Sabato, 31 Agosto 2013 00:00

Un nuovo anno scolastico alle porte: quale campanella?

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In un'ipotesi socialista, lo Stato dovrebbe occuparsi dei bisogni dei cittadini lungo tutto l'arco della vita, mentre nelle migliori tradizioni socialdemocratiche e liberali europee, esso – parecchio più magro – si accontenterebbe di non lasciare da soli i cittadini nelle difficili condizioni delle crisi cicliche di un'economia di mercato.

Lo stato in cui si trova il nostro Paese, però, non corrisponde ad alcun modello: abdicata ogni funzione di mobilità sociale e programmazione sembra volersi liberare di ogni garanzia, nella speranza che senza regole tutto viaggi meglio e si adegui alla naturalezza delle cose.

Invero non funziona così, e gli ascensori sociali sono ormai bloccati da tempo o, cosa anche peggiore, affidati allo spontaneismo e all'intraprendenza di qualche privato. Anni di asservimento alle politiche di libero mercato hanno appoggiato i servizi pubblici ad una sussidiarietà tutta italiana, dove spesso lo Stato delega ai poteri locali lasciandoli però senza soldi. Da manuale, le varie imposte “accise” che ogni tanto le regioni varano per coprire buchi, come pure le tante manovre dissennate sui lavoratori degli enti locali nel tentativo di ridurre l'inefficienza - pur in assenza di sistemi oggettivi di valutazione -, per non parlare delle questioni di rinnovo contrattuale e degli scatti di anzianità su cui lo Stato è penosamente assente.

Eppure l'inadempienza delle istituzioni è tanto più drammatica nelle politiche educative, ossia quei servizi di conoscenza che comprendono scuola e formazione, ma anche istruzione prescolare, supporto e orientamento nelle situazioni di difficoltà e via discorrendo.

Mai organizzate sul serio, sulla loro latitanza sovente si sono costruiti mercati come quelli del “diploma facile”, di cui è piena la cronaca, e che incorporano una selva di precariato intellettuale non indifferente nel nome della parità scolastica e della libertà d'insegnamento.

E non si può eludere, poi, lo stato di caos del sistema degli asili nido in Italia - una selva di contratti collettivi, appalti e servizi comunali - dal quale dovrebbe passare buona parte di quello che gli analisti economici chiamano “rilancio occupazionale”, gravando la funzione educativa per la prima infanzia soprattutto sulle famiglie e sulle donne in particolare, in una scelte sempre più complessa fra affetti e lavoro.

Ma siamo quasi al suono della prima campanella. Una scuola il cui diritto alla fruizione è sempre più difficile aspetta allievi, insegnanti e vario personale ausiliario. La scuola del dimensionamento compiuto è tracciata su complessi di comuni molto estesi privi di scuole secondarie di secondo grado e con una presenza assolutamente più rada di scuole primarie e secondarie di primo grado.

Sempre più spesso gli allievi sono costretti a trasferte mattutine assai gravose con un trasporto pubblico locale decisamente inconsistente. Le ricadute sulla geografia umana sono evidenti:la penuria scolastica pubblica corrisponde ad una socialità integrativa negata, e i piccoli comuni si svuotano di vita per diventare dormitori, se non ghetti. Quanto alla sorte degli allievi, difficile capire se la scuola, ridotta nelle ore di formazione umanistica e ancora senza programmi esaustivi rispetto al mondo del lavoro e, ancora, con una politica interculturale appena abbozzata sia vissuta come una risorsa o una iattura, specie se occorre fare sessanta chilometri di autobus ogni mattina e magari sotto casa c'è un laboratorio in cui si può imparare un mestiere.

E c'è da dire che, rispetto al passato, questa selezione occulta operata su ipocrite basi meritocratiche, che in realtà hanno il sapore di un disagio sociale mai seriamente affrontato, ha toccato livelli davvero impensabili. Se ne sono accorti i lavoratori dei convitti, un piccolo settore del sistema scolastico ministeriale che, in strutture verticali, hanno garantito nel tempo il diritto allo studio a fasce disagiate di utenza come quella di certe regioni degli impervi Appennini, in cui la rarità di scuole è un problema da sempre. In questo settore, dopo i tagli del 2009, i dimensionamenti hanno azzerato anche le fatiche dell'orientamento in entrata, vanificate da una norma che blocca la crescita degli organici reprimendo ogni creatività e mortificando professionalità acquisite e consolidate, mentre fioccano esternalizzazioni e precariato.

Inutile allora sventolare vessilli come quello del lifelong learning, o dell'intercultura se si vogliono lasciare scuole o, peggio ancora, istituti educativi senza le risorse per attivare le progettualità necessarie. Occorre che le istituzioni attuino il loro potere di pianificazione dei bisogni educativi distinguendo quelli nazionali da quelli locali e di singola scuola, fornendo le risorse relative ai materiali e al personale. Queste sono preponderanti quando si tratta di funzioni educative, fatto che banalmente svela i motivi della spesa per gli stipendi degli insegnanti su cui qualche ministro col pallottoliere ha costruito le sue fortune politiche, fortunatamente alterne. Solo una rete educativa fitta e continua, retta da una forte e partecipata regia pubblica può ricondurre i problemi e le esigenze delle persone in un discorso unitario e sociale.

Perché le ingiustizie non potranno mai finire da sole, e quegli ostacoli di ordine economico e sociale di cui parla il terzo articolo della Carta permangono dopo sessantacinque anni, nella nostra.

Immagine tratta da: www.studenti.it

Ultima modifica il Venerdì, 30 Agosto 2013 18:20
Antonio D'Auria

Sono nato a Castellammare di Stabia, cuore operaio nel Golfo di Napoli, nel 1979. Sono educatore al Convitto Nazionale di Prato e militante in Rifondazione Comunista. Di formazione sociologica, il mio interesse è per il mondo della scuola, con particolare riguardo alle politiche culturali e alle implicazioni sociali.

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