Non vi sono gli scafisti molto simili agli schiavisti portoghesi del XVI secolo a organizzare questo viaggio lungo, faticoso e pericoloso. I sorveglianti del confine turco chiedono cifre sproporzionate per far passare questa massa disperata di persone in fuga dalla guerra e dalla fame, lasciandosi alle spalle le loro terre devastate da conflitti in apparenza differenti ma infiammati nello stesso momento.
Una rotta terrena che dalla Turchia passa la Grecia, la Macedonia, la Bosnia Erzegovina, la Serbia appunto e spesso lì si ferma. Perché Ungheria e Croazia, tappe di passaggio per le speranze dei migranti nell’Europa occidentale, hanno chiuso i confini con muri e reticolati e spesso solamente con la minaccia delle armi spianate. L’accesso all’Adriatico e ai suoi porti balcanici è compromesso, così come il passaggio del territorio ungherese verso la Germania e l’Austria.
Da aprile 2016, la presenza di migranti in transito in Serbia è passata da 1600 a quasi 5000 persone. Numeri in costante aumento che mettono alla prova le capacità di ricezione del paese e che pongono seri interrogativi in vista dell’inverno imminente. Nello stesso periodo, in seguito alla chiusura del confine da parte della Croazia, la rotta dei migranti si è spostata verso il nord del paese: sul confine ungherese le presenze giornaliere ondeggiano dalle 160 registrate a inizio aprile alle oltre 680 nell’ultima settimana, con picchi di 1450 presenze in agosto.
Nella zona di transito di Kelebija i numeri variano di giorno in giorno: la scorsa settimana si è passati da 80 a 160 presenze nel giro di una sola notte. Per alcuni si tratta di una permanenza di pochi giorni mentre altri, famiglie comprese, si trovano qui da più di due mesi. Un’attesa logorante perché non c’è margine di previsione rispetto al momento in cui a ciascuno sarà consentito di attraversare. La lista è gestita dal Commissariato per i rifugiati (organismo pubblico costituito inizialmente per gestire gli sfollati interni dopo i conflitti degli anni ’90 il cui mandato, dal 2012, è stato esteso alla gestione delle migrazioni tout court) e le informazioni trapelano solo in modo ufficioso. I migranti in attesa vengono informati quando i loro nomi si approssimano al vertice della lista, dopodiché il documento può subire modifiche che possono protrarre l’attesa anche per settimane. Dei 30 a cui spetta l’attraversamento ogni giorno, alcuni potrebbero infatti non trovarsi più nella zona di transito, avendo deciso di ricorrere ai trafficanti per passare in Ungheria. Data l’impossibilità di stabilire con certezza chi sarà il prossimo, è fondamentale rimanere a ridosso del confine per non rischiare di perdere il proprio turno. L’unico modo per farlo è accamparsi nell’area di transito che, così come i campi governativi, è sotto il controllo del Commissariato.
Oltre però a questo organismo statale, vi sono numerose associazioni di volontariato serbe che sono in supporto ai migranti per i beni di prima necessità, reperimento di tende e supporto per lo svolgimento delle pratiche burocratiche con le autorità locali e nazionali. Un pezzo di società civile attiva sul territorio che aiuta una popolazione eterogenea in fuga dalla guerra.
Per chi è stato espulso da altri paesi, così come per chi sta transitando per provare a passare i confini, la prima via da percorrere è quella di registrarsi al centro per richiedenti asilo di Krnjača, poco fuori Belgrado. Il centro è costituito da una dozzina di baracche che ospitavano gli operai del vecchio distretto industriale. Negli anni ’90 sono state utilizzate per alloggiare gli sfollati interni delle guerre civili jugoslave, provenienti da Croazia, Bosnia e infine Kosovo.
Registrarsi in Serbia permette di stare legalmente nel Paese, ma di fatto quasi nessuno chiede asilo qui. Nel 2016 sono state registrate 7.100 domande di asilo, ma oggi sono presenti circa 4.000 profughi. Questo vuol dire che almeno 3.000 persone hanno trovato un modo durante quest’anno di uscire illegalmente dalla Serbia e raggiungere verosimilmente l’agognata UE. Oggi, nelle baracche di Krnjača struttura che ha una capacità di accoglienza per 500 persone ne dormono oltre 750. I centri di accoglienza coordinati e gestiti dal Commissariato per richiedenti asilo serbo stanno aumentando la propria capacità di accoglienza in tutto il Paese, ma non possono trattenere le persone al proprio interno.
Le condizioni di alcuni di questi centri sono al limite, nel campo di Subotica che potrebbe ospitare 150 persone, ce ne sono 500 in questi giorni. Non esistono strutture al chiuso, ma tende da campeggio. I bagni e le docce oltre ad essere pochi, sono in condizioni miserevoli. La difficoltà maggiore dunque non è restare per alcuni giorni in un campo fatiscente, ma è arrivare alle porte dell’Ungheria per essere poi reindirizzati dal commissariato serbo in cittadine lontane, al confine con la Bosnia e il Kosovo.
Nonostante questo, le persone non si arrendono, tornano in qualche modo a Belgrado e ripartono dal parco per raggiungere i confini al nord, con l’Ungheria, o ultimamente con la Croazia. Il governo di Aleksandar Vučić ha subito pressioni da parte dell’Unione Europea perché lo stato serbo potesse essere investito di questo ruolo di stato “cuscinetto” per la rotta balcanica dei migranti. Visti anche i comportamenti delle autorità macedoni e croate, dove si segnalano abusi da parte della polizia e dei sorveglianti delle frontiere sulle persone che marciano lontano dalla guerra.
Un ruolo di frontiera mobile che la Serbia aveva già durante i gloriosi anni dell’Impero austroungarico, in cui l’intero paese era attraversato dal Confine militare dell’Impero, corridoio di passaggio delle popolazioni serba e bosniaca in lotta con l’occupazione ottomana.
Pressioni dell’UE collegate alla candidatura della Serbia come nuovo stato membro dell’Unione, insieme alla clausola sul riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo che ancora non è stato ufficializzato dalle autorità di Belgrado. Qui risiede il paradosso dell’Unione Europea e la contraddizione: pur con la grande disponibilità del governo serbo, questo stato non sarà in grado ancora a lungo di continuare a proteggere i migranti e controllare il flusso della rotta balcanica. Per i problemi interni dovuti al continuo scontro del governo con i nazionalisti, per mancanza di strutture adeguate che mettono a repentaglio la sicurezza e la dignità dei migranti e per i costi alti che gravano su una economia fragile come quella serba.
L’Unione Europea ha il dovere di affrontare direttamente il problema, aumentando il sin qui esiguo supporto alla Serbia nel controllo sulla rotta balcanica e nella doverosa accoglienza alle popolazioni in fuga. Inoltre è necessario che aumenti la pressione politica su Croazia e Ungheria contro la loro politica di chiusura, limitando la tolleranza nei confronti della costruzione di nuovi muri e confini dentro il continente europeo. Sanzioni adesso rivolte verso altri paese dovrebbero essere utilizzate come minaccia o come risoluzione nei confronti di questi stati che minano il principio stesso di un’Europa unita, libera da frontiere e terra di accoglienza.
Un salto di qualità da parte delle istituzioni dell’Unione europea e da parte dei suoi stati membri deve essere necessariamente portato avanti in termini di integrazione e accoglienza riguardo la rotta balcanica. Una risposta per eliminare altrimenti la fragilità dell’Unione derivata dall’immobilisimo politico di fronte a questi problemi gravi, che ne causano altrettanto gravi e pericolosi di natura politica all’interno del dibattito politico europeo diretti contro le istituzioni e contro il grande sogno di una Europa unita libera da confini.
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