accade, come se niente lo catturasse, lo coinvolgesse, lo animasse. Niente sembra suscitargli un moto dell’animo. Osserva, analizza ma non partecipa, non vibra, non sente. Più che vivere, si lascia vivere, in una quotidianità ovattata, un po’monotona, meccanica, ripetitiva. È spettatore della sua stessa esistenza ma non suo attivo protagonista. Persino la morte della madre non suscita, almeno apparentemente, alcuno stato d’animo: di dolore, di sofferenza, di angoscia. Il giorno successivo alla processione Meursault fa il bagno in mare, scherza con la sua ex dattilografa, Maria Cardona, vanno al cinema a vedere un film comico con Fernandel e hanno un rapporto d’amore una volta tornati a casa di Meursault.
Il giorno dopo, quando lei se ne va, l’uomo resta tutto il pomeriggio a guardar fuori dalla finestra la gente che passa sotto di lui, nel quartiere e la sera pensa fa le sue considerazioni: “ho pensato che fosse una domenica come le altre, che mamma era sepolta, che avrei ripreso il mio lavoro domani e che, tutto sommato, nulla era cambiato”. Lo scorrere della sua vita procede in maniera ordinaria, sotto il sole accecante, il cielo azzurro, il caldo che fa sudare la fronte. Ma nel frattempo osserva tutto. Osserva l’albeggiare del nuovo giorno dopo una notte passata nell’ospizio durante la veglia della madre (che comunque non vuole vedere), guarda gli amici della madre che si alternano, tutti uguali, durante il veglione e a cui stinge la mano con indolente noncuranza ma ha l’impressione fastidiosa che questi vecchi siano lì per giudicarlo; guarda la vecchia che piange ininterrottamente; osserva il vecchio vicino Salamano e il suo coker spaniel, va a cena da un altro vicino, Raimondo, uomo rozzo e picchiatore di donne, o per lo meno, della donna che è la sua amante. Ma tutto questo non tocca le corde di Meursault, indifferente a ciò che scalpita o palpita dentro le persone intorno a lui, così come è indifferente a ciò che si smuove nella sua anima. Quando Maria gli chiede di sposarlo lui acconsente con una placida indifferenza: “per me va bene, è la stessa cosa”, ma alla domanda, da parte della ragazza, se lui la ami, Meursault risponde di no, quel che sa è di non amarla, per quanto la desideri fortemente.
Gifuni riesce a render perfettamente la meccanicità esistenziale ed emotiva di quest’uomo senza passioni, la sua capacità analitica, quasi scientifica che lo spinge a descrivere tutto (colori, suoni, odori, oggetti, sapori, consistenza e sfumature della luce…), ma anche l’altrettanta estraneità a se stesso e alla propria esistenza. Quasi fosse clandestino della propria vita. Ci si muove senza avvertire un sentimento di appartenenza ad essa. È quasi un ospite della propria esistenza, che osserva ma come da lontano, come se non gli appartenesse, come se non fosse sua, come se non potesse incidere sulla sua sorte, sulle proprie azioni. Allo stesso modo la voce di Gifuni è “essenziale”, ruvida, un po’cantilenante, un po’meccanica, così come ruvida, monotona, meccanica ripetitiva è la vita materiale ed emotiva di Meursault. Quando però l’ottimo attore va a leggere le parti in cui parlano in prima persona altri personaggi, la voce, il tono, l’atteggiamento fisico si trasformano e lui diventa localmente e fisicamente, tutti quegli altri personaggi: riproduce la virulenza grezza della voce di Raimondo, il tono burbero e triste del vicino che a un certo punto perde il cane, la rigida e accusatoria voce dell’avvocato, la voce melliflua del prete.
Sono nove capitoli quelli scelti dalla regista e interpretati dall’attore, che ha il viso “bombardato” da luci bianche, come fosse sotto i riflettori, come stesse appunto rilasciando quell’intervista impossibile che dà il titolo allo spettacolo. Gifuni-Mersault si racconta a noi, ci viene incontro e si mette a nudo, come se venisse a farsi giudicare dalla corte degli spettatori. Triplice incontro dunque: tra scrittura, teatro (ovvero tra scrittore e attore) e tra attore/personaggio e pubblico. Quelli recitati in scena da Gifuni, sotto la luce accecante dei riflettori, sono capitoli fondamentali che ripercorrono fedelmente le righe (che è sempre emozionante riascoltare) scritte da Camus, intramezzati da brani ispirati a “Lo straniero” dei Cure (“killing an Arab”), dei Tuxedemoon (“The stranger”) e altri.
La veglia alla madre, la processione, la scena del bagno in mare con Maria, l’incontro con i vicini, l’accusa dell’amante di Raimondo e l’arrivo di un agente, per poi arrivare all’episodio clou che cambierà per sempre la vita e il destino di Meursault. Lui, Raimondo e Maria sono stati invitati al capanno di un amico di Raimondo, Masson, situato all’estremità della spiaggia. Mentre Maria e la signora Masson finiscono di lavare i piatti, Meursault, Masson e Raimondo si recano sulla spiaggia. A un certo punto, da lontano scorgono degli arabi, uno dei quali è il fratello dell’amante di Raimondo che aveva accusato quest’ultimo di essere un magnaccia e di averla picchiata. C’è un primo litigio tra Raimondo e “il suo” arabo, a cui Meursault non prende parte. Il ragazzo arabo tira fuori un coltello e ferisce di striscio Raimondo che estrae il revolver ma viene fatto desistere da Meursault. I due uomini tornano al capanno ma Mersault sente un irrefrenabile impulso di tornare a camminare sulla spiaggia. Il sole è una palla di piombo fuso che pesa sulla testa e gli occhi di Meursault. La luce è accecante, il caldo penetra nelle ossa, “la spiaggia è vibrante di sole”. La calura è intollerabile. Meursault entra in uno stato di quasi semicoscienza, con quella luce così abbacinante. Uno degli arabi estrae un coltello; Meursault, stringe la mano sul revolver di Raimondo. Il colpo parte uccidendo l’arabo: “è lì, in quel rumore ad un tempo secco e assordante, che tutto è cominciato. Scuotendomi dal sudore del sole, ho capito che avevo infranto l’armonia de giorno, il silenzio inaudito di una spiaggia dove ero stato felice. Allora, ho sparato ancora quattro volte su un corpo inerte, dove i proiettili s’affondavano come se non fossero veri. Ed era con questi quattro brevi colpi che bussavo alla porta dell’infelicità”. Meursault viene infatti arrestato e subisce diversi interrogatori. Sembra più giudicato per il suo comportamento glaciale e freddo durante e dopo la morte della madre che non per l’omicidio compiuto. Giudice e avvocato dell’accusa si fanno infatti l’idea di avere davanti un mostro di cattiveria, imperturbabile di fronte alla morte della propria madre e dotato di una intelligenza fredda e impenetrabile, di un’anima di ghiaccio ma pienamente lucida, che lo hanno portato a compiere un efferato delitto. Meurasult è dipinto come un essere sgradevole, insensibile, crudele, senza un minimo di pietà o di rimorso, di senso di colpa. Imperturbabile e spietato. Per questo merita la morte. Nella scena della prigione, prima della condanna a morte, Gifuni rende in maniera intensa e drammaticamente potente il crescendo degli stati d’animo del suo personaggio, che finalmente viene svegliato dal proprio torpore e tira fuori una rabbia, forse repressa, forse mai sentita prima, contro il prete che è venuto a prendere la sua confessione.
Ma la rabbia non è diretta solo contro di lui, ma contro la propria vita, contro la ridicolezza di un’umanità che vive di apparenze, e anche contro una sorte che lo strappa da quella stessa vita, che tutto sommato, troppo tardi si accorge di amare:
“Allora, non so per quale ragione, c’è qualcosa che si è spezzato in me. Mi sono messo a urlare con tutta la mia forza e l’ho insultato e gli ho detto di non pregare e che è meglio ardere che scomparire. L’avevo preso per la sottana. Riversavo su di lui tutto il fondo del mio cuore con dei sussulti misti di collera e di gioia. Aveva l’aria così sicura, vero? Eppure nessuna delle sue certezze valeva un capello di donna. Non era nemmeno sicuro di essere in vita dato che viveva come un morto. 70 Io, pareva che avessi le mani vuote. Ma ero sicuro di me, sicuro di tutta, più sicuro di lui, sicuro della mia vita e di questa morte che stava per venire. Sì, non avevo che questo. Ma perlomeno avevo in mano questa verità così come essa aveva in mano me. Avevo avuto ragione, avevo ancora ragione, avevo sempre ragione. Avevo vissuto in questo modo e avrei potuto vivere in quest’altro. Avevo fatto questo e non avevo fatto quello. Non avevo fatto una tal cosa mentre ne avevo fatto una tal altra. E poi? Era come se avessi atteso sempre quel minuto... e quell’alba in cui sarei stato giustiziato. Nulla, nulla aveva importanza e sapevo bene il perché. Anche lui sapeva perché. Dal fondo del mio avvenire, durante tutta questa vita assurda che avevo vissuta, un soffio oscuro risaliva verso di me attraverso annate che non erano ancora venute e quel soffio uguagliava, al suo passaggio, ogni cosa che mi fosse stata proposta allora nelle annate non meno irreali che stavo vivendo. Cosa mi importavano la morte degli altri, l’amore di una madre, cosa mi importavano il suo Dio, le vite che ognuno si sceglie, i destini che un uomo si elegge, quando un solo destino doveva eleggere me e con me miliardi di privilegiati che, come lui, si dicevano miei fratelli?”.
Gifuni letteralmente si trasforma sputando tutta questa rabbia, questa collera, passando dall’apatica e metodica tonalità di voce e dalla postura salda e rilassata del “vecchio” Meursault per diventare un Mersault finalmente vivo, finalmente presente a se stesso, finalmente vivo. E lo spettatore è trascinato in questo turbinio di parole urlate, in questo vortice di disperazione che coglie un uomo quando sa che dovrà rinunciare a un’esistenza che forse, in fondo, non ha pienamente vissuto, ma che scopre essere preziosa: preziosa e unica, negli abbracci di Maria, nei ricordi del padre, nella voce della vecchia madre, nel baluginare di una nuova alba, nello splendore delle stelle nel buio della notte, nel cielo immenso azzurro, nelle onde del mare, persino nella voce ruvida e nelle rughe di Salamano. Quella vita era la sua e adesso è costretto a lasciarla. Ma non la lascia come uno straniero, così come l’ha vissuta, la lascia forse da uomo che finalmente prende coscienza di sé e di quello che sta perdendo, rendendosi conto di ciò che quella vita poteva significare. E finalmente ricorda, pensa, con quella struggente malinconia che fino ad allora non l’aveva mai colto:
“Per la prima volta da molto tempo, ho pensato alla mamma. Mi è parso di comprendere perché, alla fine di una vita, si era preso un “fidanzato”, perché aveva giocato a ricominciare. Laggiù, anche laggiù, intorno a quell’ospizio dove vite si stavano spegnendo, la sera era come una tregua melanconica. Così vicina alla morte, la mamma doveva sentirsi liberata e pronta a rivivere tutto. Nessuno, nessuno aveva il diritto di piangere su di lei. E anch’io mi sentivo pronto a rivivere tutto. Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio”.
Lo straniero resterà per sempre un romanzo fondamentale e Gifuni gli è restato fedele, in tutta la sua bellezza, rendendo la drammaticità ma anche l’esistenzialismo del romanzo e realizzando un corpo a corpo con un personaggio straniero a se stesso, rendendo pienamente il senso di desolato distacco di chi si lascia vivere da un’esistenza straniera a se stessa. Di un destino assurdo motivato da un’azione assurda, ancor più terribile perché compiuta senza alcuna voglia e ancor più sconcertante perché, una volta compiuta non lascia tracce di rimpianto o senso di colpa in colui che l’ha commessa. Come se tutto avesse lo stesso peso, come se niente avesse in fondo un senso, un significato, un valore. Ogni cosa è misurabile per quello che è, non passibile di valore di giudizio o di emotività, che non desta alcun barlume di sentimento, di entusiasmo, di passionalità. Un bagno in mare può suscitare più sensazioni che guardare un uomo cadere e morire, in Meursault. Dolore, amore, pentimento, cosa sono mai? Cos’è mai una vita? Ma di fronte alla morte forse tutto riacquista la sua luce, in maniera lancinante e dolcemente crudele, e il cuore allora fa un sussulto e ricomincia a battere, furiosamente, per poi però, dover mettersi di nuovo a tacere per sempre.