Il 2012/13 verrà ricordato come un anno importante, di passaggi e novità. Un anno che si è aperto con la maturazione del disegno di legge Aprea (e delle convergenze con la Pd Ghizzoni), delle sortite di rinnovamento della pubblica amministrazione targate Patroni Griffi – di cui personalmente credo non rimarrà alcuna traccia – e delle provocazioni sull'orario di servizio dei docenti da parte dello staff del ministro Profumo, lanciate qualche ora prima di una giornata di sciopero e che avrebbero ridotto le minime speranze dei docenti precari di conquistare l'agognata immissione in ruolo.
Anche perchè va considerato il fatto che, prima della catastrofe gelminian-tremontiana, molte sofferenze erano state inflitte da governi di varia natura, e poche erano state le eccezioni – mai andate al di là delle intenzioni – sul terreno del contrasto al precariato scolastico (chi ricorda il piano pluriennale da 150000 immissioni in ruolo del Governo Prodi II?). Precariato che non ha trovato sinora soluzioni serie, ondeggiando fra lo smembramento del vecchio sistema di graduatorie (cominciato, ad onor del vero, da Fioroni) e una riforma del reclutamento mai compiuta ma che, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbe innalzare il livello di formazione iniziale dei docenti anche se, nei fatti, ha ad oggi contribuito ad aumentare solo la frustrazione di quelli a tempo determinato insieme all'angoscia su un futuro sempre più incerto da spendere nell'ormai eterna guerra tra poveri fra inseriti storici nelle graduatorie e neoaspiranti, concorsisti o tirocinanti.
E come non citare un triste capitolo come quello sugli scatti di anzianità, su cui i sindacati maggiori (CGIL a parte) sono scivolati per garantire la progressione di carriera del personale di ruolo,togliendo dalla tasca sinistra per mettere in quella destra.
Oltre a generare contrattazioni “a perdere” in tanti istituti e costretto intere schiere di docenti e ATA a lavorare senza nomine sui progetti e su tutte quelle indennità contrattuali pagate coi suddetti fondi, questo accordo - il cui iter si è concluso solo a fine marzo – ha dato un brutto colpo all'autonomia scolastica della quale, a questo punto, resterà solo l'impianto managerialista della figura del dirigente, variamente scolpita da riforme neolaburiste e neoconservatrici all'insegna delle teorie del New Public Management all'italiana.
Ed è stato pure l'anno elezioni politiche: una disfatta per la sinistra di alternativa – che resta ancora fuori dal parlamento – e, sicuramente, una non vittoria per quella sinistra che meditava di corrompere proprio l'impianto culturale del bipolarismo spingendo sulle sue proposte la socialdemocrazia – ancorchè residuale – del Partito Democratico.
Finora, però, il ritorno alla politica per la pubblica istruzione non ha fatto sentire i suoi effetti e la continuità col governo tecnico è evidente: nessuna marcia indietro sui test INVALSI – ora addirittura divenuti, con grossi dubbi di legittimità, routine in molte scuole - e valutazione; immissioni in ruolo col contagocce e interi settori dell'istruzione senza programmazione e senza finanziamenti.
E quali sono i compiti per le vacanze, per chi lavora nella scuola con passione e militanza davanti a questo silenzio colpevole, se non addirittura asservito, della politica ai dettami delle corporazioni produttive nazionali ed europee per i settori educativi e formativi?
Certo, la direzione da prendere è diametralmente opposta rispetto a quella fin qui seguita.
Come sinistra occorre riagganciare le scuole ai territori in una costante interfaccia con i saperi e in un quadro di efficiente programmazione pubblica non più dirigista, ma popolare e partecipativa. Una programmazione di un bene comune, una nuova impostazione welfarista.
Occorre abbattere il muro dell'aziendalizzazione, rigettando il tentativo anticostituzionale di privatizzazione del diritto allo studio, materializzato in voucher ed esternalizzazione di servizi educativi e respingendo ogni tentativo di superamento della collegialità rinnovando un'impostazione welfarista di programmazione sui beni comuni.
Solo così ci si potrà opporre all'ingresso del sistema scuola fra gli ambiti regolati da logiche di mercato, le quali non ci restituirebbero istituti moderni ed efficienti, ma solo ghetti classisti e percorsi chiusi e stagnanti. Esse non avvicinerebbero la scuola all'utenza, ma riporterebbero indietro le lancette dell'orologio verso quell'opposizione, tutta ideologica e inattuale, fra cittadinanza e libertà che in altri momenti storici ha partorito solo mostri.