Le varie forme de "sapere", che cerchiamo di organizzare tra divulgazione scientifica (cliccando qui), scienze umanistiche (cliccando qui) e scienze sociali (cliccando qui), sfruttando le pur discutibili suddivisioni del nostro sistema accademico.
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Intervista a Elena Pulcini, Professoressa ordinaria di Filosofia sociale, presso l'Università di Firenze
5) Il clima impazzito, mette a nudo le miserie del genere umano. Ad esempio, mette in evidenza il potenziale devastante della cementificazione selvaggia (basti pensare al fatto che negli ultimi 30 anni abbiamo cementificato 6 milioni circa di terreno – un quarto del territorio italiano – pur contando 10 milioni c.a. di case vuote), eppure si continua a costruire. Sembra ormai radicata l’idea che senza edilizia, senza quest’ottica di endemico liberismo economico in cui versiamo non ci sia possibilità di occupazione né crescita né sviluppo. Può darci una sua considerazione a riguardo?
Uno dei problemi che più influiscono sulla devastazione del territorio è proprio questo: un atteggiamento di totale disinteresse nei confronti dell’ambiente, fagocitato dai fattori della modernità e da una sempre più cieca economia di mercato. L’Italia è appunto uno degli esempi più lampanti di violazione estrema del territorio. Come lo è il problema della rapacità economica: questa porta ad assumere un atteggiamento sempre più “selvaggio” da parte dei paesi emergenti, quali ad esempio la Cina, la quale, pilotata com’è verso la crescita non ha alcun interesse ad affrontare certe problematiche. Mentre per alcuni paesi, non si tratta neanche solo di questa visione sfrenata di crescita produttivistica, in nome della quale viene sacrificato tutto il resto, ma purtroppo, anche di senso di impotenza: si pensi ad un paese come il Brasile, dove c’è una coscienza ecologica molto più diffusa rispetto a quella italiana, eppure, anche qui, persino un grande presidente come è stato Lula, che sarebbe stato anche disposto a prender provvedimenti su questo versante, si è trovato costretto a trascurare enormemente il problema ambientale, in quanto cozzava con il problema del lavoro, dell’occupazione e della crescita economica.
6) Pensa che potrebbe esserci un’alternativa di progresso, per così dire, sostenibile?
Nell'immagine la banconota da 5 marchi della DDR, raffigurante Müntzer
"Omnia sunt communia" (tutti i beni sono in comune): queste, da quanto ci tramanda la tradizione, furono le ultime parole pronunciate da Thomas Müntzer subito prima di essere decapitato, il 27 maggio 1525.
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Negli ultimi tempi, una nuova moda sembra essersi imposta sul linguaggio ordinario, giornalistico e della pratica politica. Il termine “populismo” appare ormai con frequenza costante su tutti i canali di comunicazione, e non c’è esponente politico, di qualsiasi schieramento, che non l’abbia utilizzato almeno una volta in senso dispregiativo in riferimento a un avversario. Abbiamo sentito più volte Casini e Vendola tuonare contro la “minaccia populista” rappresentata dal Movimento 5 Stelle di Grillo. Formisano ha motivato la sua decisione di lasciare Italia dei Valori con la “deriva radical populista” impressa al partito da Di Pietro, e Bersani si è opposto all’ipotesi di un ritorno di Berlusconi alla guida del Pdl dichiarando che “di populismo ne abbiamo avuto già un bel po’”.
Gli esempi potrebbero continuare. L’aggettivo “populista“ è comunemente usato come sinonimo di “demagogo”, “qualunquista”, e persino “fascista”, in riferimento a soggetti e fenomeni molto diversi tra di loro, con una facilità che spesso nasconde la totale ignoranza del reale significato del termine.
In effetti, il populismo è sempre stato un concetto estremamente volatile e mutevole, difficile da inquadrare in una categoria specifica. Il primo tentativo, risoltosi in un insuccesso, di formulare una teoria generale, risale alla conferenza sul populismo tenuta alla London School of Economics nel 1967. Da allora, non si è ancora giunti a un accordo neppure sulla classificazione del populismo come ideologia, mentalità, o stile politico. Nell’analisi del fenomeno, tuttavia, è possibile almeno circoscrivere una serie di elementi chiave che ne rappresentano le caratteristiche salienti, e sui quali è possibile registrare un certo grado di accordo tra gli studiosi.
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Intervista a Elena Pulcini, Professoressa ordinaria di Filosofia sociale, presso l'Università di Firenze
1) Partendo dal concetto di cura, di cui Lei si è particolarmente occupata, pensa che ci dovrebbe essere una “domanda di cura ambientale”?
E' ormai un dato assodato che in Italia il problema principale è la classe politica: corrotta, inadeguata, impopolare, vecchia. Probabilmente mangia-bambini, drogata, cannibale, pedofila e qualunque altra cosa infamante che vi possa venire in mente.
Scherzi a parte il dato di fondo c'è ed è inequivocabile: esiste un problema di rappresentanza e di inadeguatezza politica, morale e ideologica dell'attuale ceto dirigente al potere. Ciò sta letteralmente distruggendo la democrazia liberale in Italia, degenerando lo sconforto, il pessimismo e il senso di impotenza presso sterminate masse rifugiatisi nel qualunquismo populista o nell'indifferenza apolitica. Questa è la sconfortante analisi reale della società italiana e dei suoi umori.
Tutto ciò però non è un fatto inedito, anzi, sembra costituire una costante nella storia italiana, e non solo repubblicana. Gli stessi fenomeni venivano segnalati già durante l'Italia “liberale” monarchica, poi attraverso i privilegi del regime fascista e successivamente con il monopolio dirigenziale dei governi democristiani, fino quindi alla famosa stagione di Tangentopoli che non fece altro che scoperchiare problemi presenti da decenni ma impediti dal fattore K.
I liberali tendono a dare la colpa ad un carattere storico “genetico” di noi italiani, che per tradizione saremmo arraffatori ed egoisti. Gramsci però la pensava diversamente, e denunciava a spron battuto come la corruzione morale e culturale di una società (e della sua élite dirigenziale) non potesse che aumentare all'interno di una struttura economica degradante quale quella capitalistica.
Una volta un giovane si è avvicinato al segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero, esprimendo preoccupazione per lo stato del partito che i sondaggi davano ad un risicato 3%.
“È vero, siamo bassi, ma il nostro è un 3% di gente che ragiona, con la testa sulle spalle. Siamo pochi ma solidi nella mente e nello spirito”. Questa grosso modo la risposta che ricevette. Quel giovane, pur rinfrancato dalle rassicurazioni del suo segretario, continuava a chiedersi perchè il suo partito di riferimento, nonostante dicesse cose giuste e avesse una linea politica ancor più giusta, non riuscisse a crescere nel gradimento popolare.
La storia del movimento operaio ci insegna che purtroppo non basta avere la linea giusta per veder crescere i propri consensi. Questa era la convinzione errata di Bordiga, fondatore del PCd'I. Gramsci, in un primo tempo d'accordo, ebbe modo di riflettere molto in carcere su questa apparentemente inesplicabile contraddizione.
Erano altri tempi, e senz'altro non si era ancora entrati nella “modernità liquida” che ha fatto vendere milioni di copie a Bauman. Eppure quei tempi nascondono spesso strumenti di lettura della società che ancora oggi appaiono sorprendentemente attuali. E' questo il caso di “Psicologia delle Folle”, opera uscita nel 1895 che rese famoso lo psicologo-sociologo-antropologo francese Gustave Le Bon, meritandogli elogi e attestati di stima da parte di gente come Freud, Schumpeter, Adorno e Merton.
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