Giovedì, 06 Giugno 2013 00:00

Venire da lontano e non sapere dove andare

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Quale analisi per ripartire?

Il panorama della società italiana in cui i comunisti agiscono e che occorre analizzare vede: un partito-azienda e un partito-apparato governare assieme in un governo politico, dopo aver sostenuto un governo tecnico sceso in politica. Nulla di più catastrofico. L'unica opposizione parlamentare di rilievo è confinata ad un movimento con evidenti pulsioni personalistiche e di destra su temi nodali come la cittadinanza, e questo nonostante la sua “pancia” comprenda molti che fino a qualche tempo fa non avevano remore a definirsi “di sinistra”, ma che oggi cantano in coro la cantilena della “fine delle ideologie” (questo dovrebbe interrogarci sulla necessità di una politica ideologica nel post-ideologico trionfante).

Al netto del discorso politico grillino: quella fine delle ideologie tanto osannata non pare esserci. Anzi, pare esserci una decisa esigenza - divenuta improrogabile ai fini della vitalità di quelle forze politiche che non vogliano limitarsi alla sopravvivenza - al rinnovamento delle forme partitiche della politica, soprattutto di fronte all'implosione dell'ultimo partito che manteneva ancora le classiche parvenze di “partito”, ossia il PD.

Bisognerebbe a mio avviso cominciare da un'analisi marxiana dei rapporti tra economia e forme della politica. Proprio questo mi pare sia stato il tentativo di analisi fatto recentemente da Marco Revelli col suo “Finale di partito” (Einaudi, 2013). Inoltre, il tentativo di Cambiare si Può, seppur tra enormi difficoltà, mi è parso il più serio esperimento di unione della sinistra alternativa, nonostante alcuni contenuti siano andati inevitabilmente persi. Nel libro del politologo piemontese, l'analisi della fine del partito - protagonista indiscusso della vita democratica dell'ultimo mezzo secolo - è saldamente inserita all'interno dell'intreccio con il nuovo sistema produttivo capitalista post-fordista. D'altra parte, l'analisi del sistema produttivo capitalista e delle storture politiche che ne derivano è un fenomeno molto studiato dal politologo piemontese fin da “Le due destre. Le derive politiche del postfordismo”. Nell'ultimo lavoro Revelli coglie poi con lucidità tutte le deviazioni che comporta la post-democrazia e che ritroviamo puntualmente anche e soprattutto in Italia: “personalizzazione della politica”, “retorica maggioritaria”, “vocazione monopolistica dei gruppi di comando”, fino al profetico “trasferimento assiale di sovranità” dal Parlamento al Quirinale. Allora, in un contesto di “democrazia senza popolo” o di “popolo senza democrazia” l'Agorà che si ridesta viene rifiutata dal Parlamento, in un processo rigenerativo dell'elitismo democratico ottocentesco. La cittadinanza sembra allora cercare un nuovo luogo di rappresentanza e altri sbocchi, autorganizzandosi e autogovernandosi, come in Val di Susa, senza pretese sovversive, ma con la seria volontà di ricreare un altro ordine maggiormente inclusivo e meno verticistico.

La democrazia del televoto è così risultata particolarmente escludente proprio sul punto determinante della rappresentazione della realtà sociale. Un caso emblematico che riporto è quello del recente episodio valsusino avvenuto durante il passaggio del Giro d'Italia, quando le telecamere Rai che trasmettevano verso l'estero si sono improvvisamente spente al primo comparire sui lati delle strade delle bandiere “No Tav”. Il solito assioma è stato riproposto passivamente nelle menti degli spettatori: “non si vede, dunque non esiste”. Censura? “No, maltempo” rispondono i vertici Rai, ma nel frattempo all'estero nulla è stato percepito e tutto è sembrato normale. “No”, osano ribattere i cittadini che esistono in quei luoghi, nonostante tutto, tutto non è normale: “esistiamo anche se non siamo rappresentati”. Penso che oggi i comunisti debbano fare la medesima complicata operazione: affermare che, nonostante non vi siano più parlamenti, né tantomeno contenitori politici in grado di ospitarli unitariamente, essi esistono. Nonostante tutto, tutto non è normale senza di loro: la politica si rattrapisce in retorica e l'economia si sclerotizza.

E allora dalle lotte e dal radicamento territoriale dovremmo imparare il riconoscimento della complessa forza comunista che è una forza con un preciso compito storico da assolvere, insito nell'esistenza stessa delle classi, per cui se è vero, come ricordava Sartre che: “se la classe (operaia) vuole distaccarsi dal Partito, essa dispone solo di un mezzo: ridursi in polvere” è anche vero che è impossibilitata a ridursi in polvere, e questo lo sa bene chiunque non ha smesso di analizzare l'economia non da economista. Ciò naturalmente non significa che il partito debba esistere a prescindere, anzi, stiamo assistendo (non solo in Italia) proprio all'inverso: all'implosione della capacità organizzativa della classe subalterna, che esiste e aumenta le proprie schiere, spesso si autoriconosce e assume coscienza di sé, ma non trova un canale politico adeguato. E non trova un canale politico, a mio parere, per molti motivi, tutti riconducibili alla mancanza di un discorso comune in grado di portare chiarezza e quindi unità. Partire dall'unità è sbagliato, poiché l'unità comunista è il fine da raggiungere tramite un processo dialettico, va raggiunta e condivisa non eteroimposta. Sarebbe quindi doveroso non saltare il passaggio fondamentale del discorso, ossia l'unico in grado di miscelare le varie posizioni partendo non dai contenitori, ma dai contenuti. Quindi, l'obiettivo attualmente dovrebbe essere la creazione di un unico discorso che faccia chiarezza e che porti naturalmente e senza forzature all'unità dei comunisti. Solo così l'unità può risultare un processo non forzoso, o peggio che mai opportunista. Rimettersi in gioco singolarmente, nella consapevolezza che senza una forza collettiva non usciremo da questa situazione tragica dev'essere la formula in grado di unire tutti i comunisti di oggi. In questo senso l'iniziativa di “Ross@. Per la costruzione di un movimento politico anticapitalista e libertario” mi trova favorevole, proprio per quella spinta rinnovatrice che cerca di innescare, accantonando le divisioni e le scissioni partitiche.

Senza perdere il filo rosso del comunismo italiano

Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano! Senza dubbio! Il nostro obiettivo è la creazione nel nostro Paese di una società di liberi e di eguali, nella quale non ci sia sfruttamento da parte di uomini su altri uomini.

Così Togliatti chiudeva il suo discorso parlamentare del 26 settembre 1947 per la sfiducia al IV governo De Gasperi. Ritroviamo in questo monito elementi inarchiviabili ancora oggi: dal richiamo breve ed efficace alla tradizione internazionalista, ancorata alla realtà nazionale; ai concetti di libertà ed eguaglianza socialista assunti a perno su cui innestare la funzione di quel PCI che divenne la principale forza egemonica proletaria dell'occidente (e non solo). Oggi occorrerebbe ripartire avendo chiaro innanzitutto quella operazione rivolta a radicare il movimento comunista - represso dal fascismo in mezza Europa - nella società italiana.

L'elemento centrale ancora oggi - e qui il contributo del PCI e la sua eredità per l'intera società si fanno davvero pesanti - resta la Costituzione e l'impianto istituzionale repubblicano parlamentare ivi delineato. Tanto più in un momento in cui l'assalto istituzionale portato dai “saggi” alla Quagliariello è all'ordine del giorno. Tanto più che ci troviamo in un quadro di profonda crisi della democrazia. Non occorre certo ricordare che paghiamo ancora oggi il caro prezzo dell'assalto alla centralità del parlamento, al principio della rappresentatività e all'indispensabile lato “sociale” della Costituzione. Dunque, non possiamo certo dimenticarci che quella carta repubblicana non ha perso nulla della propria carica progressiva, anzi, in un tracollo tragicomico della cultura politica italiana, ne ha notevolmente acquistata.

La stessa opposizione al demone politico del berlusconismo negli ultimi anni è stata lasciata in mano ai grandi poteri economici giustamente riconosciuti dai comunisti quali responsabili di questa crisi. Come non dimenticarsi che i titoli più taglienti sull'ultimo governo Berlusconi erano accolti proprio dal Corriere della Sera, espressione massima dei poteri forti?

Come dimenticare gli editoriali del 2011 del Corriere che, con Berlusconi spacciato, lanciavano lodi a De Gasperi campione di lungimiranza politica, riportando la sua famosa massima: “un politico guarda alla prossima elezione, uno statista alla prossima generazione”; mentre oggi, nel post-elezioni, i medesimi cantori del degasperismo si perdono in un illeggibile panegirico al governo delle “larghe intese” che perde a sua volta mesi a decidere su come e quando rimandare l'IMU? Il tutto aggravato da uno sterile dibattito politico che proprio sui contenuti vive un'eterna “prossima elezione” degasperiana. Senza una forza politica costantemente presente “in basso”, oltreché “a sinistra” diventa impossibile l'organizzazione del largo dissenso presente in forme democratiche nella società, per portarlo contro il blocco di potere (Pd-Pdl) e contro i poteri economici - che come abbiamo visto lasciano la coerenza politica allo spread e agli indici di mercato.

La figura di Togliatti, a mio avviso, è poi centrale per riabilitare la legittimità dell'idea comunista in questo paese. Non a caso il Pd ha sempre fatto molta attenzione a ricoprire di revisionismo l'opera di Ercoli (vedi l'Unità, cliccando qui). Questo non significa affatto accogliere la figura di Togliatti in modo acritico, ma semplicemente restituire a Togliatti ciò che è di Togliatti, cioé: l'inconciliabilità con la tradizione politica conservatrice degasperiana, che è poi l'artificio del Pd, ovviamente ben accolto dai poteri economici.

La stessa cultura politica resistenziale è poi divenuta un elemento estremamente divisivo proprio negli ultimi anni, aprendo praterie all'attacco istituzionale in corso alla nostra Costituzione (prerogativa prima craxiana, poi berlusconiana e ora, pure delle “larghe intese”). Abbiamo “la Costituzione più bella del mondo”, ma ... è necessario cambiarla! Ci provò Forza Italia nel 2006, ma una pioggia di “No” referendari li fermò. Purtroppo, oggi i numeri per ritentare la “riforma presidenzialista" ci sono eccome, dunque se rilanciare una fase rivoluzionaria è vitale, occorrerebbe farlo mantenendosi all'interno dell'ambito costituzionale che proprio le forze di governo mirano a scardinare facendo di una legislatura di transizione una legislatura costituente.

Alex Marsaglia

Nato a Torino il 2 maggio 1989. Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla storica rivista del Partito Comunista Italiano “Rinascita” e appassionato di storia del marxismo. Idealmente vicino al marxismo eterodosso e al gramscianesimo.

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