L'8 aprile del 1971, in occasione del primo congresso mondiale del popolo rom tenutosi a Londra, venne adottata la bandiera ufficiale e Djelem Djelem divenne l'inno di uno dei popolo più discriminati della storia. Dal 1979 l'ONU riconosce questa giornata come la festa internazionale dei rom e dei sinti.
L'8 aprile di quest'anno anche a Firenze si è colta l'occasione per portare avanti una riflessione pubblica su una tematica troppo spesso ignorata o affrontata in modo sbagliato (quando non nocivo).
Come accennavamo, il popolo dei rom e dei sinti è stato tra i più perseguitati e discriminati della storia: la persecuzione da parte dei nazisti di rom e sinti, il Porrajomos, ha causato la morte di oltre 500.000 persone. E ancora oggi la situazione resta difficile: in Europa ci sono circa 12 milioni di rom, di cui tra i 170.000 e i 180.000 sono in Italia. Come ci spiega Adem, molti di loro sono di origine kosovara e sono stati costretti a lasciare il loro paese con lo scoppio della guerra. Nonostante gran parte dei rom in Italia non abbiano uno stile di vita nomade, ancora oggi ci si approccia alla questione come se questa fosse un'emergenza. Quella che è un po' la caratteristica della gestione dell'immigrazione in Italia caratterizza anche il modo di avvicinarsi ai problemi vissuti dalla minoranza rom: questo modo di affrontare la questione rende più difficile la risoluzione di una situazione che così viene trasformata in emergenze, contornandosi di un alone di “particolarità” che allontana ogni possibilità di integrazione.
Come ci ha spiegato infatti Sergio Bontempelli, presidente dell'Associazione Africa insieme e che da anni si occupa di diritti dei migranti, in Italia solo il 3% della popolazione rom è nomade. Nonostante questo, gran parte di loro ancora vivono in campi dove le condizioni di vita sono allucinanti (significativo il fatto che oltre il 60% dei residenti nei villaggi sia nato in Italia). L'aver relegato la popolazione rom e sinti in campi separati dal resto della città, coprendosi dietro il finto spauracchio di un nomadismo che appartiene al passato, non ha fatto altro che accentuare solchi e creare così una "questione rom" che in realtà non sussisterebbe, se non all'interno della più ampia questione immigratoria italiana. Il continuare a mantenere i campi non solo ha effetti deleteri su ogni politica di integrazione ma ha anche delle spese non indifferenti: per mantenere una famiglia in un campo costa una cosa come 2500 euro al mese. Questi soldi non vengono destinati alle persone in difficoltà ma se ne vanno tra spese di vigilanza (spesso appaltata a privati), in servizi di scuola bus speciali e di educazione speciali. Oltre ad essere una spesa consistente per le amministrazioni pubbliche, questo modo di fare avvalla l'idea che il popolo rom abbia bisogno di un “trattamento eccezionale”. Destinando quei soldi all'elaborazione di una seria politica abitativa avremmo invece risultati molti più soddisfacenti: non solo sottrarremmo molte persone a condizioni di vita che non sono rispettose dei più elementari diritti umani ma favoriremmo anche l'integrazione a livello sociale e nel tessuto urbano di queste persone.
Per quanto la creazione di un “caso rom e sinti” non giovi di certo alla causa di chi si batte per i diritti di queste persone, va riconosciuto che spesso la condizione è tutt'altro che facile. Come ci ha spiegato Silvia Petrini di Altro Diritti, spesso la condizione legale di queste persone è molto complicata: molti dei rom che vivono qui sono giunti in Italia in seguito allo sgretolamento della Jugoslavia, ritrovandosi così senza cittadinanza. Se da una parte il riconoscimento della condizione di apolidia è lungo e costoso, dall'altra conosciamo tutti molto bene i limiti che la legge italiana pone all'acquisizione della cittadinanza.
Sul piano legislativo restano quindi molti nodi da sciogliere e molti passi avanti da fare ma su quello culturale qualcosa si sta smuovendo. Come ha ricordato Luca Bravi, ricercatore dell'Università di Chieti, oramai da anni è in atto un processo finalizzato alla conoscenza della storia e della cultura rom e sinti. Una cultura e una storia che vengono tramandate con precisione e abbondanza di dettagli e che costituiscono un immane patrimonio culturale. Sono in corso molto progetti, a livello europeo ed italiano (come il primo Museo virtuale della storia dei rom e dei sinti) che diffondono e difendono una cultura centenaria: non solo facendo conoscere anche ai più sbadati i drammatici numeri delle persecuzioni subite da questi popoli nel corso della storia ma anche aiutando a raccontare un mondo che ha le sue radici in un tempo molto lontano.
Come Luca Bravi ha ricordato, Firenze nel 2002 è stata la prima città a riconoscere, grazie anche all'impegno dell'allora assessore Marzia Monciatti, la giornata dell'8 aprile e ad impegnarsi attivamente per la difesa della memoria e della cultura dei rom. A Firenze in quegli anni si viveva un clima diverso: era l'epoca del social forum, quando qui si respirava un'aria che sapeva effettivamente di difesa di diritti che in molti ci invidiavano. Firenze in passato è riuscita a distinguersi e a costituire, nel suo piccolo, un'avanguardia: adesso i tempi sono maturi. Sono maturi per passare ad un'azione che non solo investa il piano culturale (senza dubbio fondamentale) ma che riguardi anche il miglioramento effettivo delle condizioni di vita di queste persone.
Firenze è chiamata a rispondere della sua fama. Vediamo di non deluderci.