Reduci del neofascismo più estremo e dell'Action Française, cattolici fondamentalisti, monarchici, lefebvriani, teorici del complotto della «sostituzione etnica», “identitari”, repubblicani anticlericali ed ex militanti di sinistra “sovranisti” convivono in un partito la cui leader fa appello al voto degli omosessuali e degli ebrei in nome della laicità dello Stato e dell'islamofobia, che nella dottrina ufficiale strizza un occhio al socialismo – grattando un po', riconoscibile nella sua versione ottocentesca antisemita – e al differenzialismo culturale (che pur nel suo evidente razzismo ha trovato un certo spazio nella sinistra post-sessantottina) e l'altro al nazionalismo radicale e agli identitari di estrema destra, che prende voti unendo figurativamente ed oggettivamente gli opposti del Paese, l'estremo Nord ed il profondo Sud, l'antimeridionalismo e l'orgoglio cattolico provenzale.
Tendenze politiche e culturali elettoralmente tossiche e largamente minoritarie, che però hanno – in varie fasi della storia del FN – goduto della reciproca diluizione in un insieme di indistinto populismo che sdogana nel mercato elettorale forze che altrimenti, prese singolarmente, sarebbero relegate alla mera testimonianza. Oltre a questo soggetto già proteiforme, inoltre, sta il livello del Rassemblement Bleu Marine, teoricamente un'alleanza elettorale tra FN, personalità indipendenti e altri partiti di destra radicale che, però, godono di un livello di supporto incommensurabilmente più basso; nella realtà poco più che un ulteriore veicolo creato ad arte per diluire ulteriormente le respingenti singole identità dei soggetti che lo costituiscono, FN in primis.
La tesi del libro è che il FN, anche e soprattutto quello “diabolico” di Jean-Marie, sia costitutivamente un mezzo per “de-demonizzare” soggetti tossici dell'estrema destra francese in cerca di uno sbocco politico, e che quindi Marine non abbia inventato nulla di nuovo. Il proposto cambio del nome stesso del FN non fa che andare in questa direzione. Possiamo facilmente intuire che, se il primo obiettivo era assorbire e sdoganare nel discorso pubblico e a livello elettorale la frammentata estrema destra francese, infatti, il nuovo obiettivo non può che essere l'assorbimento del centrodestra post-gaullista nell'orbita frontista, tanto a livello di fedeltà partitica che di consensi.
Una parabola molto simile sembra impegnare in Italia da qualche anno a questa parte la Lega di Salvini, l'ex Lega Nord per l'indipendenza della Padania (più la succursale meridionale Noi con Salvini, come il partito “nordista” de facto ma non de jure assorbita completamente e quindi politicamente estinta). Le similitudini non si fermano alla storia recente.
Se la nascita della Lega Nord rimane storicamente un argomento in un certo senso controverso, si può dire che il partito di Bossi abbia trovato una primo bacino di militanza e di consenso assemblando in un curioso rassemblement il frammentatissimo mondo di autonomisti e indipendentisti lombardi e veneti – in un primo momento tanto storicamente di destra quanto storicamente di sinistra –, i piccoli imprenditori del Nord naturalmente liberisti che identificavano Roma con il fisco e la regolamentazione e sognavano i mercati europei e quella fetta di underclass settentrionale operaia ed ex operaia divenuta razzista e antimeridionalista negli anni della grande emigrazione dal Sud al Nord industriale. Negli anni, inoltre, il Carroccio aveva potuto contare sulle simpatie di una parte di gerarchia del cattolicesimo “ruiniano” italiano, interessato a consolidare nella politica “laica” del Paese la svolta conservatrice dei papati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
La mossa di astuzia di Berlusconi, nella fase ascendente della sua parabola politica, è stata quella di accelerare da un lato il cammino dalla protesta al governo di questa strana “cosa verde” includendola nella “cosa azzurra” a trazione forzitaliota, dall'altro lato di stroncarne le pretese soggiogandola ad un modello elettorale – quello del centrodestra – e politico-mediatico – quello berlusconiano – che incatenava la Lega Nord ad un ruolo di perenne subalternità alle ambizioni dell'anziano patron di Mediaset. Se la LN è riuscita, in quella fase, a conquistare alcune delle regioni più importanti d'Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte), ha dovuto comunque pagare lo scotto di farsi poco più che braccio attuatore dei desiderata del centrodestra berlusconiano, la faccia “ribelle” con tanto di cappello cornuto di un programma di difesa strenua degli assetti clientelari esistenti, un “governare per governare” che l'ha tra l'altro esposta ad un florilegio di scandali legati alla cattiva amministrazione, al nepotismo e allo spreco di denaro pubblico e ad una decadenza apparentemente senza scampo.
Il modo in cui la Lega salviniana è riuscita a salvarsi da una fine che pareva certa richiama ancora una volta la parallela esperienza del FN francese. Salvini ha infatti salvato il partito del Carroccio in un certo senso uccidendolo, trasformandolo dall'interno fino a renderlo irriconoscibile – letteralmente, cancellandone i simboli “storici” come il sole delle Alpi, il colore verde e financo il sostantivo “Nord” a favore di una veste grafica “commerciale” e social friendly che si richiama a quella trumpiana – e promuovendo una nuova stagione di egemonia a destra, appoggiandosi alla struttura del vecchio partito, ben superiore a quella degli sparsi gruppetti di estrema destra e al potere della radicalizzazione di massa internettiana.
La Lega non più Nord ha quindi assorbito una vasta fascia di orfani missini tanto al centro quanto al Sud (i «quattro fascistoni» a cui Salvini avrebbe sacrificato la vecchia Lega Nord settentrionalista secondo l'anziano Bossi), ha raccolto il portato di decenni di brutalizzazione xenofoba del discorso pubblico a cui il centrodestra berlusconiano aveva affidato improvvidamente le proprie speranze e ha trasformato in senso populista e regressivo una fascia sempre più ampia di elettorato ex di sinistra, a cui ha rivenduto la favola di una sinistra assente sui diritti dei lavoratori – cosa che in parte si può dire dell'area ex Ulivista, ma non certo di Rifondazione o di altri partiti della sinistra radicale, che pure non sono cresciuti, anzi – ed il miraggio dell'Italy First, sostituto funzionale di una lotta di classe che si vuole scomparsa.
Non per questo il partito di Salvini ha abbandonato l'egoismo dell'imprenditoria settentrionale, che ora non sogna più i mercati europei e anzi ha trasposto da Roma a Bruxelles e Strasburgo le fonti tanto delle odiate regole che dell'altrettanto odiato prelievo fiscale “parassitario”, ma anzi, ha convertito a questo vangelo dell'egoismo sociale una buona parte della piccola e grande borghesia del centro Italia (vedi “flat tax”).
Riuscendo ad allearsi col principale concorrente nel campo populista, il M5S, la “Lega Blu Salvini” si accinge infine ad inglobarne l'ala destra, turbata da Berlusconi ma pronta a votare un partito disposto a sostenere un governo privo dell'ottuagenario e caratterizzato a destra. Non è un caso che, in questi giorni, al costante calo percentuale della compagine grillina corrisponda una inarrestabile scalata leghista, che ha già fatto guadagnare circa nove-dieci punti percentuali al rassemblement salviniano.
Principale partito della destra italiana per i prossimi anni o fenomeno destinato ad esplodere? Tutto starà nella capacità della Lega di non far scoppiare le contraddizioni tra un insieme eterogeneo che racchiude i «quattro fascistoni» meridionali con la vecchia base settentrionalista antimeridionale, la nuova base populista con i tecnocrati ed i pennivendoli ex “intellettuali di sinistra”, una minoranza di cattolici radicali con una maggioranza che della Chiesa si interessa poco e così via, mantenendo “vendibile” un messaggio populista abbastanza unificante e al tempo stesso dando l'impressione di poter assicurare un quarto d'ora di successo a tutti sull'onda delle vittorie elettorali.
Immagine ripresa liberamente da euractiv.com