Le varie forme de "sapere", che cerchiamo di organizzare tra divulgazione scientifica (cliccando qui), scienze umanistiche (cliccando qui) e scienze sociali (cliccando qui), sfruttando le pur discutibili suddivisioni del nostro sistema accademico.
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Nell’ambito del suggestivo convegno “La magia dell’arte, l’arte nella magia nel Medioevo e Rinascimento”, organizzato dall’Istituto francese in collaborazione con l’Università degli Studi di Udine, con il SAGAS (dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo) dell’Università degli Studi di Firenze, con il Centre d’Études Supérieures de la Renaissance (CESR) e l’Université Fançois Rabelais de Tours, molto si è parlato di magia, di alchimia, di amuleti, gemme magiche, stregoneria, influenze astrali , “signa”, macchine sonore e tanto altro ancora.
Il convegno, inaugurato giovedì 31 marzo dalla lectio Magistralis di Attilio Mastrocinque sul fascino e l’origine di amuleti e gemme gnostiche, e conclusosi sabato 2 aprile, ha visto susseguirsi interventi da parte di docenti, ricercatori, e dottorandi italiani e francesi esperti e appassionati di magia, esoterismo, iconografia alchimia, misteri isiaci e altro ancora.
Uno degli interventi, di Mino Gabriele, professore di iconografia e iconologia e di Scienza e filologia delle immagini presso l’Università degli Studi di Udine, si è concentrato sulla “Magia e alchimia nei simboli della Porta Ermetica di Roma”.
Secondo l’esperto di iconografia, la Porta Ermetica è la sintesi perfetta di quelle forze ed energie spirituali, esoteriche, alchemiche, ricorrenti dall’antichità fino ai tempi moderni. Gabriele tende a sottolineare come oggi la nostra conoscenza e la nostra mentalità, più scientifiche, selettive, parcellizzate o persino “frantumate” abbiano perso quella visione, che dall’antichità fin verso il Rinascimento, teneva insieme saperi diversi e, per noi moderni, opposti tra di loro. Irrazionale (come chiameremo noi tutto ciò che è attinente alla magia, alla stregoneria, alla necromanzia, all’alchimia o all’astrologia) e razionale andavano a braccetto. Filosofi, scienziati, matematici, astronomi erano quasi sempre interessati o esperti di influenze astrali, di simboli alchemici, di magia ed esoterismo. Nel “De Architettura” di Vitruvio ad esempio, si legge che l’architetto deve essere anche un astrologo, un geologo, un archeologo, a rimostranza che esisteva una visione unitaria e chiasmatica delle varie discipline. Porfirio, ad esempio, nonostante sia stato uno dei più importanti logici dell’antichità, riusciva a combinare perfettamente la propria visione matematica e logica del mondo con l’interesse per i simulacri e le pratiche alchemiche. Persino i personaggi più insospettabili, o che noi conosciamo grazie alle loro scoperte matematiche, astronomiche, geometriche, scientifiche in generale, erano in realtà molto legati ai saperi magici e pure un po’superstiziosi. L’alchimia, l’astrologia, la magia, erano considerati saperi di portata scientifica.
Gabriele esordisce raccontandoci l’episodio dell’Obelisco egiziano (secondo Plinio originario della città di Heliopolis) portato a Roma, da Alessandria d’Egitto, da Caligola nel 40 d.C. e collocato sulla spina del Circo di Nerone. Quando, verso la metà del ‘500, grazie a Papa Sisto V (che realizzò il progetto che già era di Papa Nicolò V – 1450 circa), esso fu trasferito in Piazza San Pietro, fu indetta un’immensa processione organizzatissima e accompagnata da un rito di esorcismo con preghiere caratterizzate dal sanare l’obelisco da eventuali demoni pagani che avrebbero potuto possederlo. L’obelisco che, come ci insegna Plinio, era simbolo dei raggi solari, diventa ora simbolo cristico, tanto che sul dado che lo sostiene vi è incisa un’iscrizione in cui si legge: “l’obelisco dedicato dagli antichi ad empio culti, e purgato da impura superstizione, ora più giustamente e più felicemente viene dedicato da Sisto alla Croce Invitta”.
Anche ai nostri giorni restano comunque residui di pratiche apotropaiche. C’è tutto un mondo che per quanto possiamo oggi confinare nell’irrazionale o viverlo in maniera quasi atarassica, indifferente, continua a pullulare, sotto o in parallelo alla nostra razionalità scientifica e selettiva. Moro stesso, ad esempio praticava sedute spiritiche a Roma. Insomma, la lunga tradizione magica, esoterica, e misterica è una tradizione ininterrotta e forse mai del tutto destinata a scomparire, sebbene vissuta e interpretata in maniera molto diversa.
Ma veniamo alla nostra Porta magica. Siamo a Roma nel 1600. Anche il papa di allora, Clemente VII, era un noto praticante di alchimia. L’alchimia era una sorta di proto-chimica. Ovviamente non c’erano ancora le basi matematiche e prettamente scientifiche sviluppatesi più tardi, ma essa riguardava lo studio della trasformazione dei metalli, degli elementi vegetali e della costruzione delle armi. Evento di radicale importanza, in questo periodo, fu l’arrivo di Cristina di Svezia a Roma, regina protestante che però si convertì al cattolicesimo, cosa che rappresentava un evento straordinario e mirabile per i cattolici dell’epoca. Così, quando costei arrivò a Roma, Papa e vescovi l’accolsero con estrema devozione. Cristina era tra l’altro una donna dotata di un’intelligenza sorprendente, oltre ad essere dottissima e coltissima. Era anche una donna molto libera dal punto di vista della sessualità e soprattutto con un tenore di vita dispendiosissimo. La regina amava circondarsi dei chimici, scienziati, filosofi, astronomi, artisti e musicisti più noti dell’epoca, che invitava nei laboratori sparsi nelle proprie tenute e di cui finanziava numerosi progetti, tra cui l’edizione greca e latina (pubblicata a Roma nel 1630) del grecista Holstenius della porfirea Vita di Pitagora, di cui lei era molto appassionata. In particolare si dedicava molto all’alchimia, mossa soprattutto dal desiderio quasi ossessivo di scoprire il modo per trasformare i metalli in oro. Con una portata di intelligenza, cultura e libertà tali, fu piuttosto scontato che intorno a lei si formasse anche a Roma una corte di matematici, filosofi, artisti, scienziati. Tra questi, alla corte di Cristina, c’era anche Massimiliano Palombara, marchese di Pietraforte e noto a Roma per la sua passione per l’esoterismo e le pratiche magiche, nonostante anch’egli fosse comunque poeta e studioso dei maggiori trattati scientifici dell’epoca. Costui fece edificare nella sua residenza – villa Palombara – presso la campagna orientale romana, sul colle Esquilino, la succitata Porta Alchemica, tutt’oggi collocata in Piazza Vittorio, e che è l’unica porta sopravvissuta delle cinque che contornavano la villa, anch’essa piena di epigrafi alchemiche e scritte simboliche di Palombara, a testimonianza dei suoi interessi esoterici. La villa venne distrutta in epoca ottocentesca, insieme a molte altre, in seguito alla realizzazione di progetti urbanistici volti alla trasformazione di Roma in una grande capitale moderna. Sull’area in cui sorgeva la villa vennero però rinvenuti importanti reperti, tra cui il famoso discobolo. Tornando alla Porta Magica. Ancora oggi la porta, essendo andato perduto ciò che racchiudeva, è di difficile, se non impossibile, decifrazione e de-criptazione, ricca com’è di simboli alchemici. Poco o nulla si sa di essa, se non che era aperta – priva cioè di ante – e che era sita nel giardino della Villa, sebbene non si sappia precisamente dove. Si potrebbe supporre, data l’ammirazione di Cristina verso Pitagora, il quale insegnava ai suoi iniziati attraverso un velo, che anche in mezzo alla porta ci fosse una sorta di velo, a simboleggiare che dietro di esso si celasse l’accesso ai saperi universali e alla conoscenza misterica. Ma anche questa è solo un’ipotesi.
Uno dei testi di riferimento per tutti gli appassionati dell’alchimia dell’epoca, tra cui appunto lo stesso Palombara, era “L’anfiteatro della sapienza eterna”, da cui provenivano le maggiori conoscenze di alchimia mistica e cabalistica, ma collegate con la rivelazione divina, con chiare evocazioni del Mistero Cristiano. L’autore dell’opera, Heinrich Khunrath, era stimatissimo da Palombara e dai seguaci seicenteschi della setta dei Rosacroce ed è (anche) da questo testo che probabilmente provengono molte simbologie della porta ermetica. Occorre ricordare che nel 1558 la Chiesa Cattolica stilò l’Index dei libri proibiti, terribile strumento demandato alla Santa Inquisizione, nelle cui grinfie censorie finirono molti testi non conformi ai canoni cattolici e che quindi venivano condannati e/o bruciati. Tra di essi anche molti testi magici o alchemici. In alcune biblioteche o archivi storici potrebbe capitare di vedere sulla costola di libri antichi una, due, o tre croci: esse indicavano la progressiva gravità eretica del testo, laddove ovviamente le tre croci marchiavano i libri maggiormente pericolosi, considerati come vere e proprie opere del demonio. Siamo dunque in un periodo di controllo intellettuale e culturale pesantissimo e anche altri testi del Khunrath, contenenti simbologie alchemiche e cabalistiche avversate dalla Chiesa cattolica come residui pagani, non poterono sfuggire alla censura e alla distruzione.
Insistente, sulla porta, è la presenza e la simbologia di mercurio, metallo che, se volatizzato ad alta temperatura, diventa oro. Forti sono gli accostamenti tra questo metallo e Cristo. Sui montanti degli stipiti sono raffigurati i simboli dei pianeti, a ciascuno dei quali corrisponde un metallo. Questi simboli sono dei “signa” di cui non facile è la decifrazione. Essi si ritrovano anche su diverse gemme gnostiche, di origine egizia, e che circolavano nel medioevo (e poi nel Rinascimento), soprattutto quando, verso il 1200 si diffuse la cosiddetta ars notoria. Questa arte, che si riteneva esser stata rivelata da un angelo del Signore a Salomone, conteneva una raccolta di preghiere, mescolate con parole cabalistiche e mistiche, che, se opportunamente recitate avevano il poter di far discendere un angelo dal cielo che avrebbe insegnato al mortale qualunque disciplina egli avesse voluto conoscere. Anche se l’ars notoria era considerata dai suoi praticanti come una magia bianca, cristiana, fu molto avversata, non solo perché contenente simbologie misteriche “pagane”(ritenute tali), ma anche negli ambiti delle Universitas medievali, dato che lo studente, investito della scienza infusa proveniente dagli insegnamenti anglici invocati con l’ars notoria non avrebbe più avuto bisogno di studiare. Nella sua Summa contra gentiles Tommaso non prendeva sul serio questa pratica, degradandola a mera superstizione. I cattolici che la praticavano si difendevano dalle accuse ammettendo che anche il medico guariva il malato attraverso la forza delle sue parole che quindi dovevano necessariamente possedere un potere magico. Sta di fatto che molti testi notari non furono risparmiati. La porta che però fu salvaguardata riporta molti di questi signa. Molte delle epigrafi, dei simboli e delle iscrizioni presenti provengono da un altro testo fondamentale per gli appassionati di alchimia, reinterpretata però alla luce della dottrina cattolica. Si tratta del De pharmaco catholico, testo rosacrociano (l’autore, anonimo, si professa tale) che in epoca seicentesca potrebbe dirsi un vero e proprio libro culto. Pare che lo stesso Isaac Newton, che tutti conosciamo per le sue rivoluzionarie scoperte scientifiche, tenesse questo testo sempre in tasca, come una sorta di reliquario, a dimostrazione che, persino un fisico, astronomo, matematico della portata di Newton, fosse ampiamente interessato ai speri esoterici e si fosse anche molto occupato di studi alchemici. Di nuovo si avverte come i vari ambiti disciplinari fossero spesso mescolati e inseriti entro una visione complessiva della conoscenza che tutti li teneva insieme, senza gerarchia o esclusività.
Il De pharmaco riguarda in particolare la trasformazione della materia e i modi per farlo. Il principio che sta alla base è il seguente: così come un discorso è composto da parole, che a sua volta sono composte da sillabe e queste da lettere, anche la materia è costituita dai suoi elementi che come le parole, racchiudono dei segni magici come fossero le sue sillabe. Una volta rivelato il significato di queste “sillabe” magiche io posso arrivare a trasformare tutto ciò che voglio. Questo tipo di trattati hanno avuto notevole successo. Uno dei più diffusi in epoca tardo-medievale e rinascimentale era il Picatrix, traduzione latina di un testo arabo del 1008 d.C, che racchiudeva ricette magiche per la costruzione di talismani e gemme, trasformazioni di metalli, invocazioni ai pianeti, corrispondenze tra piante, animali e segni dello Zodiaco, e presente, tra le altre, nella biblioteca di Cornelio Agrippa, Pitagora, Marsilio Ficino. Talismani, sillabe, parole ritenute magiche, gemme e metalli, divengono veri e propri strumenti energetici dotati di valore protettivo o apotropaico. Anelli e amuleti venivano portati addosso o fogliettini contenenti questi signa venivano addirittura mangiati, in modo da poter incorporare dentro di sé tutto il potere, la forza e l’energia sprigionata da questi strumenti magici. Purtroppo, come già detto, questi oggetti e i testi ad essi riferiti subirono tutta l’avversione della Chiesa Cattolica che li condannava come residui del paganesimo. La Porta di Palombara però, reca su di sé tutto quell’universo che univa magia a scienza, esoterismo alchemico e cabalistico e verità cristologiche in un connubio di simbologie alchemiche e verità divine che non finiscono di interrogare e di affascinare colui che vi si trova davanti, come una sfinge il cui enigma resta però insoluto. In questo caso, l’enigma o il messaggio “sfingico” lo si legge nell’iscrizione palindroma incisa sulla pietra dello stipite inferiore, il cui valore è polisemantico ed esoterico. Se infatti l’iscrizione viene letta da sinistra verso destra il suo significato è “se ti siedi non procedi”, ma se letta al contrario, da destra verso sinistra, essa diventa “se non ti siedi procedi”, denotando un invito a varcare la porta e accedere forse a un mondo di saperi inesauribili e commisti tra loro, di cui la porta magica è il simbolo e la rappresentazione perfetta, anche se il suo mistero resterà forse per sempre racchiuso dietro e dentro di sé. Anche per questo, però, essa avrà sempre il potere di incantarci.
Il professore Rossi continua il viaggio tra gli scandali, i vizietti e le vicende erotiche delle corti francesi e passa a introdurre la figura del sovrano più sottaniere e dedito all’ars amatoria, vale a dire, Enrico IV (1518-1610). Il re è passato alla storia per essere uno dei più magnanimi nei confronti dei sudditi (tanto da accaparrarsi il nomignolo di “bon roi”) e anche come uno dei più anti-conformisti rispetto alla rigida disciplina, privata e pubblica, dell’epoca: si faceva ritrarre in posizioni buffonesche con i figli, sia maschi che, cosa straordinaria, con le femmine (vi sono quadri che lo rappresentano a gattoni con in groppa i bambini), si fa chiamare “papà” da loro..insomma aveva delle maniera che potevano risultare abbastanza anti-convenzionali per le regole reali del tempo. Enrico però non era altrettanto un emblema di purezza, candore e integrità dal punto di vista morale e di comportamento sessuale. Era, perdonatemi il termine, un vero e proprio “puttaniere”, anche se si innamorava sinceramente di tutte le amanti che ha avuto (tante!).
Se c'è una caratteristica che distingue Pierangelo Bertoli da altri cantautori è l'aver messo sé stesso dentro i propri brani. Certe canzoni, e “certi momenti”, non possono essere il frutto, unicamente, di una forte capacità poetica, ma lasciano trasparire qualcosa dell'autore.
Questa stessa caratteristica la si può ritrovare anche in Alberto, figlio di Pierangelo e musicista egli stesso, che ha voluto raccontarsi, oltreché nei propri brani, anche nel libro Come un uomo (Infinito edizioni, 2015, pp. 160, € 14,00), scritto insieme a Gabriele Maestri, collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso l'Università di Parma, Dottore in Teoria dello Stato a La Sapienza e già noto ai lettori del Becco per tutt'altro ambito (è tra i più noti esperti di simboli dei partiti in Italia).
Le scomode eredità di Umberto Eco
A ottantaquattro anni ci ha lasciati anche Umberto Eco. Di solito tollero poco gli eufemismi funerari, ma in questo caso il verbo “lasciare” mi sembra appropriato, perché la morte di una personalità così preminente dal punto di vista culturale lascia un senso di vuoto e di abbandono. In queste righe non mi concentrerò sulla statura accademica di Eco, quanto sul ruolo che egli ha avuto come intellettuale d’altissimo livello in relazione alla cultura popolare, un tema che a mio vedere risulta fondamentale nella sua attività letteraria.
Einstein sarebbe raggiante
«Signore e signori, abbiamo rilevato delle onde gravitazionali; ce l’abbiamo fatta!»
Con queste parole David Reitze, fisico e direttore del progetto LIGO presso il California Institute of Technology (Caltech), in conferenza stampa dalla statunitense National Science Foundation giovedì ha annunciato al mondo quella che la comunità scientifica internazionale considera, senza mezzi termini, la scoperta del secolo.
Un’idea centenaria
Ipotizzate per la prima volta nel 1916 da Einstein, come corollario alla sua teoria della relatività generale pubblicata l’anno precedente, le onde gravitazionali sono increspature nel tessuto dell’universo: una massa accelerata interagisce con il campo gravitazionale deformando lo spazio-tempo al punto da emettere una radiazione, l’onda gravitazionale, che si propaga nell’universo alla velocità della luce. Si può immaginare il fenomeno come le onde concentriche che infrangono la superficie dell’acqua quando ci tiriamo un sasso.
Malgrado l’eleganza della teoria, però, rilevare fisicamente queste onde è stato un problema per tutto il secolo successivo: si tratta di fenomeni relativamente molto deboli (troppo, ad esempio, per riprodurne in laboratorio di significativi); d’altra parte, quando un evento particolarmente violento che coinvolge masse imponenti, come la collisione tra due stelle, producesse delle onde di intensità interessante, al loro passaggio la deformazione investirebbe anche gli ipotetici strumenti di misura. Negli scorsi decenni non sono tuttavia mancate osservazioni che ne suggerissero indirettamente l’esistenza, ad esempio nello studio degli effetti del movimento di sistemi stellari binari – coppie di stelle che orbitano attorno ad un centro di massa comune.
Raggi laser e specchi
La prima intuizione di un sistema ottico per rilevare onde gravitazionali fu proposta nel 1962 dai fisici sovietici Gertsenshtein e Pustovoit, la cui pubblicazione non ebbe però alcuna risonanza. Dieci anni dopo, lo scienziato del MIT Rainer Weiss propose indipendentemente un metodo ottico, basato sull’interferometro di Michelson noto fin dalla fine dell’800, per il rilevamento delle onde; pochi anni dopo la National Science Foundation incaricò il Caltech di realizzare l’idea progettando LIGO (Laser Interferometer Gravitational-wave Observatory), un sistema di interferometri laser in diversi impianti (uno a Livingston, Louisiana, e il suo gemello a Hanford, Washington) entrato in funzione nel 2004. Contemporaneamente altri impianti simili sono stati realizzati nel resto del mondo, tra cui il progetto italo-francese Virgo nei pressi di Cascina (PI).
L’impianto è costituito da due bracci, lunghi 4 chilometri ciascuno nel caso di LIGO, disposti ad angolo retto, con specchi sospesi ad ogni estremità; un raggio laser sdoppiato tra i bracci percorre la lunghezza, rimbalza sugli specchi e torna a incrociarsi nel punto d’incontro tra i bracci, generando un’interferenza registrata da un interferometro laser. Al passaggio di un’onda gravitazionale, i due bracci vengono deformati alternativamente – uno compresso, l’altro dilatato – variando il tempo di percorrenza del raggio laser, così che i raggi nei due bracci risultano fuori fase e si registra un diverso pattern d’interferenza. La differenza di lunghezza tra i due bracci, proporzionale alla forza dell’onda gravitazionale, è dell’ordine di un decimillesimo del raggio di un protone nel caso delle onde attese al LIGO. È evidente come la precisione necessaria alla rilevazione possa essere minata da una varietà di fattori, dall’ambiente circostante allo stato degli strumenti.
La fusione di due buchi neri
Così, al segnale registrato il 14 settembre 2015 alle 9:50:45 UTC da entrambi gli interferometri LIGO sono seguiti mesi di verifiche di tutti i dati, per escludere che l’interferenza fosse stata generata da un disturbo delle strumentazioni. Intanto iniziavano a circolare le prime voci del rilevamento di un’onda gravitazionale, alimentando l’attesa di un annuncio ufficiale. Infine l’annuncio è arrivato [leggi qui]: solo un’onda gravitazionale poteva aver generato pattern d’interferenza congruenti in entrambi gli interferometri, inoltre perfettamente aderenti al modello calcolato, secondo le equazioni di Einstein, per l’onda gravitazionale generata dal collassare di due buchi neri. In altre parole, la prima diretta rilevazione di un’onda gravitazionale ha coinciso con la prima diretta osservazione della collisione di due buchi neri.
Un’onda gravitazionale fornisce infatti molte informazioni sull’evento che l’ha generata: dall’onda gravitazionale GW150914 rilevata lo scorso settembre, è stato possibile ricavare la massa dei due buchi neri che collassando l’hanno generata, così come la distanza di questo evento da noi e la direzione da cui proviene. GW150914 ci ha quindi “raccontato” che ad oltre un miliardo di anni luce da noi due buchi neri, con masse 29 e 36 volte quella del Sole, hanno orbitato attorno ad uno stesso centro di massa fino a fondersi in un unico buco nero dalla massa 62 volte quella del Sole. La differenza di massa rispetto ai due buchi neri originari, pari a tre volte la massa del Sole, si è convertita in una radiazione gravitazionale abbastanza forte da permetterci di rilevarla [Leggi qui].
«Per la prima volta l’universo ci parla attraverso onde gravitazionali – eravamo sordi alle onde gravitazionali, ora possiamo sentirle» ha commentato Reitze, tradendo un po’ di commozione. E possiamo letteralmente sentirle: la frequenza del segnale, tradotta in onde sonore, è nello spettro dell’udibile ad orecchio umano. [Ascolta qui]
Il futuro
Alla scoperta, che prova ulteriormente la correttezza della teoria della relatività generale di Einstein a cento anni dalla sua formulazione, hanno contribuito scienziati da tutto il mondo, sia partecipando direttamente alle rilevazioni di LIGO, sia da altre strutture con cui LIGO da anni si scambia dati e analisi. Tra queste anche Virgo, il cui impianto nel corso di quest’anno sarà ristrutturato fino a portarlo all’attuale sensibilità di LIGO; lo stesso LIGO sarà perfezionato per raggiungere la sensibilità a onde tre volte più deboli di GW150914, mentre un ulteriore impianto in Giappone, KAGRA, sarà completato nei prossimi anni. La rete di osservatori a interferometri laser per rilevare onde gravitazionali è uno dei principali investimenti scientifici a livello globale per i prossimi decenni.
Fino a ieri i buchi neri erano solo un modello, benché molto accreditato, visualizzabile solo in simulazioni digitali basate sulle equazioni di Einstein (incluse le straordinarie immagini del film Interstellar); oggi le informazioni portateci da GW150914 ne provano definitivamente l’esistenza. Dopo il telescopio ottico, il radiotelescopio, il telescopio a raggi X, le onde gravitazionali offrono un ulteriore modo di “fotografare” l’universo ed i suoi eventi, aprendo nuove vie all’osservazione e alla ricerca astronomica: dalla rivelazione di oggetti astrofisici finora invisibili, fino ad ulteriori verifiche della teoria della relatività generale attraverso lo studio della gravità.
«Einstein sarebbe raggiante, non credete?» scherza France Córdova, presidente della National Science Foundation, alla fine della conferenza stampa.
L’articolo relativo alla scoperta è pubblicato qui.
Il Becco è una testata registrata come quotidiano online, iscritto al Registro della Stampa presso il Tribunale di Firenze in data 21/05/2013 (numero di registro 5921).