Mercoledì, 08 Aprile 2015 00:00

Mumia Abu-Jamal, la voce dei senza voce

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In Italia sporadici guizzi portano in televisione un Adriano Celentano che, divenuto paladino della giustizia, si appella al Presidente della Repubblica perché venga revocata la pena carceraria per Fabrizio Corona, vittima del sistema dal momento che “è stato punito solo per aver fatto delle foto” (!!!). Oltreoceano migliaia di persone sono mobilitate per salvare la vita di Mumia Abu-Jamal, giornalista e storico militante delle Black Panthers in carcere da oltre trent’anni.
Mumia Abu-Jamal è sempre stato uno dei punti di riferimento principali del movimento per l’emancipazione e la difesa degli afro americani negli Stati Uniti. Vicino alle Balck Panthers sin da quando era uno studente liceale (periodo in cui scelse il suo nome swahili) ed in seguito al movimento di simpatie anarchiche MOVE, comprese ben presto il ruolo centrale della contro informazione: fu così che, lavorando per giornali e trasmissioni radiofoniche, divenne per tutti “la voce dei senza voce”, impegnandosi in uno scrupoloso ed inflessibile lavoro di denuncia di abusi da parte della polizia e della corruzione dei politici locali.

La notte del 9 dicembre 1981, mentre lavorava come tassista per arrotondare uno stipendio non certo abbondante, Mumia venne coinvolto in uno scontro a fuoco durante il quale rimase ucciso il poliziotto Daniel Faulkner. Mumia rimase ferito all’addome durante la sparatoria e, trasportato in ospedale per le cure, fu subito incriminato per l’omicidio, nonostante affermasse di essere innocente. Un processo con molti punti oscuri portò alla condanna a morte del giornalista, da parte di una giuria composta da sole due persone di colore in una città come Philadelphia in cui la popolazione afroamericana costituisce il 40% del totale, il 2 luglio 1982. La condanna, firmata dal governatore della Pennsylvania Tom Ridge, avrebbe dovuto essere attuata nell’estate del 1995 ma fu convertita in ergastolo all’emergere di nuove testimonianze, confessioni ed elementi che andavano ad avvallare la tesi di innocenza dell’attivista.

Tutta la vicenda di Mumia Abu-Jamal ha da subito visto l’impegno di ampie frange della società in difesa di uno dei simboli della lotta alla segregazione razziale: sindacati ed associazioni (compresa Amnesty International), avvocati ed attivisti, personaggi dello spettacolo come Colin Firth, che ha realizzato un documentario sulla sua vita nel braccio della morte, a gruppi come The Rage Against the Machine, che hanno cantato la vicenda dell'attivista.

In questi ultimi giorni i media di tutto il mondo sono tornati ad occuparti di Mumia Abu-Jamal. Dopo mesi di malattia e cure insufficienti, il giornalista è stato ricoverato, lo scorso 30 marzo, in seguito ad uno shock diabetico. Dopo soli due giorni in ospedale, è stato rimandato nella prigione di SCI Mahony di Frackville (PA) dove è stato riaffidato alle cure di quell’infermeria che per mesi ha ignorato i suoi sintomi. Ci sono voluti migliaia di manifestanti riunitisi sotto la prigione ed appelli da tutto il mondo per permettere ai parenti del carcerato di fargli visita dal momento che inizialmente le autorità carcerarie non concedevano permessi.

La condizione di Mumia riporta il riflettore sulle condizioni delle carceri americane: se è vero che la condanna a morte dell’attivista è stata sospesa, la negligenza con cui viene accudito quest’uomo in gravi condizioni di salute rischia di portare comunque ad una morte in carcere. Il giornalista, durante gli anni trascorsi nel braccio della morte, si è occupato molto delle condizioni dei carcerati nella più grande potenza del mondo. Grazie alla possibilità di poter pubblicare articoli e giornali (ottenuta dopo una battaglia durata anni) e alle collaborazioni con trasmissioni radio, Mumia ha evidenziato come anche all’interno del sistema carcerario esista una questione razziale.

Gli Stati Uniti detengono il record mondiale di “imprigionamento”: le carceri del paese detengono un condannato ogni 138 abitanti, la percentuale più alta al mondo. La metà dei detenuti sono afromericani: negli Stati Uniti il 10% dei maschi neri adulti è in galera. Questi dati vanno a sottolineare, come fanno d’altra parte attivisti conosciuti in tutto il mondo come Angela Davis, come negli Stati Uniti la questione razziale sia strettamente legata ad una questione di classe. Per quanto le leggi sulla segregazione siano state abolite da decenni e il paese sia oggi guidato da un afroamericano, le peggiori condizioni economiche, l’accesso ai soli lavori manuali e sottopagati e le scarse opportunità di istruzione e, di conseguenza, di riscatto sociale, fanno sì che la popolazione afroamericana sia la porzione di società che più facilmente finisce in carcere. Alla mancanza di prospettive e alla disperazione della vita quotidiana, si aggiungono spesso episodi di razzismo e violenza da parte di polizia ed istituzioni (ricordiamo tutti il recente omicidio, rimasto impunito, del diciottenne Michael Brown).

Se, come diceva Fëdor Dostoevskij, è vero che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” forse le graduatorie internazionali andrebbero riviste. Noi, nel nostro piccolo, possiamo cercare di far conoscere quelle che sono le vere condizioni dei detenuti, anche italiani, dove la situazione non è di certo più rosea, ed evitare di cedere alla barbarie e al giustizialismo più becero che portano a godere delle sofferenze altrui.

Ultima modifica il Martedì, 07 Aprile 2015 15:25
Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

Cit.

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