Mercoledì, 01 Luglio 2015 00:00

Uomini Senza Legge e la questione ancora aperta del negazionismo occidentale

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Uomini Senza Legge e la questione ancora aperta del negazionismo occidentale

L’aspetto forse più piacevole dello scrivere recensioni - di qualsiasi tipo - è il potersi permettere di scrivere e concentrarsi anche su pellicole uscite diversi anni fa, senza doversi fossilizzare su quelle in uscita recente. In questo caso, la mia scoperta di Uomini Senza Legge (titolo originale: Hors-la-loi, Francia/Algeria, 2010) è avvenuta un po’ per caso. Non perché non fosse un film noto - anzi. È stato candidato all’oscar nel 2011 come miglior film straniero e alla 63esima edizione del festival di Cannes.
Nonostante possa sembrare, nel 2015, un film vecchiotto da recensire, la chiave non sta nella trama, seppur avvincente, ma nelle reazioni che ha scatenato nell’opinione pubblica.

Scritto e girato dal francese (di origini algerine) Rachid Bouchareb, il film racconta le storie, dapprima separate e poi gradualmente coincidenti, di tre fratelli algerini scacciati dalla loro terra e costretti, in un modo o nell’altro, a riparare in Francia. Said, fuggito nelle bidonville di Parigi insieme alla madre dopo il massacro coloniale di Setif, si arricchisce con prostituzione e traffici illeciti, lavorando parallelamente al grande sogno di mettere in piedi una scuola di boxe per algerini i cui pugili siano un giorno in grado di sfidare i campioni francesi. Proprio non ne vuole sapere dell’attività rivoluzionaria in cui si sono gettati a capofitto i suoi fratelli Abdelkader e Messaoud, l’uno arrestato durante il massacro di Setif e affiliatosi in prigione all’FLN, l’altro di ritorno dalla guerra in Indocina in cui ha visto vittorioso Ho Chi Minh. Sono entrambi ricercati dal colonnello Faivre, un ufficiale francese meno spietato dei suoi predecessori ma deciso a porre fine al terrorismo indipendentista nella capitale, e solo l’intervento di Said potrà salvarli.

Nel perimetro narrativo stabilito dai quattro personaggi principali si muovono un gran numero di personaggi secondari: pugili, ufficiali di polizia, guerriglieri, madri, amanti, mogli e figli. Il più grande errore del film consiste nell’averli trascurati, lasciandoli psicologicamente e caratterialmente appena abbozzati e quasi relegati al ruolo di comparse. La trama e la struttura narrativa avvincenti, ma non particolarmente originali (sul modello dell’”epos familiare” americano, una via di mezzo tra Il Padrino e Brothers) e il suo risalire al 2010 fa non la rendono, da soli, una pellicola che merita una recensione a cinque anni di distanza.

Nonostante l’accusa di gravi errori storici, sempre respinta dal regista, Uomini Senza Legge è però uno dei primi film (se si esclude, ovviamente, l’epico La Battaglia di Algeri di Pontecorvo) ad occuparsi criticamente dell’indipendenza delle colonie francesi e a rappresentare impietosamente le atrocità del regime coloniale. La descrizione del massacro di Setif occupa interi 10 minuti del film e si concentra minuziosamente sulle atrocità dei francesi, militari e civili assieme, nel reprimere una manifestazione indipendentista l’8 maggio del 1945, giorno conclusivo della seconda guerra mondiale. La sequenza ha destato enorme scandalo in Francia nei giorni dell’uscita del film, in particolare perché l’opinione pubblica francese, da dopo la guerra d’Algeria in poi, ha sempre rappresentato i fatti di Setif come una legittima reazione ad un massacro ingiustificato di europei da parte di criminali algerini. Vengono poi raffigurati i tentativi della polizia francese di decapitare l’FLN tramite la repressione, la tortura, gli arresti indiscriminati, addirittura l’uso di un’organizzazione terroristica parallela e protetta dalle alte sfere che eliminasse singolarmente i capi della guerriglia algerina.

In seguito all’uscita nelle sale di Uomini Senza Legge si è consumata una profonda frattura fra storici e critici cinematografici francesi e algerini. Gli uni, spalleggiati da diversi deputati dell’UMP (l’allora partito conservatore di Sarkozy) si sono schierati con la versione storica “ufficiale” francese, per lo più negazionista delle atrocità coloniali. Al contrario, gli algerini hanno fatto fronte attorno al film del loro connazionale difendendolo a spada tratta sulle pagine dei quotidiani nazionali. L’altro aspetto che ha destato scalpore tra i critici francesi è stato l’indiretto parallelismo che il film stabilisce tra la guerriglia indipendentista algerina, l’FLN e quelle che i francesi per decenni hanno continuato a chiamare “organizzazioni terroristiche”, e la Resistenza francese nella seconda guerra mondiale. Il film mostra come la lotta per l’indipendenza sia stata condotta al di fuori della legalità e dei metodi democratici proprio perché quella era l’unica strada alternativa ad un colonialismo francese repressivo e violento, che non esitava a giocare sporco a sua volta per reprimere e mantenere lo status quo e non avrebbe mai permesso lo spostamento della lotta sul piano legale o democratico. Proprio come accadde negli anni 40 per il maquis francese, sottoposto agli stessi sistemi repressivi adottati dai francesi venti anni dopo contro gli algerini.

È inimmaginabile che decenni, a volte secoli, di sopraffazione e di “pugno di ferro” selvaggi ed indiscriminati vengano dimenticati in pochi anni. Negli anni ’80, quando in Africa, e specialmente in Nord Africa, cominciò a farsi strada la predicazione salafita con tutte le sue conseguenze (negli anni ’80 i primi combattenti nordafricani raggiunsero l’Afghanistan, successivamente combatterono in Iraq e si arruolarono in Al-Qaeda, negli ultimi anni si sono spostati in Siria, Mali, Yemen e ora spesso e volentieri sono nell’ISIS) essa attecchiva perché, oltre a battere sulla campana della religione e della guerra santa, i reclutatori jihadisti facevano anche leva su ciò che rimaneva di un diffuso odio anti-occidentale, residuo della guerra di appena quindici anni prima e non ancora estintosi in larghe fasce della popolazione.
Del resto, non pare che i francesi abbiano imparato la lezione: nonostante abbiano pagato sulla loro pelle quindici anni di guerre coloniali (Indocina, Algeria ecc.) l’interventismo in Africa pare essere ancora uno dei cavalli di battaglia della loro politica estera, basta ricordare la missione militare in Mali (in cui la Francia ha per ora registrato un numero molto basso, ma comunque costante, di perdite).

Ammettere gli errori (o meglio orrori) commessi dai singoli governi occidentali durante il colonialismo e le guerre di indipendenza coloniali, nonostante spesso gli scheletri nell’armadio siano più grandi e più spaventosi di quanto non ci si possa immaginare, rappresenterebbe senz’altro il primo passo verso una riconciliazione non solo politica e umana (nella maggior parte dei casi già avvenuta) con le popolazioni che hanno vissuto sulla loro pelle le atrocità dei regimi occidentali, ma anche storica. Oltre ad eliminare il pauroso - ed eticamente disgustoso - fenomeno del negazionismo, presente in quasi tutti i paesi occidentali che hanno qualche peso di troppo sulla coscienza (ad esempio: solo negli ultimi anni in Italia si parla apertamente, e anche qui molto è ancora da migliorare, dell’uso di gas asfissianti in Abissinia e Libia), ammettere - e nei casi in cui sia possibile, punire - gli abusi commessi dai governi occidentali sarebbe un atto di profonda onestà nei confronti degli Stati africani che hanno patito anni di repressione prima dell’indipendenza. Dimostrerebbe, quantomeno, la volontà degli stati europei di prendere coscienza, anche collettivamente, dei propri errori, e ridarebbe coraggio a chi spera che il capitolo del colonialismo sia definitivamente chiuso.

Ultima modifica il Martedì, 30 Giugno 2015 22:33
Niccolò Koenig

Nato a Pisa nella seconda metà degli anni 90 da padre tedesco, comincio ad interessarmi giovanissimo alla politica, studentesca e nazionale. Faccio parte dell'Unione degli Studenti, sono un iscritto dell'ultima leva dei Giovani Comunisti e milito nella LINKE tedesca. Alla passione per la politica si accompagnano quella per la musica, il cinema e la letteratura.

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