Martedì, 01 Settembre 2015 00:00

Storie di uno Stato di mafia

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Storie di uno Stato di mafia

Il nostro è un paese sedato, un malato cronico schizofrenico tenuto tranquillo, pronto a esplodere a seconda di determinati momenti in brevi attacchi isterici senza troppe conseguenze. Non si capisce quali siano i reali sentimenti della popolazione, nel confuso ma abilmente orchestrato valzer di notizie: immigrazione, riforme presentate con un tecnicismo ignorato da gran parte degli italiani, guerra allo Stato Islamico, cronaca nera ecc. In questo confuso e ciclico teatrino, portato avanti da una stampa sempre meno indipendente, la notizia dei funerali del boss mafioso Vittorio Casamonica irrompe come un fulmine a ciel sereno nei telegiornali e nella stampa cartacea, oscurando allo stesso tempo la notizia dell’inizio del maxiprocesso per gli imputati dell’inchiesta “Mondo di Mezzo”.

Il mondo all’interno della politica capitolina che dura da decenni, come testimonia anche la storia del boss omaggiato dal suo clan come monarca della città. Un sottobosco criminale costruito attraverso infiltrazioni mafiose, collusione con la politica, minacce, rapimenti, gare d’appalto truccate per opere pubbliche. Una vera e propria istituzione parallela alle istituzioni dello Stato piegate alle volontà (o comprate) di questi criminali. Come si indovina dalla frase di Salvatori Buzzi, imputato nell’inchiesta e ex presidente della cooperativa “29 giugno”, figura legata al mondo delle cooperative rosse romane, che in una conversazione con Massimo Carminati (ex esponente del gruppo terrorista neofascista Nuclei armati rivoluzionari (Nar) ed ex affiliato alla banda della Magliana) dichiara: “I consiglieri comunali devono stare ai nostri ordini”. Carminati replica che i consiglieri comunali dovrebbero ubbidire perché sono a libro paga dell’organizzazione e aggiunge: “Dice, e se non rispetti gli accordi? Non rispetti gli accordi? Ma tu lo sai chi sono io? Ti ricordi da dove vengo?”.

Prove che confermano come questo sfacelo sia precedente al sindaco Marino, ingenuo ma onesto nemico del mondo degli interessi romani abbandonato dal suo Partito Democratico, che sembra incapace di guardare oltre alla repressione interna e alle polemiche di partito cercando in ogni modo di ottenere la testa del sindaco. Ennesima storia di una lunghissima serie di tante storie che in realtà compongono una saga drammatica, accompagnata dall’ipocrisia dello scandalo e delle proteste di breve durata. La mafia intesa come fenomeno di organizzazioni criminali che puntano al controllo del territorio e delle sue risorse è un fenomeno secolare nel nostro paese. Basti pensare alla situazione di certe regioni del Meridione d’Italia che, immediatamente dopo l’unità nazionale, furono abbandonate a sé stesse dal nuovo stato sabaudo diventato italiano solo nel nome.

Una mafia che già nei primi decenni del Novecento è emigrata, ha creato piccoli centri addirittura oltreoceano, come testimoniano le figure quasi leggendarie di certi gangster operanti in grandi metropoli statunitensi e immortalate nel capolavoro cinematografico della trilogia de “Il Padrino”, di Francis Ford Coppola. L’ascesa della mafia italiana non si è fermata nemmeno con l’avvento del fascismo, da cui non si è lasciata condizionare e anzi ne avrebbe accelerato la fine del regime grazie alla collaborazione di Charles “Lucky” Luciano, boss di origini siciliane che dall’America mise in contatto l’intelligence dell’esercito americano con clan mafiosi meridionali per una collaborazione in vista dello sbarco degli Alleati in Sicilia nel 1943. Da quel momento è iniziato un lungo e fruttuoso rapporto tra la Cia e le principali organizzazioni mafiose, che a partire dagli anni Cinquanta iniziarono ad allungare la loro rete anche nel resto della penisola. Una collaborazione dovuta al fatto che l’Italia doveva rimanere immune a infiltrazioni comuniste e che la vittoria del Partito Comunista Italiano alle elezioni politiche era assolutamente da evitare, per non destabilizzare la geopolitica del continente europeo occidentale sotto influenza statunitense.

Questo obbiettivo portò a una strategia di controllo portata avanti da esponenti della Democrazia Cristiana, partito di governo che ha instaurato un potere pluridecennale nel secondo dopoguerra, in collaborazione appunto con i servizi segreti americani e appunto la criminalità organizzata, che pur marginalmente contribuiva all’addestramento degli agenti e collaboratori nell’operazione Gladio e nelle strutture di controllo parallele allo Stato come la Rosa dei Venti e Ordine Nuovo. Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Bologna, il rapimento e l’omicidio Moro: capitoli di un unico grande mistero italiano documentato da testimonianze, documenti sfuggiti ai controlli, racconti dei diretti protagonisti e dalle inchieste numerosissime parlamentari e giudiziarie. Proprio la notte del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, il 9 maggio del 1978 venne assassinato Giuseppe “Peppino” Impastato, per le sue denunce contro i clan mafiosi siciliani, giornalista e storico esponente del Partito Comunista siciliano. Fu l’inizio di una lunga scia di sangue in Sicilia e non solo da parte di Cosa Nostra, oramai controllata dal boss Totò Riina, ‘u Curto, che con una sanguinosa guerra tra clan affiancato da Bernardo Provenzando, Gaspare Spatuzza e Matteo Messina Denaro, ‘u Succu storico capo della mafia di Trapani, assunse definitivamente il glorioso nominativo di “Capo dei capi”. Sotto le pallottole e le bombe di Cosa Nostra morirono illustri combattenti del crimine organizzato come il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano il 21 luglio 1979, il presidente della Regione Piersanti Mattarella il 6 gennaio 1980, il segretario del PCI siciliano Pio La Torre il 30 aprile 1982, reo di aver fatto approvare la legge sul reato di associazione mafiosa e confisca dei beni mafiosi quando era a capo della Commissione Antimafia; sempre a Palermo fu ucciso con la sua scorta in una strage Rocco Chinnici, magistrato siciliano che aveva formalizzato la legge sui pentiti. Sino all’omicidio più spettacolare e più complicato, per le sue implicazioni politiche, l’assassinio del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa il 3 settembre 1982, trasferito a Palermo per risolvere la questione mafiosa dopo che Giulio Andreotti aveva ottenuto il memoriale di Moro dopo il blitz organizzato da Dalla Chiesa nel covo delle Brigate Rosse. Nel suo diario personale, Dalla Chiesa racconta che ebbe un colloquio con Andreotti il 5 aprile 1982, poco tempo prima di insediarsi come Prefetto di Palermo, nel quale gli disse chiaramente che non avrebbe avuto riguardi per quella parte di elettorato mafioso, alla quale attingevano gli uomini della sua corrente in Sicilia. Andreotti però negò questa circostanza, sostenendo che Dalla Chiesa sicuramente lo confondeva con altre persone che incontrava in quel periodo. A una domanda sul perché non fosse presente ai funerali di Dalla Chiesa, la figura più controversa e protagonista dei segreti di quegli anni rispose: ”Ai funerali preferisco i battesimi”.

Arrivò poi l’anno 1992: la politica italiana venne travolta dall’inchiesta di Mani Pulite, che portò al patibolo il segretario del Psi Bettino Craxi e moltissimi esponenti della politica e dell’imprenditoria italiana. Il dualismo politico Dc-Pc che durava dal dopoguerra si infranse con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Proprio in quel periodo, la mafia tra l’estate del 1992 e quella del1993 organizzò una stagione di tensione segnata dalle bombe. A saltare in aria furono prima i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1993 vi furono le cosidette stragi del continente, le bombe di Milano, Firenze e Roma. Carlo Azelio Ciampi, allora presidente del Consiglio, la notte del 29 luglio delle bombe a Milano e Roma dichiarò in un’intervista rilasciata a “La Repubblica” (di Massimo Giannini, 29/5/2012): “Quella notte ho temuto il colpo di stato”. Come la stessa notte del sequestro Moro, i telefoni del Viminale non funzionavano. Il 27 gennaio 1994 un’autobomba sarebbe dovuta esplodere nei pressi dello Stadio Olimpico, in occasione della partita Roma-Udinese. Poi tutto tacque: alle elezioni di quell’anno uscì clamorosamente vittorioso Silvio Berlusconi con il suo partito Forza Italia, segnando una nuova stagione politica comunemente nota come Seconda Repubblica. Una fredda e forse banale cronologia che ha segnato un’epoca. Proprio in questi anni di tensione secondo le indagini del Tribunale di Palermo sarebbe iniziata quella che viene definita come la Trattativa tra le istituzioni dello Stato e Cosa Nostra.

Comunemente e ingenuamente tendiamo a separare come gruppi criminali diversi fenomeni criminali quali l’ndrangheta, la camorra, la Sacra Corona Unita ecc. Tutte queste organizzazioni criminali in realtà hanno un solo vertice, che non è sempre una figura come lo era prima dell’arresto Riina ma sono interessi comuni. I legami dell’ndrangheta con la mafia siciliana e la presunta sudditanza nei confronti di quest’ultima sono confermati dalla complicità dei calabresi nella strage di Borsellino, oltre al loro aiuto nei confronti di Marcello Dell’Utri per fondare quel “partito degli amici” che avrebbe sostituito la Dc nel panorama politico italiano. Purtroppo si nota come questa trattativa sia stata più una strategia nella quale le mani dello Stato sono evidenti. La moglie del giudice Borsellino ha depositato in tribunale una sua testimonianza nel quale racconta che due giorni prima di morire il magistrato pianse disperato nella loro camera da letto, affermando di essere stato tradito da un suo caro amico nei carabinieri. Se si riferisse al generale Subranni o al generale Mori, non è dato saperlo. Sappiamo che entrambi sono stati coinvolti nelle indagini sulla trattativa e che Borsellino aveva scoperto qualcosa nelle sue indagini sulla morte dell’amico Falcone, un segreto scritto in quella agenda andata perduta e raccolta da un misterioso personaggio che apparve in Via d’Amelio il giorno della strage, catturato per un momento dalle telecamere mentre raccoglie qualcosa dalla borsa logora del magistrato per poi allontanarsi. L’ombra dell’ennesimo coinvolgimento dell’Arma dei carabinieri e dei servizi segreti dello stato nei momenti cruciali della vita politica del nostro paese, dopo la rivelazione del Piano Solo e le testimonianze sui legami tra i servizi segreti e le organizzazioni di estrema destra coinvolte nella stagione delle stragi degli anni Settanta.

Lo stesso Riina, in un interrogatorio, nel 2007 per la prima volta parlò della presenza di un misterioso personaggio del Sid accompagnato dai calabresi alle riunioni in cui furono decise le sentenze per Falcone e Borsellino, accompagnato dal cugino Nino Gioè che era responsabile del dialogo con l’agente segreto, Gioè misteriosamente morì suicidandosi nel 1996 nel carcere di Full Sutton, proprio prima dell’interrogatorio con i pm antimafia. Non si sa cosa successe veramente: sappiamo dell’esistenza di una trattativa tra la mafia e le istituzioni dello stato, non sappiamo quali fossero gli obbiettivi, quali effettivi risultati furono raggiunti e chi veramente approfittò di questa vicenda. Sicuramente possiamo affermare che questa strategia di tensione segnò la fine della Dc come principale interlocutore della mafia per i propri interessi, che a suon di bombe e pallottole contribuiva al rovesciamento politico del paese alla ricerca di chi gli garantisse il proseguimento dei propri interessi, oltre al ruolo di “guardiano” parallelo allo Stato italiano, ruolo svolto con l’aiuto dei servizi segreti e delle organizzazioni di estrema destra nei decenni passati. Possiamo poi scorgere alcuni effetti: il regime di controllo nei confronti della mafia si attenuò dopo la clamorosa cattura nel 1996 di Totò Riina. Furono indeboliti i provvedimenti di controllo sui conti bancari e sul riciclaggio di denaro, il 41 bis piano piano venne rimosso ad alcuni dei principali boss nelle carceri di massima sicurezza, vi fu la chiusura del carcere di Pianosa e Forza Italia divenne il partito dominante sulla scena politica italiana, con le brevi parentesi del governo D’Alema nel 1996 e del governo Prodi. Cosa Nostra venne guidata da Giuseppe Provenzano sino alla sua cattura nel 2008, in seguito il ruolo di capo fu preso da Mattia Messina Denaro, considerato dai pm antimafia come interlocutore principale di Dell’Utri.

Sappiamo cosa succede oggi e cosa è successo negli ultimi anni. Giorgio Napolitano ex Presidente della Repubblica ha esercitato numerose pressioni e ammonimenti alla Procura di Palermo per il lavoro del Pubblico Ministero Di Matteo e del magistrato Antonio Ingroia sulla trattativa, dopo le confessioni del figlio del boss ed ex sindaco di Palermo Ciancimino. In particolare quando l’indagine coinvolse Nicola Mancino, amico dell’ex presidente e Ministro dell’Interno coinvolto nella trattativa. Un attacco da parte di Napolitano al lavoro di giudici che cercarono di riportare alla luce le vicende di quegli anni di sangue. Quel Napolitano conosciuto come l’unico membro del Pc a entrare e uscire dagli Stati Uniti senza visto e senza troppe domande, ufficialmente per i suoi incarichi accademici, quello stesso Napolitano coinvolto nel 1996 come Ministro degli Interni nella vicenda della misteriosa fuga di Licio Gelli, fautore della loggia di potere della P2 emersa dalle carte di Mani Pulite. Un imbarazzante e pericoloso conflitto tra il Colle e la Procura di Palermo, che portò Ingroia a lasciare la magistratura per entrare in politica, rovinando definitivamente il suo lavoro che cercava di portare disperatamente alla luce. Lavoro portato avanti da Nino Di Matteo, giudice sotto scorta per la condanna a morte emessa dal carcere da parte di Riina e abbandonato dallo Stato. Penso sia importante rivedere e portare alla luce questi eventi, andando oltre alla verità giudiziaria che spesso non coincide con la verità storica, sfida dello storico contemporaneo.

Il mondo in cui viviamo oggi è frutto delle bombe del 1992 e 1993, di quegli eventi che accompagnarono la transazione politica dopo la fine della Prima Repubblica. Le generazioni dei nostri padri e nonni, hanno affrontato i drammatici eventi delle stragi degli anni Settanta e gli anni del terrorismo politico con la sicurezza di avere alle spalle l’esperienza della restaurazione democratica dopo il fascismo, gli ideali della Costituzione che sarebbe dovuta divenire il punto di partenza principale della nuova Repubblica e la fiducia nei confronti di una classe politica che, con tutti i suoi difetti, sino agli anni dei segreti delle stragi ha mantenuto una sua caratura etica e morale invidiabile. Noi forse abbiamo già perso: gli eventi drammatici delle stragi “mafiose”, la collusione visibile della politica con il crimine organizzato, la corruzione emersa da Mani Pulite sono traumi difficili da digerire. E oggi non parlando di legalità, smettendo di parlare di mafia, considerandola solo un problema del Sud della nostra penisola, i nostri partiti politici stanno contribuendo a un recidivo ritorno degli effetti di quegli anni che ancora non si sono conclusi, come testimoniano i casi del Mose a Venezia, i numerosi appalti truccati in mano all’ndrangheta primo su tutti l’ombra sull’Expo di Milano, le vicende recenti di Mafia Capitale di cui ci raccontano solo la superficie. Il Partito Democratico, dichiaratamente erede del Pc e candidatosi alla guida della sinistra italiana, dovrebbe ricordarsi maggiormente di Pio La Torre e Peppino Impastato e smettere di continuare questo silenzio sui temi di legalità e giustizia, dovuti a incresciosi legami politici di convenienza con partiti colpevoli di quegli anni ed eredi degli interessi si quegli anni. Un Partito Democratico che addirittura vorrebbe modificare l’assetto costituzionale del paese con questo Parlamento pieno di nomi e personaggi coinvolti in queste oscure e segrete vicende. Ci vorrebbero misure solide e drastiche, forse drammatiche come militarizzare i territori o commissariare comuni su comuni, veramente un pugno pesante contro la criminalità organizzata che in silenzio continua a prosperare nella nostra penisola. E anche contro quella parte politica che continua a dialogarci. Portare alla luce del sole i segreti degli anni delle stragi del 1992 e quelle successive aiuterebbe la comprensione, punto di partenza per poter guarire e non lasciare inascoltato quel grido della folla presente al funerale di Borsellino: “Fuori la mafia dallo stato”. Forse tra i tanti nostri problemi politici e tecnici, questo è il problema peggiore. Anche per interrompere questo susseguirsi di strutture parallele e di controllo, che in realtà non sono che meri gruppi di potere, che stanno stritolando il paese. Meglio il crepitio delle esplosioni delle bombe che questo silenzio complice.

Ultima modifica il Lunedì, 31 Agosto 2015 11:43
Marco Saccardi

Nato a Bagno a Ripoli (FI) il 13 settembre 1990, sono uno studente laureato alla triennale di Storia Contemporanea presso l’Università di Firenze, adesso laureando alla magistrale di Scienze Storiche. Appassionato di Politica, amante della Storia, sono “fuggito” dal PD dopo anni di militanza e sono alla ricerca di una collocazione politica, nel vuoto della sinistra italiana. Malato di Fiorentina e di calcio, quando gioca la viola non sono reperibile. Inoltre mi ritengo particolarmente nerd, divoratore di libri, film e serie tv.

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