Lunedì, 19 Febbraio 2018 00:00

Di cambiamenti climatici, conflitti e generalizzazioni

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Di cambiamenti climatici, conflitti e generalizzazioni

Numerose ricerche correlano cambiamento climatico e conflitti, ma la prima review mette in discussione la generalizzazione dei loro risultati, sollecitando alcune riflessioni anche sul nostro modo di leggere i fenomeni geograficamente e culturalmente “lontani da noi”.

Negli ultimi anni, l’interesse per il legame tra instabilità politica di determinate aree geografiche e cambiamento climatico, visto come causa più o meno diretta di conflitti violenti o anche semplicemente di fenomeni migratori, è andato crescendo: forse per l’atavica fascinazione della cultura occidentale per le “teorie del tutto” e le eleganti spiegazioni monocausali che sembrano semplificare realtà complesse, tanto più pratiche se l’individuazione della causa prima è apparentemente al di sopra delle parti e si sostituisce ad una presa di posizione politica; o anche solo per un comprensibile impeto nel diffondere la consapevolezza dell’emergenza del riscaldamento globale tra chi ancora stenta a convincersene.

Evidente nel giornalismo e nel dibattito politico, al punto che si sta facendo strada il concetto di “rifugiati climatici”, questo interesse trova la sua fonte scientifica nella cosiddetta climate-conflict research, il campo di ricerca che indaga l’eventuale rapporto di causazione tra effetti del cambiamento climatico (aumento delle temperature, siccità…) e conflitti violenti, visti come manifestazione di instabilità politica nelle zone colpite dal cambiamento climatico. Dagli anni ’90, quando sono comparsi i primi studi in tal senso, ad oggi, non era tuttavia mai stata fatta una revisione complessiva e sistematica (una review in gergo) di queste ricerche, verificandone la solidità nel metodo1; la prima review è stata pubblicata su Nature lo scorso 12 febbraio2, a firma di Courtland Adams, Tobias Ide, Jon Barnett e Adrien Detges. Gli autori, rispettivamente tre geografi dell’Università di Melbourne e uno scienziato politico della Freie Universität di Berlino, hanno verificato alcune critiche mosse storicamente alla climate–conflict research: che gli studi fossero basati su una scelta dei campioni sbilanciata nei confronti della variabile dipendente, cioè influenzati dall’essere riferiti ad aree teatro di conflitti, e che la scelta delle aree studiate fosse influenzata dall’accessibilità di dati (il cosiddetto streetlight effect, effetto lampione, l’inclinazione a cercare qualcosa dove è più facile guardare)3.

Per avere un’idea della mole di lavoro dietro ad una review basta ripercorrerne i primi passaggi. Definite le caratteristiche degli articoli da analizzare e la strategia per individuarli, gli autori hanno cercato sul database Scopus tutti gli articoli che contenessero riferimenti a cambiamento climatico e conflitti nel titolo, nell’abstract o nelle parole chiave (se il riferimento fosse stato solo nel corpo del testo, probabilmente l’articolo si sarebbe rivelato focalizzato su altro); i risultati di questa prima ricerca, quasi 6000, sono stati vagliati da C. Adams leggendone gli abstract ed escludendo gli articoli che si rivelassero non attinenti al rapporto tra cambiamento climatico e conflitti, oppure che non specificassero l’area geografica a cui erano riferiti. I quasi 200 articoli rimasti dalla scrematura sono stati letti ed esaminati attentamente dal gruppo; fino ad arrivare ad un campione di 124 articoli “che collegassero (gli effetti de) il cambiamento climatico ad atti deliberati di violenza fisica perpetrati da stati o gruppi organizzati non statali”, pubblicati tra il 1990 (anno di pubblicazione del primo report dell’IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change) e il 2017, poi codificati geograficamente per continenti, regioni e paesi4.

Le analisi statistiche effettuate da C. Adams e colleghi hanno mostrato che il continente che riceve più attenzione dagli studi climate-conflict è l’Africa, malgrado le zone politicamente fragili e più vulnerabili dagli effetti del cambiamento climatico, oltre che più popolose di quelle africane, siano in Asia; mentre altre aree con le stesse caratteristiche, come Sud America e Oceania, sono a malapena considerate5.

Le ricerche climate-conflict sembrano essersi concentrate su aree scelte per la presenza della variabile dipendente (conflitti violenti) anziché di quella indipendente (vulnerabilità al cambiamento climatico). È infatti emersa una evidente correlazione tra la frequenza di menzione di determinati paesi negli studi e la frequenza della loro menzione nella letteratura relativa alle morti causate da conflitti, mentre paradossalmente i paesi più vulnerabili al cambiamento climatico secondo gli indici ND-GAIN (esposizione al cambiamento climatico) e CRI (Global Climate Risk Index) non sono stati considerati dagli studi, e sono invece più spesso considerati paesi caratterizzati da minore vulnerabilità; né la scelta delle zone d’interesse è risultata correlata a presumibili indicatori della sensibilità dell’economia al cambiamento climatico, come il PIL o il contributo del settore agricolo all’occupazione6. Gli autori della review sottolineano come questa tendenza precluda la comprensione di situazioni nelle quali a cambiamenti climatici non è corrisposta instabilità politica, limitando la ricerca di soluzioni pacifiche, e allo stesso tempo dia “l’impressione che i legami tra clima e conflitti siano più forti o più prevalenti di quanto sono in realtà”7. Contemporaneamente, la stigmatizzazione di certe zone sovrarappresentate (alcuni paesi africani, quando non una generalizzata “Africa”) come naturalmente più violente, o incapaci di una efficace risposta adattativa al cambiamento climatico, rischia di perpetuare stereotipi coloniali – anche visto che oltre l’80% dei primi autori degli studi esaminati erano affiliati a istituzioni di stati membri dell’OCSE8.

Le accuse di tendenziale streetlight effect sembrano a loro volta corroborate dall’emergere di un’evidente concentrazione degli studi climate-conflict su aree per le quali c’è maggiore disponibilità di dati; a livello di singoli paesi, prevalgono significativamente le ex colonie britanniche, nella maggior parte delle quali l’inglese è attualmente una lingua ufficiale. C. Adams e colleghi notano come questo suggerisca “che la selezione dei casi (e quindi la produzione di conoscenze) sia guidata dall’accessibilità piuttosto che dall’interesse per la spiegazione o dalla rilevanza pratica”9.

Se questa caratterizzazione tendenziale della ricerca climate-conflict nel suo complesso può essere casuale (gli stessi autori chiariscono di non intendere criticare i singoli studi), la generalizzazione delle sue conclusioni è illegittima. L’immaginario che ne estrapoliamo scivola troppo facilmente in una sorta di “africanismo”: come per l’orientalismo descritto da Said, idealizziamo una generalizzata Africa arretrata rispetto a noi, mancante di qualcosa che è nostro dovere fornirle, che è nostro diritto imporle. Ancor più in generale, siamo persuasi che i paesi più affetti dal cambiamento climatico non possano che essere preda della violenza; che la politica locale, indubbiamente meno raffinata della nostra, non sappia dotarsi di strumenti per rispondere al cambiamento (e necessiti magari del nostro intervento); che basti una singola causa, piuttosto che una situazione complessa e difficilmente riducibile, a gettare un paese nell’instabilità politica ed a spingere i suoi abitanti ad emigrare. Siamo anche veloci nel giudicare reazioni violente come intrinsecamente negative, senz’altro motivate da un’innata bestialità piuttosto che da complesse situazioni politiche; anche se, a seconda dei regimi, la stabilità non sempre è poi così auspicabile. Ansiosi di imputare al cambiamento climatico anche guerre e migrazioni, non ci rendiamo forse conto del filtro imperialista (quando non razzista) sulla nostra lettura delle situazioni di paesi geograficamente e culturalmente lontani da noi.

In letteratura il consenso è che il cambiamento climatico sia un “moltiplicatore della minaccia” costituita da tensioni esistenti10; è del resto un principio di metodo di molte discipline rifuggire il ricorso a spiegazioni monocausali, benché queste possano poi risultare più accattivanti per l’opinione pubblica. La questione non è quindi mettere in dubbio il probabile contributo di effetti del cambiamento climatico a crisi politiche, bensì mettere in discussione la sua rappresentazione e di conseguenza il modo in cui è indagato – due fenomeni che si alimentano a vicenda.

 


1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 https://www.nature.com/articles/s41558-018-0068-2

 

Immagine ripresa liberamente da Occhi del Cuore

Ultima modifica il Domenica, 18 Febbraio 2018 12:39
Silvia D'Amato Avanzi

Studia scienze naturali all'Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.

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