Composta tra il 1957 e il 1964 per l’Opera di Colonia, Die Soldaten, “i soldati”, è forse l’opera più spettacolare del secondo novecento, maestosa ed eclettica, dalle infinite prospettive e immensamente drammatica. Dodecafonica, composta secondo la tecnica seriale teorizzata da Shönberg eliminando ogni centro tonale, ma non solo: si scorgono citazioni gregoriane, barocche, classiche, liriche, jazz e avanguardiste. Un dedalo di suoni dagli stridori minuziosamente costruiti, note e rumori, anche registrati, in lizza tra loro con esiti sorprendenti. Non basta l’orchestra mastodontica di più di 100 elementi, occorrono orchestrine dislocate sui palchi, amplificatori istallati in sala, e poi ci sono il coro, 25 interpreti e ben 15 percussioni. Nell’idea originale di Zimmermann la musica doveva provenire allo spettatore da più parti, circondandolo a sua insaputa, in un gioco di suoni acusmatici le cui fonti dovevano essere dislocate ovunque, fuorché nella “buca d’orchestra”. Un progetto che, finora, non si è mai potuto realizzare integralmente. Addirittura, a causa dell'”irrealizzabilità” dell’opera, Zimmermann ne scrisse una sinfonia vocale, che ne rendesse giustizia.
Un artista complicato e complesso Bernd Alois Zimmermann, tedesco della Renania, terra ricca di risorse, di leggende e di battaglie (e nella quale si ambientano le opere di Wagner, il primo compositore a incrinare le leggi della tonalità), dalla giovinezza trascorsa nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. Cattolico pacifista e combattuto, reduce dal fronte orientale, nel quale forse nacquero i presentimenti della depressione, morto suicida poco tempo dopo la realizzazione del suo capolavoro, Die Soldaten appunto. Nella scelta del soggetto sta forse la sua volontà di rileggere provocatoriamente la storia artistica europea. “I soldati” è infatti un dramma settecentesco di Jakob Michael Reinhold Lenz, autore prussiano di spicco dello Sturm und Drang, già all’epoca non rappresentato per l’audacia della trama e lo sconvolgimento della tradizionale poetica delle tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. La storia, riadattata, la riassume lo stesso Zimmermann:
“Marie, figlia di Wesener, commerciante in articoli di moda, è fidanzata con il commerciante di stoffe Stolzius. Il barone Desportes, un giovane ufficiale francese, corteggia la giovane borghese e riesce a conquistare la sua simpatia. Wesener stesso insinua nel cuore della figlia la speranza di una ascesa sociale. Marie, tuttavia, è turbata dal presentimento di quel che la attende. Gli ufficiali amici di Desportes invitano Stolzius, che fornisce stoffe al reggimento, alla bottega del caffè, dove gli fanno notare in modo sfacciato e offensivo il rapporto tra Desportes e Marie. Stolzius, deluso, scrive una lettera a Marie la quale, a sua volta delusa, apre definitivamente il suo cuore alle avances di Desportes. Nel frattempo gli ufficiali si divertono a modo loro. Invano il cappellano Eisenhardt e il capitano Pirzel, zimbello dei suoi commilitoni perché l'ottusità del servizio militare lo ha reso strambo, cercano di opporsi alla depravazione, alla mancanza di scrupoli, alla sfrenata avidità di piaceri dei soldati del reggimento. Quando Desportes si stanca di Marie, la passa ai suoi amici. Stolzius, per poter avere sott’occhio Marie, entra a far parte del reggimento come attendente del maggiore Mary, un amico di Desportes. Afflitto e umiliato, si trova testimone della successione di avvenimenti che riducono Marie a “puttana di soldati“ – così la madre di Stolzius, indignata, la definisce. Quando anche il figlio della Contessa de la Roche si innamora di Marie, la contessa se la porta in casa, per proteggerla dalle insidie e allo stesso tempo evitare gesti folli da parte del figlio. Marie, tuttavia, cerca sempre di riallacciare la relazione con Desportes. Egli si sbarazza definitivamente di lei attraendola in una dimora in realtà non sua, per spingerla tra le braccia del suo attendente. Disonorata e affranta, Marie finisce in strada, mentre la Contessa, suo padre e i suoi famigliari la cercano invano. Stolzius, per vendicare la sua fidanzata, avvelena Desportes, poi con il veleno si suicida. Un giorno una ragazza di strada chiede l’elemosina a Wesener. Wesener non riconosce sua figlia.” (trad. L. Castellari)
Una storia morale, pienamente morale, la dissoluzione dell’etica piccoloborghese di fronte al dramma della degradazione sociale, della frammentazione individuale e della perversità. La dodecafonia rende appieno il linguaggio musicale adatto a spiegare il soggetto di Lenz, un mosaico di sconfitti educati al culto di se stessi ma condannati al proprio decadimento, senza perdono né giustizia. Anche se una via d’uscita, un’etica accettabile, Lenz la trova, perché se Marie è la vittima della sopraffazione sociale, Desportes è l’antagonista esemplare, arrogante e sicuro di sé, che muore insieme al suo misero uccisore. E la guerra non è un’astratta causalità di morte e saccheggio, reale o spirituale, ma solo un ambito in cui borghesi e nobili esplicitano il loro “naturale”, è uno dei vivai di ipocrisie e disonestà contro le quali si pronunciano solo un capitano sciocco e un cappellano militare, che parlano e non agiscono. Tutti hanno la loro voce in capitolo, persino le madri premurose, che pure nella pietà per la disgraziata Marie celano il timore per i figli, la cui bassezza di costumi non deve comprometterne l’onorabilità. Il carnefice di Marie non è la guerra quindi, ma non è nemmeno Desportes, piuttosto è il sistema borghese tutto, nel quale sopravvive solo chi ha qualcosa, da perdere o da cercare. Ognuno comunica ma niente è comunicabile. Quanta attualità rispetto ad un sistema sociale che nel 1776, nel 1964 e nel 2015 è ancora strutturalmente privo di base morale!
In meno di tre ore si susseguono 15 scene, senza soluzione di continuità, personaggi che incombono da più parti, che compiono ognuno il suo destino, eppure niente è assurdo, tutto ha una sua necessità in un’armonia distorta che riesce a catturare anche lo spettatore più inibito.
Nonostante le polemiche bizantine sorte tra la critica autorevole, chi scrive non può non ritenere straordinario il lavoro del regista e scenografo Alvis Hermanis e del direttore Ingo Metzmacher.
Il primo (lettone, come lo era Lenz allora che quei territori erano appannaggio tedesco), riesce a sviluppare nello spazio del palco della Scala una teoria di scene su più livelli, sopra e sotto e davanti e dietro, che riconducono alla narrabilità vicende altrimenti semplicemente giustapponibili. Hermanis, di fatto, non si limita a ricostruire in verticale la Felsenreitschule, scomponendola su due piani, ma nell’intuizione geniale valorizza ancor di più tanto le arcate della Cavallerizza quanto il piano superiore, che diventa una sorta di timpano greco. Il risultato in effetti non ha più a che fare con il lungo porticato orizzontale di Salisburgo, ma è un vero e proprio doppio livello narrativo (come nella famosissima Bohème di Zeffirelli), in cui ciò che avviene “sotto” è rievocato, riecheggiato, commentato, rivissuto “sopra”. Alla Scala, come a Salisburgo, Hermanis mette in scena cavalli veri, ricostruendo una stalla di reggimento nella quale dormono i soldati, visibile dietro le arcate del primo piano. A sovrastare il tutto proiezioni continue di foto d’epoca, nudi pornografici della belle époque, erotismo color seppia che stempera il carattere violento che il sesso ha nell’opera di Zimmermann (e che Hermanis edulcora ovunque, senza rifiutarsi però di rappresentarlo).
A riempire i vuoti resta la paglia da fieno, pervasiva, nutrimento dei cavalli, giaciglio dei soldati, gioco per le ragazze, imbottitura dei materassi, alcova per le avventure carnali e infine raccolta sotto la veste di Marie che la strappa a poco a poco dal proprio ventre, seduta cavalcioni su un letto a castello, come un macabro aborto.
I ruoli sono ben rappresentati, i costumi azzeccati e le gestualità misurate (anche la polemizzata masturbazione collettiva dei soldati è pienamente in luogo), il tutto a creare uno spettacolo perfettamente godibile, in cui ciò che si perde di Die Soldaten, è soltanto ciò che, inevitabilmente, lo iato tra un’idea e la sua realizzazione tende ad accantonare. Pochi gli oggetti di scena, oltre al letto a castello da cui parte la vicenda con le due sorelle Marie e Charlotte, restano sul palco un divano, su cui di volta in volta i vari personaggi discutono le rispettive morali, un orologio a pendolo, che è anche un armadio per il quale compaiono o scompaiono personaggi, sedie e tavoli da bar, utilizzati a vario modo dai soldati e sul quale morirà Desportes, e una cabina trasparente, dentro la quale vende il suo corpo la “puttana di soldati”.
Dunque un allestimento pressoché tradizionale per un’opera contemporanea: e non è forse anche questa una provocazione?
Ugualmente straordinario il direttore Ingo Metzmacher la cui bacchetta conduce l’orchestra con abilità estrema. Cresciuto nella musica atonale è tra i pochissimi in grado di fare eseguire una partitura così complessa come quella del Die Soldaten di Zimmermann. L’orchestra della Scala, per niente abituata alla dodecafonia, si è dimostrata all’altezza dei Wiener Philarmoniker che avevano eseguito l’opera al Festival di Salisburgo, e il fatto che Metzmacher, in tre anni, abbia diretto Die Soldaten con due delle più prestigiose orchestre del mondo, lo inserisce indubbiamente tra i direttori viventi più importanti. Occorre che i lettori si rendano conto delle enormi difficoltà oggettive nel dirigere Die Soldaten: ogni orchestrale deve “contare tutto” e quindi aspettarsi dal direttore tutte le indicazioni, le parti da seguire sono più di cento, tra cui alcune eseguite in postazioni invisibili dal podio, ognuna assai complicata e ogni esecuzione d’insieme è unica nel suo effetto, dipendendo molto dal luogo in cui avviene, dunque non sistematizzabile. Un’impresa da pochi sostenibile.
Sarà ancora Metzmacher a dirigere alla Scala un altro capolavoro della musica atonale: il Wozzeck di Alban Berg, l’ultima opera della stagione 2014/2015, alla quale molto deve Die Soldaten di cui fa il paio sia nella struttura che nel tema.
Eccezionale anche il cast, in cui spicca Marie, Laura Aikin, soprano il cui repertorio, non a caso, spazia dalla musica barocca a quella contemporanea. Aikin entra a pennello nel ruolo, scandisce le note, i salti, i vocalizzi e i parlati, e riesce a trasferire all’interpretazione la trasformazione di Marie da ingenua e ignorante borghesuccia a donna di strada, fin troppo edotta d’esperienza, divorata e lacerata dal turbine della sua sfortunata vita. Non dev’essere facile interpretare un ruolo così complesso, che richiede indubbie capacità teatrali, che apre e chiude l’opera sempre al centro dell’azione, ma da “vittima”. Vittima delle convenzioni che imbrigliano i desideri in vuote liturgie: è per il fatto che il bisogno di sfogo sessuale dei soldati si può esprimere solo promettendo falsi impegni di vita coniugale o di fedeltà, che Marie viene ingurgitata in un domino di fraintendimenti. Quando Marie pensa all’amore, i soldati pensano al sesso e le madri al matrimonio.
L’opera si conclude davvero drammaticamente. Mentre il cappellano recita il Pater noster, continua a crescere l’assordante cadenza dei timpani fino all’urlo lancinante di Marie (che a differenza dell’opera di Lenz, in Zimmermann non viene riconosciuta dal padre), l’orchestra, allora, si trattiene a lungo sul re finale, D, come Dio. Un Dio che, però, non riesce a dar ragione della sua esistenza da tanti così invocata.
Marie è come Tosca, Madama Butterfly, Adriana Lecouvreur: l’agnello sacrificale della catarsi melodrammatica. La platea a quel punto, commossa, straziata, scioccata, si prende qualche secondo prima di abbandonarsi ad uno scrosciante applauso.