Articolo di Simone Vertucci
Un tentativo di analisi socio-politica della vicenda “libreria Edison”
Sono 3 i valori che hanno sostenuto e caratterizzato le rivendicazioni dei lavoratori ex-Edison:
Tutti noi, ormai ex-lavoratori ed ex-librai, sentiamo oggi il bisogno di metterli a fuoco teoricamente per riuscire a comprenderne meglio prospettive e potenzialità servendoci degli strumenti teorici della concezione marxista in cui questi 3 concetti sono stati a lungo declinati e dibattuti.
Cominciamo con “lavoro” e “tempo” indissolubilmente legati già nelle pagine del “Capitale” di Marx: accanto alle varie accezioni utilizzate per connotare il lavoro, infatti, Marx definisce il tempo sempre e soltanto “tempo di lavoro” la cui quantità e/o qualità incide sulla “positività sociale” del soggetto lavoratore. L’idea di “lavoro” che la nostra lotta vorrebbe diffondere è quella di un’ attività completamente umana, capace di coesistere e relazionarsi produttivamente con le altre attività e gli altri tempi delle persone.
Questo tipo di convinzione si è costruito in noi strada facendo, per gradi, a partire cioè dalle rivendicazioni di un gruppo di lavoratori estromessi ed aggrediti dal grande capitale. Questo tipo di aggressione veicola un disegno ideologico ben preciso: fare del lavoro subordinato l’unico valore della società moderna riducendo al massimo i tempi di qualsiasi altra attività attraverso la chiusura degli “spazi” e dei luoghi di questi tempi. L’identificazione del “tempo di lavoro” con il “tempo della vita” deve essere totale: è un attacco che parte da lontano, dalla struttura gerarchica dei luoghi di lavoro, dal principio di subordinazione, dai parametri di controllo della prestazione lavorativa, dal “totalitarismo” dell’azienda- famiglia che prevede che sia il lavoratore a concedersi volontariamente a queste logiche, non essendo rimasti altri spazi e tempi intorno a sé che quelli del lavoro.
Già Marx nel 1844 metteva in guardia contro queste derive del lavoro salariato e subordinato regolato disciplinarmente:
“L’operaio solo fuori dal lavoro si sente presso di sé; e nel lavoro si sente fuori di sé. E’ a casa propria se non lavora, e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma è soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei.” (Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844)
Così concepito il lavoro subordinato non può che diventare la categoria principale dello “spirito del capitalismo”, uno spirito povero che produce povertà materiale ed emarginazione sociale e su questo fonda il suo dominio incontrastato. Uno spirito diventato ormai sinonimo di modernità (anzi di “modernizzazione”) capace di far ricadere sulla solitudine del singolo (il disoccupato, l’emarginato, l’escluso) i costi dei suoi fallimenti (inevitabili se, come dicono gli studiosi tedeschi del Gruppo Krisis, “chi ha appeso il cervello nell’armadio può nel frattempo sognare l’ascesa a imprenditore miliardario”), punendolo e colpevolizzandolo per non essere stato capace di reggere la concorrenza del mercato.
Il tempo illimitato che oggi il disoccupato o il cassintegrato hanno davanti a sé è un tempo che deve essere trascorso nell’espiazione della propria esclusione, della propria sconfitta personale: togliendo sempre più spazio ai “luoghi del tempo della vita”, alle librerie, alle biblioteche, agli spazi pubblici, sul tempo che resta il singolo escluso non investe più, rinchiuso com’ è in una sorta di condizione permanente frutto della sua incapacità di adeguarsi ai tempi che cambiano. In questo modo egli sarà più docile e asservibile (nonché riconoscente) nel caso di un futuro re-ingresso nel mercato del lavoro.
La strategia di attacco sociale è, dunque duplice: da un lato si cerca di abbassare le tutele e i diritti di chi lavora svuotando il tempo di lavoro dei suoi elementi di “dignità”; dall’altro si riducono al massimo gli spazi e i luoghi del “tempo di vita” lasciando passare l’idea che l’unico tempo suscettibile di un investimento vitale è quel tempo di lavoro sempre più dilatato e impoverito.
Se nel perseguire questa strategia si creano ulteriori sacche di disoccupazione ed esclusione, il capitalismo non ha fatto altro che attenersi coerentemente alla sua filosofia d’indirizzo.
Non si spiega altrimenti la veemenza dell’attacco che i lavoratori ex-Edison hanno subito e che ha portato alla chiusura della libreria: aggiramento delle leggi, speculazione immobiliare, mortificazione dell’idea di società sostenibile. Tutto questo in nome del “lavoro subordinato come unico valore della modernità”, un lavoro senza diritti, senza tutele, instabile e precario, capace di reggersi soltanto sulla povertà e l’esclusione di fasce sempre crescenti di popolazione. Non è singolare che queste riflessioni e considerazioni siano nate da una vicenda di lavoratori in lotta per non perdere il proprio posto di lavoro: parlare della vicenda-Edison significa parlare delle condizioni generali del lavoro e dei lavoratori di oggi.
È così che ha avuto inizio il processo di identificazione da parte di quei 40.000 cittadini che hanno firmato la nostra petizione, gesto che noi lavoratori viviamo come una vera e propria delega di responsabilità politica dal basso, come una nuova forma di azione democratica generatasi in una situazione di emergenza e nel “tempo espiatorio” della cassa integrazione guadagni. Potremmo, a questo punto, introdurre una 4a “categoria” nell’analisi, quella di “emergenza”, nella duplice accezione di stato di eccezionalità, ma anche di capacità di emergere, di farsi notare diventando attività creatrice e operante: questo è forse il senso della delega di rappresentanza delle 40.000 firme, una delega “dal basso” che vuole rispondere alla crisi delle forme tradizionali della politica e rilanciare ancora una volta i principi di una democrazia reale, di una vera possibilità democratica. È in questa forma che la nostra lotta può e vuole continuare: fuori dal suo spazio “fisico” ma finalmente all’interno di uno spazio “politico” nuovo, aperto e condiviso.
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