Mercoledì, 29 Novembre 2017 00:00

Il ritorno della mummia (nello sgabuzzino del museo)

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Il ritorno della mummia (nello sgabuzzino del museo)

Tutti noi, almeno una volta, abbiamo visitato un museo. Tutti noi abbiamo familiarità con l'immagine mentale di serie di stanze e corridoi pieni di teche di vetro dentro le quali sono custoditi reperti di vario genere, provenienti dall'antichità o dal medioevo: spesso pietra e ceramica, talvolta metallo, in casi eccezionalmente fortunati legno e tessuto. E siccome molti musei in Europa hanno anche una, per quanto piccola, sezione egizia, è probabile che molti di noi, nel visitare un museo, si siano a un certo punto ritrovati nella stessa stanza con una mummia.

Le mummie egizie sono forse il caso più comune, perlomeno in Europa, in cui il visitatore occasionale di un museo possa trovarsi di fronte a un espositore contenente resti umani. Non sono però l'unico: a partire dalle ricostruzioni di diorami di tombe contenenti lo scheletro originale, piuttosto comuni in un gran numero di musei, proseguendo per altri casi eccezionali come quelli dei bog bodies inglesi, irlandesi e scandinavi, passando per i corpi mummificati medioevali delle Catacombe dei Cappuccini palermitani, fino ad arrivare agli esemplari anatomici che si trovano in vari musei della medicina e ai corpi "plastinati" della recente mostra Body Worlds – che molto ha dato da parlare – il visitatore di un museo può trovarsi di fronte a un reperto che un tempo era una persona più spesso di quanto si potrebbe pensare.

Nel contesto museale, i resti umani possiedono un'indubbia attrattiva. Forse per pura curiosità, forse per attrazione morbosa, non c'è però dubbio – fanno fede le statistiche accumulate da vari musei in diverse parti del mondo – che se i contenuti di un museo rappresentassero i membri di un'ipotetica compagnia teatrale, la mummia di turno sarebbe indubbiamente la prima donna. Il dato non è sfuggito ai curatori di diversi musei, che hanno spesso incentrato campagne pubblicitarie volte ad attrarre quantità più grandi di pubblico proprio sulle mummie, o sugli scheletri, custoditi nelle loro collezioni. Solo pochi anni fa una mostra che si proponeva di illustrare le analisi scientifiche svolte su alcune mummie appartenenti alla sua collezione egizia e i loro risultati è stata una delle esibizioni temporanee del British Museum con più successo, in termini di numero di biglietti venduti, nella sua storia recente. A Napoli, nella Cappella Sansevero, il celeberrimo Cristo Velato attrae un numero di visitatori non molto superiore alle "macchine anatomiche" di Giuseppe Salerno, la cui intricata rete di vasi sanguigni, a dispetto di quanto molti credono, è una riproduzione, ma che usano come base due scheletri autentici. A Dublino, la sezione del Museo Nazionale che ospita un'eccezionale collezione di bog bodies – corpi di epoca neolitica salvatisi grazie all'ambiente ipossico delle torbiere in cui sono stati gettati, e pervenutici in condizioni incredibilmente buone – viene visitata quotidianamente da un traffico analogo, se non superiore, a quello delle collezioni, altrettanto uniche, di bronzi e ori celtici. Nel Museo Egizio di Torino una delle richieste più comunemente ricevute da guide e custodi è come arrivare alla sezione con le mummie. Esistono itinerari turistici unicamente incentrati sui resti umani, i cimiteri e le catacombe, come esistono anche numerosi documentari che si occupano del tema. Non c'è dubbio che l'esposizione di resti umani in contesto museale sia un'attrattiva di tutto rispetto, e una in grado di aumentare considerevolmente gli introiti delle istituzioni che possiedono questo genere di reperti.

Mentre esporre un vaso o una spada antichi raramente comporta problemi maggiori a quelli relativi alla conservazione, l'eccessiva esposizione a luce solare o batteri, e così via, l'esposizione di resti umani si porta tuttavia dietro un pericoloso strascico morale. Attraverso gli anni, il trattamento dei corpi umani posseduti, in tutto o in parte, da musei è stato al centro di un dibattito in continua evoluzione che è ben lontano dal trovare una soluzione definitiva. Certamente molto tempo è passato dagli inizi del ventesimo secolo, in cui le mummie egizie potevano essere smembrate per facilitare il loro trasporto in Europa, e poi rimontate una volta arrivate al museo di destinazione – talvolta male: si è scoperto di recente, ad esempio, che una mummia trasportata con questo trattamento si era ritrovata con una testa non sua. Anche se i tentativi di guadagnarsi maggiore pubblico usando le proprie collezioni di corpi mummificati continuano, il genere di pubblicità che li circonda è cambiato anch'esso, diventando più rispettoso di quelli che sono a conti fatti pur sempre i resti di un essere umano, per quanto antichi. Alcuni reperti sono stati rimossi dai loro espositori per non incorrere nel rischio di risultare offensivi: già nel 1987, alcune teste mummificate Maori erano state rimosse dal Pitts Rivers Museum, un museo antropologico a Oxford, in seguito al riconoscimento del loro valore religioso per la cultura d'origine, alla luce del quale la loro esposizione pubblica sarebbe stata considerata irrispettosa. Lo stesso museo nel 1990 restituì dei resti scheletrici a un gruppo aborigeno australiano che riconosceva loro valore ancestrale, ed è stato di recente al centro di una controversia relativa al fatto che esponga tuttora pubblicamente alcune teste essiccate di origine amazzonica. Su una scala meno eclatante, il numero di mummie egizie sbendate attualmente esposte in musei europei è drasticamente calato negli ultimi vent'anni, e quelle attualmente visibili possiedono quasi tutte i bendaggi ancora intatti. Se questa misura è dettata in buona parte da preoccupazioni di genere archeologico – la mummia con il bendaggio intatto costituisce un reperto, e la rimozione del bendaggio, per quanto essa possa facilitare lo studio dei caratteri anatomici o il recupero di amuleti e oggetti simili infilati tra le bende, compromette l'integrità del reperto – esse sono mischiate ad altre preoccupazioni di carattere invece etico: una considerazione, ad esempio, per le credenze religiose della persona mummificata, che non avrebbe voluto una manipolazione così inappropriata del suo corpo. In generale, un sentimento di disagio all'idea di esporre pubblicamente resti umani è stata espressa da più parti e con frequenza sempre maggiore negli ultimi dieci anni. Raccomandazioni di non dimenticare che i resti umani esposti nei musei erano un tempo persone si sono accompagnate a reiterati inviti a varie istituzioni museali di rimuovere questi resti dalle loro collezioni pubbliche.

Almeno per il momento, i resti umani esposti nei musei europei non sono stati rimossi, almeno per grandissima parte. Alcune misure sono tuttavia state prese sull'onda di petizioni di questo genere. Sempre più collezioni egizie espongono ora le loro mummie all'interno del sarcofago originario, con il coperchio solo leggermente sollevato di modo che il corpo all'interno si possa intravvedere ma non sia completamente esposto alla vista. L'Unione Europea, come anche vari governi nazionali, si è interessata di produrre regolamenti che governino le circostanze dell'esposizione di resti umani a fini divulgativi. Questi provvedimenti tendono solitamente a stabilire una soglia – in genere intorno ai centocinquanta anni d'età del reperto – al di sotto della quale l'esposizione di resti umani non è consentita in assenza di un'autorizzazione esplicita da parte del defunto o dei suoi discendenti. La rimozione di resti umani da un'esposizione pubblica tende oggi a essere considerata, in genere, nel caso in cui vi sia una comprovata valenza religiosa attribuita ai resti in questione o in presenza di discendenti verificabili che ne rivendichino il possesso.

Per quanto questi provvedimenti appaiano sensati, le petizioni non sono cessate. Appare chiaro che esiste una spinta crescente per la rimozione completa dei resti umani dalle esposizioni museali pubbliche, informata dall'idea che un cadavere, prima che un reperto, sia una persona. Si tratta ancora una volta di una situazione in cui la scienza sembra essere in conflitto con l'etica. L'analisi di resti umani antichi permette agli studiosi di accedere a un gran numero di informazioni che rimarrebbero altrimenti ignote: ad esempio, lo studio dei bog bodies irlandesi ha permesso di accertare la veridicità di una tradizione secondo la quale le popolazioni celtiche dell'isola praticavano il sacrificio umano di individui di elevata estrazione sociale, per la quale non esistevano prove concrete. Allo stesso modo l'esposizione di questi resti può avere un elevato valore didattico, dal momento che essi sono eccellenti veicoli per informazioni non solo sulla percezione della morte in diverse culture e delle pratiche religiose che la circondano, ma anche sulla vita quotidiana delle persone comuni in quelle stesse culture. Se i grandi testi storici ci hanno tramandato i dettagli delle imprese di re e generali, è spesso soltanto attraverso l'esame delle loro ossa che comprendiamo come vivessero i molto più numerosi anonimi cittadini dello stesso periodo: di quali patologie soffrissero, che cosa mangiassero, quali sforzi fisici compissero regolarmente, quali generi di ferite o fratture riportassero sul lavoro o durante un conflitto. L'esposizione di uno scheletro con un diorama che ne faciliti la lettura anche al profano può spesso trasmettere queste informazioni meglio di molti pannelli di testo. A questo si contrappone, tuttavia, il disagio evidentemente percepito da chi ritiene inappropriato trattare un corpo umano, non importa quanto antico, come un oggetto.

Si potrebbe obiettare a chi sostiene posizioni simili che un corpo umano, per quanto sgradevole l'idea possa apparire, dopo la morte di fatto è un oggetto, almeno a termini di legge; e in quanto tale la sua esibizione pubblica nei termini della legge esistente non è illecita. Un'obiezione del genere, per quanto fondata, è però chiaramente insufficiente a soddisfare chi avanza simili scrupoli morali. Abbiamo quindi di fronte una guerra inevitabile tra chi pretende la rimozione dei resti umani dai musei e chi ne difende l'importanza ai fini della divulgazione, che potrà concludersi solamente con la sconfitta totale di una delle due parti? Forse no. Come spesso in simili casi, a fare la differenza potrebbe essere l'approccio che scegliamo di adottare nel rendere i resti umani visibili al pubblico.

Un primo fattore è legato al contesto. Quale era l'intenzione originale di chi ha trattato quel corpo al momento della sua morte? Non sempre i resti di cui vengono richiesti rimozione e riseppellimento erano stati seppelliti in primo luogo. Alcune mummie sudamericane, per esempio, erano state pensate appositamente per essere esposte in pubblico, una pratica attraverso la quale nella loro cultura si riteneva che i defunti fossero in qualche misura mantenuti ancora in vita. Solo con la conquista da parte degli spagnoli le mummie erano state rimosse dagli spazi pubblici; in questo caso, la loro esposizione museale potrebbe paradossalmente rappresentare un atto di maggiore rispetto che la loro nuova rimozione. Per rimanere più vicini a noi, i corpi custoditi nelle cripte dei Cappuccini a Palermo e altrove sono esposti per deliberato desiderio dei defunti stessi; anche in questo caso, nasconderli potrebbe essere considerato più irrispettoso che permetterne l'accesso ai visitatori. Se esiste una preoccupazione per il fatto che uno scheletro o una mummia era un tempo una persona, allora i desideri originali di questa persona non dovrebbero essere del tutto ignorati.

E questo ci porta infine al punto finale. Se l'umanità insita ancora in una certa misura nei resti umani è qualcosa di cui dovremmo preoccuparci, allora dovremmo pensare che la loro esibizione, se fatta con i criteri corretti, potrebbe essere non un atto di mancato rispetto, ma un modo per restituire a quei resti anonimi la loro identità. Un'esposizione che mostri i resti nel loro contesto originale, accompagnata dalle informazioni necessarie per interpretarli, può permettere al visitatore di provare una connessione con un individuo vissuto migliaia di anni prima di lui, di comprendere i dettagli della sua vita privata, di immaginarlo come una persona e non come un membro anonimo di una cultura uscita da un libro di storia. Esporre i resti in pubblico, se fatto nella maniera corretta, è un modo unico di restituire loro una voce che la storia ufficiale non può dargli. Rimuoverli dagli spazi pubblici dei musei, per conseguenza, sarebbe zittire quella voce.

Viviamo in un'epoca che nasconde sempre di più la morte e che per conseguenza sta sviluppando un rapporto con essa che più di un sociologo ha definito come nient'affatto salutare. La presenza dei resti umani nei musei è un modo per entrare in contatto con la morte in un ambiente controllato e per conoscere la vita di persone vissute nel nostro passato remoto. Perdere un'occasione simile sarebbe molto più irrispettoso di mille manifestini pubblicitari con su la foto di un sarcofago aperto.

Immagine liberamente tratta da www.unica2.unica.it

Ultima modifica il Lunedì, 29 Gennaio 2018 10:56
Chiara Strazzulla

Nata in Sicilia, ha studiato a Roma e Pisa e vive a Cardiff, in Galles, dove lavora a un dottorato in Storia Antica e insegna latino. Autrice di prosa e teatro, è pubblicata in Italia da Einaudi Editore.

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