Ciò potrebbe sembrare un risultato piuttosto deludente se si considera che questo partito ha sostanzialmente vinto le elezioni politiche del 2013 col 24,4% dei suffragi e che ha una salda maggioranza parlamentare grazie all’alleanza con il centrodestra del Partito dell’Indipendenza. Non bisogna però dimenticare che a livello locale i progressisti non avevano mai ottenuto risultati di rilievo, in particolare a Reykjavik. L’esito delle urne va dunque letto come un decisivo rafforzamento del ruolo del partito nella politica islandese e come una seria minaccia al modello multiculturale e aperto islandese.
Nonostante il nome evochi immagini di sinistra, questo soggetto politico, tutt’altro che progressista, è infatti espressione dell’Islanda rurale e più isolata, trattasi di una forza di destra populista che negli ultimi anni ha visto crescere esponenzialmente il ruolo della sua componente nazionalista e xenofoba a danno dell’ala liberale che appare ormai in netta minoranza nei rapporti di forza interni al partito.
La vittoria elettorale risicata del centrosinistra a Reykjavik, che sta cercando di mettere in piedi una coalizione con i “Pirati” (PÍratar, 5,9%) gli europeisti di “Futuro Luminoso” (Björt framtíð, 15,6%) e con la sinistra ecologista (Vinstri Grænir, 8,3%) non basta ad oscurare il consenso senza precedenti ottenuto dal Partito Progressista che nei toni e nei contenuti della sua campagna elettorale ha voluto ricalcare quello di altre forze antieuropeiste e xenofobe europee come il Front National.
Il partito dell’agguerrita Sveinbjörg Birna Sveinbjörsdóttir ha indubbiamente avuto la capacità di sfruttare il vento nazionalista ed euroscettico che soffia in Europa e ha sicuramente moltiplicato i consensi schierandosi contro la decisione dell’uscente sindaco di Reykjavik di concedere dello spazio demaniale alla piccola comunità islamica islandese perché possa costruirvi una moschea. Dato a meno del 3% da tutti i sondaggi realizzati a pochi mesi dalle elezioni, il consenso dei progressisti si è radicalmente impennato nelle ultime settimane prima del voto sfruttando la retorica dell’”invasione musulmana”e dell’islamofobia in un a Paese in cui la componente islamica e musulmana è praticamente inesistente.
Il sindaco uscente centrista ed europeista Jón Gnarr, a scrutinio ultimato, non ha esitato ad ammettere la sua preoccupazione per «l’innaturale nazionalismo e per la xenofobia […] basati sul pregiudizio, l’incomprensione e la disinformazione» che hanno caratterizzato la campagna elettorale progressista. Alcuni analisti politici islandesi parlano di giorno nero della democrazia islandese anche a causa della scarsa partecipazione elettorale (sotto la soglia psicologica del 50%). In effetti, il successo anche nelle elezioni della cosmopolita e aperta Reykjavik, dove vivono circa due terzi degli islandesi, testimonia che la retorica anti immigrazione sta facendo lentamente breccia anche fra gli abitanti della capitale, tradizionalmente estremamente aperti alla diversità culturale.
Non tutti i mali vengono per nuocere comunque. Il successo dei progressisti va infatti bilanciato col pessimo risultato del centrodestra e col crollo dei centristi europeisti che persa la leadership carismatica del sindaco uscente, non hanno ribadito il risultato straordinario delle scorse elezioni. Si profila dunque, grazie al buon risultato dei Pirati e dei Verdi, una delle coalizioni di governo più di sinistra della storia recente di Reykjavik. A lei il compito di mettere un freno alle tendenze xenofobe e populiste che sembrano iniziare a penetrare anche nella cosmopolita ed estremamente tollerante capitale islandese.
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