Per oltre tre ore, nella suggestiva cornice del centro di Pisa, un pubblico composto perlopiù da studenti universitari ha seguito attentamente gli interventi dei tre relatori (Crescenzi infatti non ha potuto purtroppo partecipare per motivi di salute). Il primo a parlare è stato Marco Battaglia, docente di Filologia germanica. Nella sua mezz'ora di intervento Battaglia spiega di come l'appropriazione politica di un passato mitologico “venga da lontano”, addirittura con i regni romano-barbarici proclamatisi eredi dell'Impero Romano, e specificamente di come movimenti e singoli personaggi svariati e politicamente trasversali – dalla resistenza anti-nazista danese, a Winston Churchill in un suo famoso discorso alla camera dei comuni, ai neonazisti di avanguardia nazionale – abbiano predato i miti nordici e germanici; e di come questa riscoperta della mitologia nordica e del medioevo abbia origini sostanzialmente romantiche.
Il docente inoltre si avventura brevemente in campo antropologico, parlando di quanto i popoli germanici in realtà fossero vari, risultando uniformi praticamente solo agli occhi dei nemici di sempre, i romani. Lo studioso evidenzia inoltre come non tanto la filologia ma una certa archeologia impostata su una metodologia dubbiamente scientifica d'inizio XX secolo abbia condotto alle teorie “ariane”, contrariamente a quanto sostenuto da Tolkien. Rappresenta la parte più corposa l'illustrazione di come Tacito nel suo “Germania” abbia operato una sostanziale mistificazione a fini politici degli usi e costumi delle etnie germaniche, inserendovi elementi antropologico-culturali come il seguito di guerrieri coeso intorno al capo o la sacralizzazione dei luoghi assembleari e di decisione politica oltre alla nozione della purezza etnica – pur in un'accezione negativa: le terre dei germani secondo Tacito sarebbero state così inospitali da scoraggiare qualunque migrazione di altri popoli – falsi o quantomeno esagerati, che poi verranno riproposti ad esempio dalla ritualità nazista.
Battaglia conclude l'intervento citando due narrazioni, vale a dire la battaglia di Maldon nel Regno Unito, in cui un poema probabilmente di posteriore origine monastica narra di come Byrhtnoth trovandosi a dover combattere gli invasori norreni abbia preferito affrontarli in campo aperto cedendo loro il vantaggio territoriale, e di come i sottoposti al nobile anglosassone preferiscano morire a fianco del capo piuttosto che sopravvivergli, di cui Tolkien scriverà un graffiante seguito incentrato sulle vicende di due “becchini” giunti sul campo di battaglia; e la leggenda dei re burgundi cristallizzatasi nella leggenda dei nibelunghi, opere letterarie che hanno fornito, grazie a una rilettura filologicamente scorretta e ideologicamente impostata, materiale per la propaganda nazionalista nei secoli a venire.
Dopo Battaglia prende la parola Banti, che nel suo contributo delinea efficacemente la morfologia comune ai nazionalismi – di destra e di sinistra, reazionari e rivoluzionari – europei del XX e del XXI secolo, cui i testi hanno fatto da anima. I nazionalismi a detta di Banti presentano assieme tre assi di caratteristiche, sempre tutte assieme presenti, cristallizabili nelle rappresentazioni della nazione. Un primo esempio è la nazione famiglia, in cui un territorio racchiude un insieme di persone accomunate da una parentela e che per legittimarsi ha bisogno – come i regnanti e i nobili – di una genealogia mitica, perlopiù inventata. Da qui entrano nel lessico con accezione politica parole come razza, sangue, stirpe.
Un secondo asse portante di qualunque narrazione nazionalistica è la concezione della nazione come comunità sessuata, in cui una rigida distinzione dei ruoli tra i sessi è strumentale a narrazioni in cui pochi elementi, come l'ossessiva insistenza sullo stupro dell'eroina nazionale da parte dello straniero o il disturbo arrecato dal nemico alla pace familiare e sessuale, si amalgamano in un tutt'uno in cui la donna è preziosa in quanto madre e nutrice della nazione, e in cui non c'è posto per coloro che sono “razzialmente” impuri, meticci. Terza colonna portante individuata dal docente è l'idea della nazione come comunità sacrificale, con un culto dei singoli grandi morti prima e delle moltitudini di caduti dopo che preda un evidente pezzo di mito cristiano.
Ultimo ad intervenire, infine, Wu Ming 4, che incentra il suo discorso su Tolkien e la storia della sua “filologia creativa”. Lo scrittore inglese non era assolutamente convinto dell'esistenza dell'etnia come di un qualcosa di coerente, credeva invece in una forma di comunità linguistica, in divenire come è in divenire la lingua. Nella famosa lezione sul Beowulf, Tolkien pare cercare di riportare al centro la creatività dello scrittore antico, contro la svalutazione operata da parte un approccio “vivisezionatorio” e superficialmente storicistico. Tolkien vide inoltre come il sostrato del mito nordico avesse avuto il potere di rigenerarsi e al tempo stesso degenerare in culto dell'eroismo marziale fine a se stesso; oscurando lo stesso senso dei testi originali, in cui spesso e volentieri si vede come l'eroismo sia in realtà orgoglio o desiderio di gloria, elemento di critica questo che Tolkien utilizzerà spessissimo nello scrivere i suoi “miti moderni”.
La giornata è conclusa con un breve dibattito. Per un giorno uno di quegli spazi universitari troppo spesso preda delle logiche dell'università-azienda è tornato ad essere animato da un vivace dibattito culturale, segno di una inestinta curiosità e voglia di approfondimento.