Venerdì, 23 Febbraio 2018 00:00

Riflessioni su "Principe Libero"

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Riflessioni su "Principe Libero"

Premessa: da una miniserie TV trasmessa dalla RAI in prima serata su personaggi o vicende reali mi aspetto un prodotto che sappia coniugare in misure accettabili cultura, divulgazione e intrattenimento. Stop.

Non chiedo che sveli particolari sconosciuti o che offra nuove chiavi di lettura. Non pretendo che affronti in modo approfondito e articolato tutte le sfaccettature del tema che ha per soggetto. Mi siedo, accendo la TV, faccio partire la prima puntata e resto in attesa, senza ansie da perfezionista e senza aspettative millenaristiche. Con questo spirito ho guardato “Fabrizio De André Principe Libero”, la fiction diretta da Luca Facchini e andata in onda su RAI 1 il 13 e 14 febbraio 2018.

Il cast, innanzitutto. La qualità degli attori e della recitazione è uno dei primi elementi che balzano agli occhi. A partire da quella di Luca Marinelli nei panni di Faber: con la sua interpretazione, i suoi sguardi e le sue movenze riesce a restituire allo spettatore le fragilità, la ricchezza umana e le spigolosità del cantautore genovese lungo tutto il corso della sua vita. Un’esistenza costellata da separazioni e da passioni, segnata dalla tessitura incessante e difficoltosa di relazioni che non si lacerano mai (con il padre, gli amici, il figlio…), inondata dalla presenza di Dori (che ha collaborato attivamente alla produzione del film e qui interpretata da una giovane e bravissima Valentina Bellè). La vita privata infatti è quella che viene innanzitutto narrata dal film. Con grande rispetto e molta delicatezza, senza però edulcorare o mistificare la figura di De André, che è e resta De André, senza essere costretto in nessun cliché rassicurante.

Ma è forse in questo prevalere della vita privata del cantautore che si nasconde il punto di maggiore debolezza dell’opera. Il resto rimane sullo sfondo o viene accennato – con esiti più o meno felici – qua e là senza che si riesca a produrre un significativo intreccio tra la dimensione intima di Faber e la sua produzione artistica, il contesto sociale e culturale, le passioni che hanno segnato i diversi passaggi della sua carriera. Genova è una cornice, l’anarchia l’oggetto di qualche battuta, i sodalizi creati nel corso degli anni un pugno di immagini sfocate nelle quali Pagani e Fernanda Pivano, PFM e Tenco si perdono e si confondono. Restano parziali o elusi i momenti significativi della produzione artistica di De André e i legami con la sua stessa esistenza: perché un album sulla Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters? Come si legano il tour con la Premiata Forneria Marconi e Creuza de mä, l’album dell’immersione nel dialetto genovese e nelle sonorità del Mediterraneo? Perché L’Indiano? E perché proprio all’indomani del rapimento del 1979? Queste assenze forse hanno generato la delusione maggiore: proprio perché da un prodotto cinematografico di tale qualità e delicatezza ci si attendeva anche la volontà di accendere curiosità, stimolare indagini, divulgare percorsi di ricerca.

Una contraddizione dispiegata in modo evidente dalla narrazione del sequestro di cui Fabrizio e Dori furono vittime tra l’agosto e il dicembre 1979. Una vicenda terrificante che non solo riporta alla memoria gli anni terribili dell’Anonima sequestri ma racconta con grande schiettezza e genuinità l’atteggiamento della coppia, che pur in una situazione orribile riesce a difendere la propria dignità, a non compromettere la propria umanità e a non cedere all’imbarbarimento che pure il contesto sembra volere imporre. Ma dopo questo momento alto del film, il ritmo precipita. Gli eventi della esistenza di Faber si susseguono in ordine sparso, i passaggi dolorosi e le istantanee di quotidianità, tutto quello che succede negli ultimi diciannove anni di vita si frantuma e si perde per poi ricomporsi in un teatro dove De André si ritrova con amici, parenti, e collaboratori. E guarda se stesso, in una delle sue ultime apparizioni audiovisive, ovvero la tappa romana della tournée del 1998. È l’epoca delle anime salve, delle smisurate preghiere e degli spiriti solitari protagonisti dell’ultimo album, il testamento del cantautore. Ma il tempo si ferma, i fili non si annodano, i passi restano sospesi. Faber canta Bocca di Rosa, sempre stupenda, di una longevità e di una bellezza che paiono volere riempire una lacuna allargatasi minuto dopo minuto. E partono i titoli di coda.

 

Immagine ripresa liberamente da www.inliberta.it 

Ultima modifica il Martedì, 20 Febbraio 2018 09:54
Alyosha Matella

32 anni, residente a Omegna. Insegnante precario e collaboratore in qualità di traduttore e recensionista di Le Monde diplomatique/il manifesto. Capogruppo del Partito della Rifondazione Comunista nel Consiglio comunale di Omegna. Appassionato di storia del movimento operaio, jazz, blues e letteratura noir.

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