Lunedì, 20 Maggio 2013 00:00

Scuola: INVALSI ai tempi dell'analfabetismo

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Uno studioso dell'organizzazione, Karl Weick, definiva la scuola nei termini di un campo di calcio privo di regolarità formale. Un posto dove insistono vari modelli organizzativi e professionali indipendenti e deconnessi tutti tesi al soddisfacimento di un bisogno culturale - sia esso primario, formativo o specializzante.

Uno sciopero di tre giorni indetto dai sindacati di base riporta in campo la questione valutazione nell'insegnamento: tempo di test INVALSI, dell'odiosa Prova Nazionale, una cosa che suona male in qualunque modo la si legga.
Se vogliamo osservarla come un valutatore di efficienza, qualcuno fra i promotori dovrebbe spiegare come, scientificamente parlando, può valutare dati quantitativi inferendo conclusioni su un sistema che, in buona parte è qualitativo. Se, invece, il suo ruolo va inserito nel cammino dell'integrazione europea come tappa volta alla conoscenza di un sistema, resta il fondato sospetto di conformismo burocratico in riga con quello che è successo per l'integrazione monetaria, qui colorato lugubremente da invadenze nella sfera privata e familiare degli alunni o dai tempi predefiniti nelle risposte. Se, infine, si vuole centralizzare il sistema di verifica del lavoro, allora si configura chiaramente come uno sfregio alla residua democrazia professionale e scolastica: in un lavoro, qualsiasi esso sia, la verifica della funzionalità dell'organizzazione dello stesso serve al miglioramento in uscita dei prodotti.

Ma nella scuola non si produce niente, organizzazione e verifica assumono il valore civico della rimozione degli ostacoli sociali, laddove esistano, e di promozione sociale in quelle realtà dove essa è ancora incongrua.
Infatti, dopo lo schiaffo agli organi collegiali, i quali hanno tutti gli strumenti per valutare il lavoro svolto dalla comunità educante e la coerenza ai progetti educativi d'istituto e nazionali, arriva questa adesione massiva - e spesso non condivisa, se proprio neppure discussa - ad un sistema di valutazione il cui primato metodologico si sostituisce a quello dell'essere umano e dei suoi bisogni sociali ed affettivi forse ritenuto meno scientifico, meno oggettivo. Come se le storie e i vissuti dei singoli alunni non fossero oggetti del discorso pedagogico.

Anche la genesi della sua introduzione ha il gusto di un pugno allo stomaco: attuato come sistema con la legge 176 del 2007, si configura come figlio degenere del centrosinistra e della visione autonomista della scuola, e ne rappresenta, per alcuni versi, la naturale conclusione. Anche perché la nuova organizzazione scolastica, per poter essere utilizzabile in funzione di integrazione europea (e di riduzione delle spese – già minime a quel tempo), necessitava di un forte coordinamento centrale, immaginato allora come svincolato dalla politica.
Ma in un momento come questo, di primato della finanza e – per contro - tragica assenza delle politiche di welfare, le crocette messe nei quiz INVALSI potranno mai essere giuste? Potranno esse rilevare dalle grida di dolore delle periferie delle nostre metropoli mediterranee le ragioni dell'analfabetismo di ritorno o della deprivazione culturale?
Chiudere gli occhi può essere comodo, e fingere in tal modo di avere ancora una delle migliori scuole pubbliche al mondo. Ma invece dei quiz, a questo punto, ministri e commissari europei dovrebbero farsi un giro nelle scuole fatiscenti di tutto lo stivale - magari a Scampia, a Barra, o nello Z.E.N. - e restare qualche minuto nelle classi pollaio, cercare di farvi lezione o di seguirne una e, qualora si reggessero ancora in piedi, guardare attraverso la finestra i mostruosi miraggi dei quartieri ormai deserti di servizi e socialità per sentire se sono ancora umani - se in loro qualcosa riesce ancora ad indignarsi.

Quando ero piccolo andava in onda spesso la replica di un vecchio sceneggiato RAI. Si chiamava Diario di un maestro e il soggetto era un maestro elementare originario del napoletano di nome Bruno D'Angelo, trasferitosi per servizio nella periferia romana. Qui il giovane insegnante cerca, con approccio interpretativo e sociologico, di affrontare il problema del mancato rispetto dell'obbligo scolastico incontrando ostacoli opposti da alcuni colleghi e del direttore, legati spesso alla tradizionale burocrazia didattica imperante in quei tempi (siamo nei primi anni settanta – un attimo prima dell'avvio dei Decreti Delegati).
E' il racconto di un'esperienza pedagogica milaniana, a cui ho spesso ripensato nella mia vita lavorativa di educatore. Una domanda mi assilla da qualche tempo: cosa rileverebbero gli attuali strumenti di valutazione in questa scuola nuovamente burocratica davanti a un'opera del genere? I ragazzi dei quartieri dormitorio forse non conosceranno le poesie a memoria, ma se vanno a scuola sono meritevoli o no?
Forse è il caso di mandare in soffitta gli arnesi dell'autonomia scolastica, e ammettere che essa, con pochissime eccezioni, ha rappresentato un grosso passo indietro, aziendalizzando pratiche educative e gestionali. Forse è il momento di riportare la politica educativa e, con essa, l'intera politica culturale del Paese fra le possibilità democratiche di crescita civica.

Immagine tratta da: www.noisiamolascuolapubblica.wordpress.com

Ultima modifica il Lunedì, 20 Maggio 2013 00:35
Antonio D'Auria

Sono nato a Castellammare di Stabia, cuore operaio nel Golfo di Napoli, nel 1979. Sono educatore al Convitto Nazionale di Prato e militante in Rifondazione Comunista. Di formazione sociologica, il mio interesse è per il mondo della scuola, con particolare riguardo alle politiche culturali e alle implicazioni sociali.

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