“Pop Palestine”, uscito in Italia il 18 febbraio 2016, è infatti “un viaggio nella cucina popolare palestinese”, un viaggio che parte da Hebron – il cui nome arabo Al-Khalil significa “l’amico” – ed arriva fino a Jenin, passando per Betlemme, Ramallah, Gerusalemme, Gerico, Nablus. Ogni città è raccontata dalle ricette tipiche del posto. Ma non si tratta di un semplice libro di cucina, perché tra sapori, colori, spezie e ingredienti emergono la cultura e la realtà dei luoghi, emerge una terra che sa resistere a anni di occupazione e usurpazioni, riscattandosi con il potere e la bellezza delle sue tradizioni e la dignità e l’indomito orgoglio dei suoi abitanti.
Chiara Salvadori, presidente del Comitato Arci Empolese Valdelsa – il comitato che insieme ai volontari del circolo, ha reso possibile questa iniziativa – ha detto che la scelta di dedicare una serata alla Palestina parte dalla volontà di parlare di una terra, di cui ancora si discute troppo poco, e il libro è stata una bellissima occasione, sia per approfondirne gli aspetti più problematici, sia per darne un’altra chiave di lettura, fatta appunto di sapori e tradizioni secolari. L’Arci, tiene a ribadire Salvadori, da sempre ha preso una posizione politica chiara in favore delle rivendicazioni del popolo palestinese contro il tentativo da parte di Israele di annientamento vero e proprio di un’intera identità, a cominciare dalle giovani generazioni. Da qui nasce anche la mostra, che ha fatto da sfondo alla serata, “Il futuro rubato nel paese che non c’è”, di Marco Pagli. L’autore, in seguito a un recente viaggio nelle terre occupate, ha voluto restituire l’intollerabile sopruso e le ingiustizie di tutti i giorni attraverso gli eloquenti volti dei bambini del luogo, protagonisti assoluti ritratti in sprazzi di vita quotidiana: nell’apparente normalità di queste scene in cui si vedono bambini che giocano a pallone, che saltano da muretti o che semplicemente sorridono, traspare però la cruda consapevolezza che questo desiderio di spensieratezza e serenità che si legge dagli occhi dei bambini, è di fatto costantemente negata da chi fa di tutto per rubare loro un futuro, e anche un presente. Durante il suo intervento Marco dice che non è stato facile estrapolare un tema unico in questo paese “che c’è ma non esiste” e che non era partito con l’idea di fare una mostra sui bambini. Ma quella sensazione viscerale di odio, quell’odio “che spacca dentro, così persistente tanto da non scrollarsi più di dosso anche una volta tornato a casa”, percepita dal primo momento in cui ha messo piede in terra palestinese fino all’ultimo in cui è ripartito, gli ha fatto toccare con mano quanto pesante e aggressiva sia la volontà, da parte israeliana di cancellare l’identità di un popolo, intervenendo prima di tutto sulle nuove generazioni. Per questo, in maniera quasi naturale e automatica, i protagonisti delle foto sono diventati i bambini, che per primi subiscono questo processo di decostruzione di un’identità. Lo si vede nei campi profughi, nel deserto, nei villaggi, nei momenti di quell’impossibile normalità e infanzia spensierata che dovrebbero spettare di diritto ad ogni bambino ma che vengono spezzate dalle ingiustizie quotidiane.
Insieme alle autrici Silvia e Alessandra, a coordinare la presentazione è stata Carla Cocilova, responsabile del settore internazionale di Arci Toscana. Carla, che la Palestina la conosce bene grazie a numerosi viaggi intrapresi in Medio Oriente, ci racconta che rimase folgorata dalla lettura di questo libro e che immediatamente si affrettò a prendere contatti con autrice e fotografa. “Pop Palestine” è infatti, continua Cocilova, il tassello che mancava per raccontare questo paese in tutta la sua cultura e la sua bellezza, oltre che per raccontare la sua realtà, ma in un’ottica diversa, con un linguaggio diverso dal solito, pur affrontando anche quelle che sono le sue dure problematiche e le sue ferite. La potenzialità del libro sta proprio però nella capacità di saper comunicare tutto questo partendo da una delle sue più ricche tradizioni, quella culinaria appunto, sunto della cultura mediterranea e in questo modo riesce ad arrivare a più persone e non solo a coloro che già si occupano del tema o si impegnano per la causa. Pop Palestine è strutturato come una sorta di guida che va a tratteggiare un itinerario socio-politico, geopolitico e culinario attraverso un tour nelle città, ognuna caratterizzata da ingredienti o ricette tipici, come le famose gelatine alla rosa di Hebron o le ciambelle ai datteri di Gerico, molte delle quali spiegate da gente del posto, tra cui il cuoco di fama internazionale Joseph. È dunque un racconto a più livelli di quella che è la terra e la realtà palestinesi, aggiungendoci anche quel pizzico di ironia e di leggerezza che in fondo rispecchia lo spirito di questo popolo, che, pur nella disperazione sa reagire con il sorriso, ilarità e con una assoluta ospitalità. Tra le pagine del libro ad esempio, si legge che un detto del profeta Muhammad dice che “ Cibo di due è sufficiente per tre, cibo di tre è sufficiente per quattro” a testimonianza dell’imprescindibile accoglienza di questo popolo, pronto ad aprire le porte delle proprie delle proprie case e della propria esistenza ai visitatori, permettendo loro di sbirciarlo anche nei momenti più raccolti, nella loro casalinga intimità e familiarità. È proprio l’umanità che balza fuori tra le pagine del libro, l’umanità che troppo spesso resta invece sottotraccia ogni volta che si prova a parlare di Palestina, restando sepolta sotto le pietre e la ferocia dell’occupazione e della guerra.
Siliva Chiarantini e Alessandra Cinquemani affermano di aver avuto bisogno di scrivere un libro del genere, che raccontasse anche le luci di questo popolo, proprio perché ha conosciuto da vicino i suoi dolori. In un precedente viaggio, la scrittrice racconta che durante una manifestazione contro le colonie e gli occupanti, sono morte due persone, colpite dai lacrimogeni contenenti gas nervino sparati dalle milizie israeliane. L’intento del libro era proprio quello di dare un colore diverso alla Palestina, che fosse diverso da quella “nuvola grigia, da quel’ombra scura che vengono gettate sopra”, ma che è un’immagine solo parziale rispetto alla percezione che si può avere di questa terra una volta che vi si entra dentro e si viene in contatto con la sua gente. Il cibo poteva essere, dato che fin troppo sta andando di moda in ogni angolo di mondo, la “scusa” per poter parlare della Palestina con toni più “Pop”, più leggeri ma al contempo ancor più efficaci laddove si soffermano su alcune delle ingiustizie subite dal popolo palestinese, che risultano ancora più incisivi perché facenti parte di quella che ormai è diventata una normalità, per altro accettata omertosamente dalla comunità internazionale.
Un contributo fondamentale per poter entrare nel profondo della cucina tradizionale palestinese ed estrapolarne i segreti è stato offerto da Fidaa, una ragazza palestinese che però, avendo studiato in Itala e presa una laurea a Padova in “Scienze e cultura della gastronomia e della ristorazione” e conseguito un master in “nutrizione di comunità ed educazione alimentare”, scrive ricette palestinesi in lingua italiana. Silvia e Alessandra dopo esser rimaste costantemente in contatto con lei prima della partenza, l’hanno finalmente incontrata a Nablus. Fidaa le ha accompagnate durante tutto il viaggio e la sua minuziosa conoscenza delle ricette tradizionali è stata un’enorme fortuna, poiché anche la Palestina non è stata risparmiata dagli effetti della globalizzazione e, tra “cibo spazzatura” e un fast food e l’altro, rischia di perdere la sua ancestrale memoria culinaria. Il tentativo di annientare l’identità palestinese interviene anche sulla cucina: Israele si è appropriata anche dei piatti tradizionali palestinesi, come l’Hummus (che letteralmente significa “ceci”) o i Falafel. Il libro serve proprio anche a questo: a restituire una memoria storica e affettiva anche a quei milioni di profughi palestinesi sparsi nel mondo, per i quali, magari, leggere una ricetta che i loro nonni o i loro genitori conoscevano, può essere un po’un modo per risentirsi finalmente a casa e riscoprire le proprie origini. La cucina infatti è uno degli aspetti atavici della propria esistenza e di coloro che ci hanno preceduto trasmettendola di generazione in generazione, che contribuisce fortemente a creare e solidificare un’identità, perderne le radici può essere un’ulteriore frammentazione di ciò che siamo o siamo stati. Rappresenta quel filo che lega passato-presente e futuro e l’itinerario intrapreso dalle autrici è infatti anche una sorta di viaggio nel tempo fatto di antiche tradizioni , non solo un tour geografico nelle varie città, un viaggio umano fatto di incontri con persone reali che hanno aperto le porte delle loro case insegnando le proprie ricette e facendole assaporare e quindi conoscere. Il tour, prosegue Silvia, percorre la Cisgiordania, ovvero la parte che rimane della cosiddetta “Palestina storica”.
Come l’autrice spiega nell’introduzione “Abbiamo scelto di limitare il nostro viaggio alla Cisgiordania perché questa è la Palestina che nonostante le colonie permette ai viaggiatori di immergersi in maniera completa e autentica nella cultura di questo popolo, compresa quella culinaria”. Non c’è stata la possibilità di andare fino a Gaza, spiegano le autrici, perché i confini, sia con l’Egitto che con Israele si sono dimostrati invalicabili. Il problema della chiusura dei confini e dei controlli estenuanti è terribile per i palestinesi: molti di questi superare tutti i giorni check point e posti di blocco e questo risulta persino letale per chi ha la necessità di curarsi o partorire, tanto che molte donne incinte perdono la propria vita per l’impossibilità di accedere agli ospedali. Una cosa che ripetono silvia e Alessandra è che per fare anche solo un kilometro per raggiungere la meta desiderata, ogni giorno devono ne devono fare il triplo o restano bloccati dai controlli ai chek point. Come molte persone incontrate dalle due donne ripetevano, “Oltre ad averci rubato le terre e una vita normale quello che ci hanno rubato, è proprio il tempo”. Anche Fidaa, quando Silvia le ha chiesto cosa le sia piaciuto di più dell’Italia, ha risposto che la cosa più bella era poter guidare e guidare senza meta i linea retta e senza dover esser fermata da nessuno o senza dover percorrere “tutto l’alfabeto per poter andare da A a B!”. Un’altra delle tremende difficoltà che il popolo palestinese subisce è la mancanza di luce elettrica e di acqua che sistematicamente vengono tolte dagli israeliani che ne hanno il controllo, a volte anche cinque giorni alla settimana. Questo è un problema enorme soprattutto per chi ha avuto il coraggio di aprire una propria attività nei territori occupati, come nel caso del birrificio Taybeh, piccolo baluardo di resistenza alla pervasiva e aggressiva occupazione israeliana e che prende il suo nome dall’omonimo piccolo villaggio di duemila abitanti e che significa “delizia”. Sulle locandine pubblicitarie affisse sullo stabilimento si legge “drink Palestine, taste devolution”, a testimonianza di questa piccola ma grande lotta che rappresenta il sogno realizzato dalla coppia di imprenditori Maria e Nadim Khoury. Anche dal punto di vista lavorativo le ingiustizie sono evidenti: basti pensare che un lavoratore palestinese guadagna sui 400/500 euro al mese mentre la paga per gli israeliani è più o meno adeguata agli standard europei.
Il problema delle colonie israeliani, illegali per il diritto internazionale, non riguarda solo i palestinesi locali ma anche i beduini: questi ultimi che vivono da secoli nei loro villaggi che vengono costantemente distrutti dalle forze sioniste per poterci insediare israeliani. Molto toccante è stato il racconto di un gruppo di beduini che per 150 volte hanno visto devastare il proprio villaggio ma per altrettante 150 lo hanno ricostruito. Nel villaggio resta ormai solo una tenda, presidio di questi beduini capitanati dal loro capovillaggio, ma questa diventa il simbolo tangibile della ferrea tenacia e della dignità straordinaria di un popolo che non vuole arrendersi a un nemico efferato e prepotente e che nonostante tutto conserva la sua normalità. Infatti anche lì, dove non c’è niente e tutto è deserto e desolazione, rimane vivo il principio assoluto di ospitalità e accoglienza verso i visitatori stranieri come Silvia, Alessandra e il loro gruppo.
Dopo l’intensa presentazione del libro, uno squisito aperitivo preparato dai volontari del circolo, che ha riproposto alcune delle ricette presenti nel libro ricreandole (quasi) fedelmente: l’Hummus, i Falafel, la Maqlouba (riso con verdure fritte), il Bed e Batata (crema di uova e patate), la Muttabbal Batinjan (salsa di melanzane affumicate), la salsa di zucchine e yogurt e il Fattoush , la tradizionale insalata palestinese. La bella serata si è conclusa con la proiezione del delizioso documentario di viaggio, ciliegina sulla torta di questo viaggio attraverso i colori, i sapori e soprattutto la grande umanità e il calore della gente palestinese, la sua voglia di reagire, di vivere, di esistere e resistere.
Come scrive Daniel de Michele Don pasta nella prefazione al libro, la cucina “rappresenta la vita quotidiana della gente, il suo stare al mondo, il suo affrontare le difficoltà e poi sedersi per un istante a rinfrancarsi e per farlo si mette in connessione con i propri avi, ci si siede con i propri ospiti e si preparano dolci manicaretti che rendono per un istante più bella la realtà. È come la poesia, la cucina. Fa più belle le cose. Questo non è un libro di viaggi, dunque, non un libro di cucina, cucina degli incontri, casuali, erranti, generosi. È una raccolta di poesie, dunque.” E come il libro, la Palestina stessa contiene quella struggente bellezza che fa parte di ogni poesia.