governi e delle elezioni, puntando a quel 3% di spesa in rapporto al PIL a cui mira l’UE per il 2020; inoltre dovremmo impegnarci molto di più per far capire come ogni ricercatore che esce dal mondo della ricerca o scappa all’estero è una persona, altamente formata a spese nostre, che non fa ricadere sul tessuto nazionale il suo “know-how”. Vogliamo fare i conti della serva? Bene, allora facciamoli in tutto e per tutto!
Per chiudere il cerchio, ricollegandomi ai film di Sibillia, vi riporto quello che il presidente del CNR Massimo Inguscio ha detto in streaming ai precari che stanno occupando le sedi in tutta Italia: “Il CNR ha sempre operato, finora, nel pieno rispetto delle leggi e della legalità”. Per fortuna direi. Anche se forse, visto l’andazzo, qualche traffico illecito, a scopo di finanziamento potrebbe essere una buona idea per il futuro!