Martedì, 19 Febbraio 2013 00:00

Lo scontro tra librerie e grande capitale

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Continua la lotta dei lavoratori dell’Edison. Anche ieri, attraverso Simone Vertucci (ex dipendente della libreria), hanno fatto sentire la loro voce sotto i portici di Piazza della Repubblica, davanti a quella che una volta era la libreria Edison, luogo di ritrovo, di aggregazione e di partecipazione che coinvolgeva i cittadini di Firenze, e non solo. Alle spalle la saracinesca rimane serrata, lasciando percepire quella desolazione e quel senso di vuoto che chiunque abbia avuto modo di entrarvi, comprare un libro, sedersi per un caffè o semplicemente trovare un momento di stacco dalla frenesia quotidiana, sicuramente proverà ogni volta che passerà lì davanti, soffermando lo sguardo su quelle porte inesorabilmente chiuse.

Ma il messaggio che Simone, a nome degli altri, vuole mandare non ha niente di desolato né di rassegnato: è un messaggio di speranza, di coraggio, di battagliera fiducia e di ferma determinazione. Tre sono i temi principali che la chiusura della libreria ha fatto emergere: il lavoro, il tempo e la rappresentanza, che inevitabilmente sono andati a intrecciarsi e intersecarsi l’un con l’altro. “Ovviamente la lotta per il posto del lavoro e per impedire la chiusura della libreria è stata ed è centrale” dice Simone, ma subito dopo aggiunge che non è solo il loro posto di lavoro quello che l’iniziativa degli ex lavoratori dell’Edison ha voluto e vuole difendere. Infatti, la lotta che Simone e gli altri stanno intraprendendo non si sofferma alla loro situazione privata e personale, ma si allarga fino a toccare i problemi del lavoro in generale. La loro richiesta, che ha avuto un forte impatto sulla cittadinanza, è diventata una richiesta politica e allargata e la loro battaglia ha assunto un significato e un valore politico-culturale che riguarda tutta la città, tanto da trovarsi contro l’accanimento del “grande capitale”.

Anche gli ex lavoratori della libreria durante le loro iniziative di lotta hanno infatti dovuto fare i conti con quelle dinamiche “ostruzioniste” del “comitato organizzato” che non ha esitato a sfoderare le sue solite armi, quali l’aggiramento delle leggi, l’indifferenza verso i costi sociali delle sue azioni, la speculazione immobiliare, ecc.. Simone non nasconde il dubbio che dietro tutto questo accanimento ci sia qualcosa che va oltre la mera volontà di sbaragliare la principale concorrente (la Edison appunto) nel mercato dei libri. Lasciando il dubbio aperto, Vertucci insiste soprattutto nel sottolineare come la chiusura della libreria rappresenti non solo la perdita di un posto di lavoro sicuro e stabile – cui oggi assistiamo in tanti altri casi purtroppo – ma anche l’impoverimento del lavoro stesso. La chiusura di quello spazio significa infatti chiusura di un luogo che per molti era diventato uno posto di respiro, di evasione dall’alienazione del lavoro, di libertà dagli orari lavorativi, un luogo di compartecipazione, di scambio, di relazionalità al di fuori delle dinamiche lavorative, di quelle logiche di sempre maggior subordinazione e asservimento.

Chiudere spazi del genere, spazi in cui cercare un rifugio nel poco tempo libero a disposizione, in cui trovare un momento da dedicare a sé stessi, sia nella lettura di un libro che nella relazione con gli altri, significa annullare tutte le attività e le realtà che fanno parte dell’umano in funzione del riconoscimento di un unico valore, il lavoro: un lavoro che si “svuota” sempre di più del suo senso più alto e più dignitoso, un lavoro sempre più “povero”, sempre più inserito in dinamiche di asservimento e subordinazione, che produce un progressivo isolamento, una sempre maggiore “atomizzazione” degli individui, un progressivo svilimento di tutti gli altri fenomeni umani di cui abbiamo bisogno, come il tempo libero, la possibilità di relazionarsi con gli altri, di leggere dei libri, di informarsi e intrattenere un rapporto interattivo con la realtà sociale di cui facciamo parte.

Questo anche rappresentava una libreria come la Edison, sottolinea ancora Simone, un luogo in cui il cittadino può riconoscersi e “ritrovarsi” come essere umano e non solo come cittadino lavoratore, un luogo di appartenenza che forse, con la sua chiusura fisica, ci ha fatto riconoscere ancora di più parte di quel luogo e parte di una realtà, di una città che desideriamo diversa.

Vertucci continua dicendo quanto sia urgente e necessario recuperare il senso d’appartenenza e la consapevolezza di esser parte di una realtà che dovrebbe svincolarsi dalle logiche di mercato, per poter creare aggregazione e partecipazione democratica in luoghi che ci rendano uniti, anziché renderci una folla sempre più anonima e parcellizzata di individui ovattati nelle loro piccole realtà, all’interno delle quali vengono sottratti quei pochi e preziosissimi luoghi di respiro e di “comunione” come lo era la Edison; c’è bisogno di un cambiamento culturale che parta dal “basso” e che si batta contro le logiche utilitaristiche e tatticistiche dei “poteri forti”.

Tutti noi, come i lavoratori della ex- libreria, non vogliamo una realtà cittadina sempre più impoverita di spazi del genere, una città soffocata dalle dinamiche di sempre più stretto controllo e irrigidimento del lavoro che arriva ad inglobare in toto l’esistenza e la stessa essenza di una persona, la quale, privata di luoghi fisici e simbolici in cui poter esprimere tutta la sua “umanità”, la sua realtà di individuo sociale, non può che rimanere imprigionata in quella logica capitalistica che stabilisce il suo valore solo in quanto “forza- lavoro”.

Nel 1844, ricorda Simone, Marx aveva scritto pagine in cui affermava che il lavoro dovrebbe convivere con tutte le altre realtà e attività umane, e chiudere quegli spazi che ad esse consentirebbero di esplicitarsi con tutta la loro forza, significa dimidiare l’individuo e la società. tagliarli a metà, ridurli a pedine di una scacchiera in cui ciò che conta non è l’essere umano ma solo la produzione.

In realtà, sottolinea Simone la chiusura della Edison non riguarda nemmeno un problema di mancata produzione: era un’azienda che non aveva assolutamente problemi economici ed aveva garanzia di funzionare bene per ancora diversi anni, non solo da un punto di vista di profitto ma anche come punto di riferimento per moltissime persone, che in essa si riconoscevano e ancora si riconoscono, che in essa vedevano e avrebbero continuato a vedere uno spazio di appartenenza, di condivisone, socialità e partecipazione, oltre che uno spazio culturale. È perciò intuibile che dietro la decisione di sbaragliare la Edison ci siano altre logiche e demagogie.

Ma senza entrare in sterili polemiche Simone conclude il suo intervento ribadendo che la sua vicenda e quella degli altri 38 lavoratori, ora in cassa integrazione in deroga, sbloccata anche grazie all’intervento di Rifondazione Comunista in Provincia, vorrebbe essere una sorta di modello, di vivo simbolo di richiesta e rappresentanza dal basso. Nonostante la chiusura fisica dello spazio della libreria la loro e la nostra convinzione (o speranza) è che non ci sia né ci sarà una chiusura dal punto di vista del valore di questa lotta e di questa rappresentanza.

C’è un bisogno cocente di rimodellare la geografia, non solo fisica della nostra città ma anche politica e culturale e l’esempio dato dalla battaglia e dalla passione dei lavoratori della Edison apre un orizzonte migliore e di più ampio respiro: la loro vicenda, le loro iniziative, le loro richieste, le loro vertenze, hanno dato spiraglio a nuove possibilità, politiche e culturali: la possibilità di un modello di città che dia valore a quegli spazi di aggregazione e compartecipazione, anziché chiuderli in nome di un modello veicolato da chi quegli spazi li chiude, un modello di città che non sia mero cocevo di un turismo sempre più “mordi e fuggi” ma un modello di città aperta agli scambi umani, culturali, politici tra cittadini e luoghi in cui poter attuare tali scambi. Insomma, la vertenza della libreria non è rimasta chiusa nella sua situazione soltanto ma si è aperta al mondo politico ad essa circostante, che non riguarda solo coloro che il posto di lavoro lo hanno perso – un lavoro che amavano e che facevano con cuore e con viva passione – ma anche tutti noi, che vogliamo vivere in una città che ci dia la possibilità di sfruttare le nostre prerogative umane a tutto tondo e che permetta quegli interscambi sociali, politici e culturali.

Ultima modifica il Lunedì, 18 Febbraio 2013 16:56
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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