Così è uno stato che la maggior parte degli occidentali neanche riuscirebbe a collocare sulla carta geografica, come lo Yemen, ad essere sotto attacco nell'indifferenza dell'opinione pubblica mondiale.
In sostanza, nel caso yemenita, i fatti sarebbero questi: da ormai tre settimane i ribelli sciiti che si sono impossessati della capitale Sana’a e della terza città del paese, Taiz, subiscono l'intervento militare della coalizione saudita (composta dagli Emirati del Golfo, l'Egitto, il Marocco, il Sudan, la Giordania e il Pakistan) rafforzata dal supporto logistico e di intelligence degli Stati Uniti (i quali dal 2009 operano militarmente nel Paese tramite l'uso dei droni per stanare i qaedisti) e dalla complicità delle Nazioni Unite. Nel frattempo, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Yemen, il diplomatico marocchino Jamal Benomar, che aveva tentato di bloccare la risoluzione di embargo n. 2216 sulle armi solo alle milizie sciite, è stato costretto a farsi da parte.
Ma siamo sicuri che la spiegazione sia così semplicistica e cioè unicamente riconducibile a delle questioni di dominio regionale interne alle dinamiche mediorientali come ci viene fatto intendere? La presenza costante degli Stati Uniti nella zona, coinvolti in operazioni contro Al Qaeda non è che una spia che ci segnala la globalità del conflitto in atto.
Gli autori dei summenzionati articoli glissano, ma è chiaro che c'è molto di più dietro alla prova di forza regionale. Mentre il buon Negri ci ricorda che incombe sui ribelli Houthi l'ombra del qaedismo (che è comunque presente e avanza nel centro-sud dello Yemen) riconnettendo il tutto al massacro di Charlie Hebdo, emergono connessioni ben più profonde e difficili da digerire per gli acuti stilettatori della borghesia italiana, che non vanno oltre a quelle con l'Iran.
Chiaramente Teheran, forte degli accordi raggiunti nella tormentata Conferenza di Ginevra, è tornato in scena come importante attore e ha stretto un più solido legame con Mosca, la quale ha così revocato l’embargo alla vendita dei sistemi missilistici S-300. A confermare la necessità di un più stretto accordo tra i due è stato il ministro della Difesa dell'Iran Hossein Dehghan che ha esplicitamente chiamato in causa non solo la Russia e la Cina, ma anche l'India, conferendo precise finalità strategiche al coordinamento, asserendo: "Condivido l'idea della cooperazione multilaterale nel campo della difesa tra Cina, Iran, Russia e India, per opporsi alla progressiva espansione della NATO in direzione dell'Est e al dispiegamento dello scudo missilistico in Europa".
L'Iran stesso, additato dai principali analisti occidentali come primo responsabile dell'escalation (con l'eccezione positiva di Limes, vedi qui), è stato l'unico attore coinvolto ad aver tentato la via di una soluzione pacifica al conflitto, presentando una proposta di pace al Consiglio di Sicurezza dell'Onu.
Tuttavia, quello che sembra sfuggire anche ai più acuti commentatori nostrani è il ruolo di stabilizzazione che stanno giocando Paesi quali quelli chiamati in causa dal ministro Dehghan che frenano ormai da tempo le mire espansionistiche occidentali e che sembrano aver decisamente ridimensionato l'unipolarismo dell'impero statunitense costituitosi nel post-89.
D'altra parte non è un mistero che proprio da quel 2013 la Cina abbia iniziato a giocare un ruolo sempre più centrale in Medio Oriente coniugando interessi economici (riassumibili nella formula approvvigionamento energetico in cambio di prodotti di consumo) e rapporti politici con i nuovi regimi (in particolare con quello egiziano, snodo centrale per il commercio cinese che passa per il canale di Suez).
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