Solo una volta arrestata l’avanzata degli uomini neri e stabilizzato il fronte (dopo mesi di sanguinosissimi combattimenti attorno alla città-simbolo di Kobane) alla guerriglia curda è stata concessa una breve pausa, una spanna di tempo (da gennaio a luglio) in cui i combattimenti si sono fatti leggermente meno violenti ed è stato concesso ai curdi di tirare il fiato.
Nonostante una risaputa e inaccettabile reticenza del premier turco Erdogan e del suo partito, l’AKP, a trattare con quelli che vengono considerati i “terroristi separatisti” del PKK e a riconoscere, anche solo parzialmente, i diritti del popolo curdo, la repressione politica e militare della Turchia nei confronti dell’attivismo militante curdo si era leggermente affievolita, anche su pressione di diversi paesi e realtà internazionali che vedevano, a ragione, nel PKK e nella guerriglia curda l’unica forza capace e intenzionata ad opporsi ad ISIS. Nonostante fra lo Stato Turco e il PKK sia stata stabilita, nel 2013, una sorta di tregua secondo cui il PKK si impegna a non lanciare più attacchi contro le forze di sicurezza turche in cambio della fine della repressione turca e del riconoscimento di alcuni elementari diritti del popolo curdo, la Turchia ha continuato a sabotare coscientemente l’azione militare del PKK contro lo Stato Islamico arrestandone i membri, sequestrandone le armi, chiudendo le frontiere negando il passaggio ai curdi ma concedendolo - di soppiatto - ai jihadisti.
Questa la situazione prima delle elezioni generali turche del 7 giugno 2015. Nonostante un ambiente favorevole, l’AKP di Erdogan (ora presidente della Repubblica) guidata dal suo braccio destro Davotoglu, non è riuscita ad ottenere la maggioranza assoluta, perdendo complessivamente 9 punti percentuali (scendendo dal 50% al 41% circa) e 53 seggi, e non risultando quindi in grado di formare un governo. Stabili i kemalisti (socialdemocratici) al 25%, in leggera crescita il partito di estrema destra MHP, violentemente anti-curdo e legato a doppio filo all’organizzazione paramilitare terrorista anti-PKK Lupi Grigi. Ma la vera sorpresa è venuta proprio dal sudest della Turchia, dalla regione curda in cui l’HDP, il Partito Democratico del Popolo, curdo, di sinistra e vicino alle posizioni espresse per anni dal PKK, ha raggiunto la maggioranza totale dei voti piazzandosi a livello nazionale al 13%, superando la soglia del 10% e mandando all’aria i piani di Erdogan.
Torniamo al luglio 2015: superate le elezioni e incapaci di formare un governo monocolore, ad Erdogan e all’AKP non resta che tentare l’alleanza con l’estrema destra anti-curda del MHP, o almeno pescare dal suo bacino elettorale se si dovesse andare ad elezioni anticipate. Per conquistarsi il favore di quelli che si possono tranquillamente chiamare i fascisti turchi e del loro elettorato, l’unica mossa è tornare al pugno di ferro contro l’attivismo militante curdo. Nel campo dell’AKP ci si rende anche progressivamente conto che l’HDP, oltre allo smacco inflitto a Erdogan con lo straordinario risultato elettorale, è anche in prima linea a livello nazionale e internazionale nella denuncia della piega dittatoriale che il presidente della repubblica sta imprimendo alla Turchia, della repressione politica, degli scandali in cui sono coinvolti importanti vertici dell’AKP. Così, si decide di procedere su due binari, repressione politica e militare, e nel luglio 2015, Erdogan dichiara più o meno ufficialmente guerra ai curdi. Scattano le denunce contro diversi membri e dirigenti dell’HDP, tra cui il leader Selahattin Demirtas, per adunata sediziosa e incitazione al terrorismo. Allo stesso tempo, prendendo a pretesto l’uccisione da parte del PKK dei due poliziotti turchi collusi con l’ISIS e la reazione indignata degli attivisti curdi al massacro di Suruc, l’esercito turco lancia una grande operazione “antiterrorista”.
Ad essere colpiti, si legge nei comunicati dell’agenzia governativa turca Anadolu, saranno sia lo Stato Islamico che il PKK. L’attacco contro l’ISIS, richiesto per mesi dalla coalizione internazionale intenta a bombardare, più o meno efficacemente, gli uomini neri mentre i curdi resistevano al suolo, si è dimostrato da subito per quel che è: una mera scusa mirata esclusivamente a preparare un intervento diretto turco in Siria contro il governo di Bashar al-Assad. Gli unici successi operativi registrati dall’esercito e dall’aviazione turca contro ISIS nella regione sono stati, sempre secondo Anadolu, qualche decina di militanti jihadisti uccisi e un numero piuttosto basso di arresti e di armi confiscate in Turchia.
La vera violenza l’esercito turco l’ha scatenata contro il PKK: da inizio luglio sono partiti oltre 500 raid aerei (circa il decuplo di quanti l’aviazione turca ha lanciato contro ISIS) contro le basi del PKK sulle montagne delle province turche di Sirnak, Diyarbakir, Hakkari. Si parla di 800 militanti curdi uccisi (si tratta di cifre chiaramente esagerate). La domanda che sorge spontanea nella testa di un ignaro lettore di giornali italiano che da un giorno all’altro vede mutare quelli chiamati per mesi “eroici combattenti curdi” in “terroristi separatisti” è: possibile che per mero interesse elettorale un governo - o meglio un partito al potere, poiché tecnicamente non c’è governo in Turchia - si abbassi a pugnalare alle spalle l’unica forza politica e militare che sta frenando l’attacco dell’ISIS in Irak?
La risposta è sì.
È innegabile che anche nella testa certamente meno ingenua e ben più abituata a confrontarsi con le infamie dell’imperialismo di un militante politico è una realtà dura da accettare, ma tant’è: le elezioni turche sono state convocate per novembre, una volta divenuta chiara l’incapacità dell’AKP di formare un governo, e per completare il suo piano di trasformare la Turchia nel suo impero conservatore personale in cui spartirsi soldi, potere e affari, Erdogan è perfettamente disposto ad asfaltare il PKK e l’HDP.
L’HDP, sottoposta ad arresti, censura, denunce e oscuramento mediatico, tenta di resistere all’offensiva governativa con i mezzi democratici a sua disposizione (e con la solidarietà internazionale di organizzazioni politiche come Rifondazione Comunista dall’Italia e la Linke dalla Germania ma anche di ONG, gruppi e associazioni e singoli compagni e compagne consci dell’importanza di questa battaglia). Dovrà prepararsi a una campagna elettorale difficilissima, un partito neonato attaccato da tutti: la Turchia, politicamente, pur essendo un paese dove teoricamente la larga maggioranza vuole la pace, è stata divisa da due mesi di violenza e l’HDP dovrà riuscire a tenere testa all’attacco di Erdogan stretta fra un elettorato turco prevalentemente ostile ai curdi, che percepisce come una minaccia per la sicurezza, e il suo tradizionale elettorato curdo radicalizzato dall’attentato di Suruc e dalla ingiustificata offensiva militare del governo.
Se sarà in grado di reggere alla prova, a novembre 2015, e di scombinare ancora una volta i piani di Erdogan consolidando il voto popolare ottenuto il 7 giugno o addirittura ampliandolo, si prospetterà un significativo cambio di scenario nelle politiche turche, che vedranno un presidente della repubblica indebolito e una forza curda di estrema sinistra ormai massicciamente supportata e difficilmente attaccabile.
Il PKK dal canto suo ha stracciato la tregua del 2013 e, tra gli appelli internazionali a ritrovare la pace, sta rispondendo colpo su colpo: dal 7 luglio sono saliti a oltre 90 i soldati delle forze di sicurezza turche e i civili uccisi negli attacchi dei suoi militanti tra Istanbul e le regioni orientali a maggioranza curda. Nonostante i due anni di cessata attività, ha dimostrato all’esercito turco che credeva di averne facilmente ragione di aver mantenuto intatte le sue strutture di combattimento, i depositi di munizioni e il supporto popolare, invischiando i soldati di Ankara in una pericolosa - e sanguinosissima - guerra tra le case e i boschi del sudest turco, in cui i militari si scontrano - oltre che con i guerriglieri e le guerrigliere del PKK - con l’ostilità e l’odio della popolazione curda. Mentre sono confrontati con le atrocità dei soldati turchi (ultima l’esecuzione sommaria della partigiana comunista curda Ekin Van, torturata dalla polizia di Erdogan e poi denudata e lasciata cadavere per strada) tra le linee del PKK non tutti concordano sulle soluzioni da adottare - c’è chi propugna la linea dura, c’è chi vorrebbe deporre le armi e tornare di nuovo al tavolo delle trattative con la Turchia.
L’unico problema: Erdogan non ha nessuna intenzione di trattare. Ha fatto sapere diverse volte che “stavolta non si torna indietro” e che non è minimamente disposto a intavolare negoziati con quelli che è tornato a chiamare “terroristi separatisti” e “la principale minaccia per la democrazia in Turchia”.
Come se non fosse perfettamente chiaro che l’unica minaccia per la democrazia in Turchia sono lui, il suo partito e il suo esercito. Mentre si moltiplicano le iniziative di solidarietà con il PKK e l’HDP in tutto il mondo, anche gli Stati Uniti esprimono un moderato dissenso nei confronti della politica assurda e criminale dello Stato Turco; l’unica a dare tiepidamente ragione ad Erdogan per ora è stata il vanto italiano Federica Mogherini, a cui consiglio vivamente una visita clinica per schizofrenia viste le dichiarazioni contrastanti nel giro di 3 giorni (26 luglio “ho appena chiamato Demirtas, condanno gli attacchi terroristici del PKK” - 27 luglio: “mantenere aperto il processo di pace con i curdi” - 28 luglio: “i paesi dell’alleanza atlantica sono solidali con la Turchia”).
Nell’attendere altri sviluppi sul fronte curdo, il primo e unico passo verso la pace deve venire dalla fine immediata dei bombardamenti e dalla riapertura dei tavoli di dialogo PKK-governo turco. Edi Bese! Basta così!