Le varie forme de "sapere", che cerchiamo di organizzare tra divulgazione scientifica (cliccando qui), scienze umanistiche (cliccando qui) e scienze sociali (cliccando qui), sfruttando le pur discutibili suddivisioni del nostro sistema accademico.
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Si è svolto, lo scorso 28 maggio, presso il Palazzo del Governatore di Parma, il convegno “Parma '46. Dal Fascismo alla democrazia, storia di una transizione”. L'evento - aperto dai saluti della vicesindaca di Parma, Nicoletta Paci, e da quelli del Prefetto, Giuseppe Forlani - collocato all'interno delle celebrazioni per il 70° anniversario della Repubblica, ha avuto come proprio centro l'illustrazione, in particolare per quanto riguarda la città ducale, del periodo che ha portato alla nascita delle istituzioni democratiche chiudendo una lunga fase di transizione della storia del nostro Paese.
Intervista di Dmitrij Palagi a Giovanni Mazzetti
1) In un articolo dell'inserto economico di la Repubblica (lo trovi qui) si parla del "capitalismo del web" come della "vera rivoluzione". In tedesco viene definita Plattform- Kapitalismus, in inglese Share Economy. Chi si oppone a questo nuovo modello viene chiamato "conservatore" e additato come persona fuori dalla storia. Eppure in questo meccanismo ogni pezzo della nostra vita diventa merce e non esiste alcuna regola al di fuori di quelle del mercato. Di nuovo torna l'elogio della flessibilità, come se questa non si fosse rivelata un dramma di precariato ed insicurezza nel recente passato. Come risponderesti ad Alessandro De Nicola, autore del suddetto articolo?
Direi che De Nicola, e gli altri con i quali fa il corifero, vedono dei cambiamenti senza rendersi conto di che cosa si tratta. Da come descrive il Plattform Kapitalismus - "un sistema di scambi volontari attraverso il quale una persona mette a disposizione i propri beni per il loro utilizzo parziale da parte di altri attraverso una piattaforma web gestita da un'organizzazione o un'impresa" descrive un’evoluzione del sistema in modo apologetico, invece che critico. Non vede, innanzi tutto, che c'è una forma di parassitismo dell'impresa che crea la piattaforma, la quale preleva una parte dei soldi che passano di mano per il solo fatto di fare da intermediario. In fondo, dietro a questo sistema non c'è altro che il vecchio commerciante tecnologicamente ripulito.
Tuttavia, in quel "mette a disposizione" c'è una dinamica della quale De Nicola non ha proprio idea. La società borghese poggia infatti storicamente sul fatto che i beni di ognuno sono sua proprietà esclusiva. Storicamente chi ospitava a casa sua estranei in cambio di denaro era considerato un “poveraccio”, che non aveva abbastanza per vivere e lo rimediava in quel modo. Ricordo ancora chiaramente gli affittacamere degli anni ’40 e ’50 nel mio palazzo, così come ricordo delle famiglie che riciclavano i vestiti dismessi dei figli per integrare un misero reddito. Questo perché alla forma merce della ricchezza si accompagnava normalmente l'uso esclusivo della stessa. Solo i poveri dividevano quel poco che avevano in cambio di denaro, ma lo facevano perché costretti dalla loro povertà. È fuori di dubbio che, se il buon Adam (personaggio della “parabola” apologetica del De Nicola, avesse i soldi agirebbe in tutt'altra maniera, e cioè noleggerebbe una macchina o prenderebbe un taxi invece di doversi rivolgere a quello che fino a ieri era considerato un abusivo; invece di andare a casa di una "deliziosa"(?) vecchietta a mangiare, andrebbe in un buon ristorante; invece di noleggiare uno smoking, che magari gli andrà largo o stretto, lo avrebbe comperato; invece di affittare una casa per tre giorni sarebbe andato in albergo. L’ignorare che la condivisione per necessità è una manifestazione di povertà, può derivare solo da una forma apologetica di pensiero, che raccolta la vita in maniera favolistica. Gli individui che non possono soddisfare i loro bisogni sono costretti a muoversi entro limiti che mettono in discussione la loro proprietà (privata), e poiché gli intermediari capitalisti creano le condizioni tecniche della riuscita di questo regresso, De Nicola e gli altri la incensano come “libertà rivoluzionaria”.
La mistificazione sta, dunque, nel far apparire questa necessità come una libertà. Nel rappresentarla addirittura come un potere nuovo, che “rivoluzionerebbe” lo stato di cose esistente. Qui bisogna procedere con circospezione. È vero che questa forma di condivisione mercantile di momenti della vita e della cose rappresenta un’ulteriore socializzazione delle condizioni dell’esistenza. Ma il fatto che intervenga in forma capovolta, cioè sulla base dei rapporti capitalistici, la determina come un’evoluzione profondamente contraddittoria. Per spiegarmi meglio. Un passaggio del genere è già intervenuto nella storia dell’umanità. Come forse sai, nel Seicento e nel Settecento, molti borghesi in ascesa cercavano di affermare il loro potere – potenzialmente nuovo – con l’accesso alle forme del potere preesistenti. Vale a dire che chiedevano di entrare a far parte della nobiltà. Non si rendevano conto che il tal modo confermavano proprio quei rapporti dai quali cercavano di emanciparsi. Ma quando, a fine Settecento, riconobbero il loro errore, mossero in direzione opposta, abolendo i titoli nobiliari come forme del potere sociale, e rivendicando l’eguaglianza di tutti gli individui. Ora, questa “condivisione mercantile della vita e dei beni svolge un ruolo analogo a quella della rivendicazione dei titoli nobiliari da parte dei borghesi: riproduzione di un abbozzo del nuovo in una forma vecchia che lo contraddice.
Purtroppo mancano oggi i soggetti capaci di sperimentare la contraddittorietà di questa evoluzione, e sta a quei pochi che conservano un approccio critico alle forme di vita, socializzare la loro esperienza.
In una precedente intervista ci avevi spiegato come separare la questione del reddito dal tema del lavoro sia funzionale all'impedirci di pensare ai modi di produzione. Su Il Becco abbiamo tentato spesso di andare oltre il dibattito sul reddito di cittadinanza, provando a guardare a una nuova proposta di società. Tu credi che per poter ipotizzare nuovi modelli economici si debbano recuperare Marx e Keynes?
Marx e Keynes sono i pensatori che più di altri hanno saputo anticipare la dinamica insita nei rapporti sociali capitalistici e del livello ai quali sono giunti oggi. E siccome sarebbe ingenuo sperare di poter procedere da zero, ad essi dobbiamo far riferimento. È però importante distinguere il pensiero dei due autori, da quello di molti seguaci che si sono susseguiti nel tempo.
Come per il resto dei problemi sociali dei quali si nega la complessità, il pensiero di Marx e di Keynes, è stato spesso banalizzato, sia dagli avversari che dai seguaci. Quanti keynesiani oggi insistono che le vecchie politiche keynesiane dovrebbero consentirci di riprendere la strada della crescita! Ma entrambi gli autori hanno sottolineato che quando sopravviene una crisi è illusorio pensare di poter affrontare i problemi ferma restando la struttura delle relazioni sociali. La crisi corrisponde infatti al disgregarsi della forma di vita data, per l’inadeguatezza della cultura nella quale si concretizza. Certo, si tratta di un compito immane, che però non può essere evitato. Ma credo che la maggior parte dei keynesiani non abbiamo alcuna idea di che cosa possa trattarsi. Ma anche molti sedicenti marxisti, rimasticano vecchie categorie, che indubbiamente erano adeguate per le lotte del passato, ma che ornai non sono più all’altezza del mondo che abbiamo creato.
In un recente libro-intervista di Carlo Formenti e Fausto Bertinotti la crisi della socialdemocrazia è direttamente collegata alla fine dell'esperienza del socialismo reale e al mutamento sociale che ha sgretolato ogni classica forma di rappresentanza, anche sindacale. Le speranze si rivolgono ai movimenti dal basso e a chi spesso guarda ad un paradigma alto-basso sostitutivo di quello destra-sinistra. Sindacati e partiti appaiono strumenti superati. Tu che ne pensi?
Non credo che sia stata “la fine del socialismo reale” a determinare “lo sgretolamento di ogni forma classica di rappresentanza”. È piuttosto che il mondo è cambiato così profondamente, in conseguenza del raggiungimento degli obiettivi che in maniera solo parzialmente consapevole la società ha perseguito che rende i preesistenti rappresentanti non all’altezza dei nuovi problemi. Se si prova a spiegare ad un sindacalista o a un politico che, come avevano previsto sia Marx che Keynes, è emersa “una difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato” e li vedrai letteralmente scappare. Si tratta di un problema che per loro è impensabile – e lo è stato anche per Bertinotti, che in un congresso di Rifondazione ha sostenuto che si trattava di un’emerita bufala. Ma se il riconoscimento dell’emergere di questa difficoltà si frappone alla rappresentazione di qualsiasi sviluppo alternativo, è ovvio che chi pretende di rappresentare i bisogni della società finisca col mostrare una totale impotenza. E prima o poi non venga più ascoltato.
Trovo l’idea di un movimento salvifico “dal basso” una vera e propria trappola. Per concepirla bisogna avere un’idea del tutto distorta della situazione in cui ci troviamo. Vale a dire che le classi dominanti non andrebbero incontro ai bisogni delle masse per opportunismo o per cattiveria. Ma nella realtà le classi dominanti sono travolte da una totale incomprensione della crisi. Tuttavia le classi subalterne non sanno esprimere i loro bisogni e la loro condizione contraddittoria meglio di loro. Mi trovo continuamente a discutere sulle questioni previdenziali, con compagni molto schierati e critici. Eppure, scava scava, e ti trovi di fronte a forme di pensiero che non hanno nulla di alternativo rispetto al demente senso comune oggi prevalente. Non dimentichiamo che quando è stato investito da Napolitano del compito di formare il governo, Monti aveva il gradimento positivo di circa il 70% degli italiani.
Temo che prima di porre il problema di chi rappresenta coerentemente i bisogni sociali si debba ancora lavorare a dipanare la matassa della costruzione di una cultura alternativa. Non è detto che poi non si riesca ad organizzare il movimento in una forma partitica (profondamente diversa da quella attuale) e a trovare lo spazio per agire sindacalmente.
“Aujourd’hui ma mère est morte”. Così inizia lo straordinario romanzo di Camus, “Lo straniero”, cui ha ridato voce l’altrettanto straordinario Fabrizio Gifuni, in “Lo straniero. Un’intervista impossibile” da martedì 19 a domenica 24 aprile al teatro Niccolini, per la regia di Roberta Lena.
Gifuni si è calato magistralmente ed emotivamente nei panni di Meursaul,t il protagonista del suddetto capolavoro di Camus, ambientato nell’assolata e secca Tunisia. Meursault è un osservatore meticoloso di quel che accade intorno a lui, ma il suo sguardo chirurgico che getta su fatti e sentimenti umani non si rivela altrettanto penetrante per quanto riguarda il suo di animo umano. Sembra un uomo svuotato di passioni, un po’annoiato o inaridito, quasi apatico, indifferente sull’esito di qualsiasi scelta gli si apra davanti. L’una vale l’altra, il più delle volte. È straniero a se stesso e alla propria esistenza, si adagia con tranquilla noncuranza a tutto ciò che gli
Dopo essere stato presentato a Roma, presso la Farnesina, lo scorso 6 aprile, anche a Parma, il 27 dello stesso mese, si è tenuta l'illustrazione dell'Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (www.straginazifasciste.it).
L'iniziativa è stata organizzata dall'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea della città ducale, ed ha visto la partecipazione del prof. Paolo Pezzino, docente all'Università di Pisa e direttore scientifico del progetto; di Massimo Storchi, Responsabile del polo archivistico dell'Istituto Storico della Resistenza di Reggio Emilia, e del ricercatore Tommaso Ferrari, curatore delle schede riguardanti la provincia di Parma.
L'Atlante, nato grazie al contributo di storici, ricercatori ed enti, intende porsi come voce, nel web, del grande lavoro di documentazione portato avanti dagli Istituti Storici dell'Italia centro-settentrionale sulle stragi compiute dalle forze di occupazione tedesche, e dai collaborazionisti italiani, durante la Guerra di Liberazione Nazionale.
Nel proprio intervento il professor Pezzino ha sottolineato come l'Atlante - frutto di due anni di lavoro di 115 ricercatori - sia un work in progress, destinato ad arricchirsi sulla base di segnalazioni di nuovi eventi, di errori, o mediante nuovi dati, forniti da utenti, studiosi, enti e comunità locali.
La ricerca è stata finanziata dalla Repubblica Federale Tedesca, come risposta al rifiuto di corrispondere indennizzi ai familiari delle singole vittime dei fenomeni stragisti compiuti dalle truppe tedesche nel nostro Paese tra il 1943 ed il 1945.
Da un punto di vista metodologico, l'innovazione portata da questo progetto, consiste nell'aver incluso tra le stragi anche le singole uccisioni e non solamente quelle definite, propriamente, come tali. Una innovazione che consente di avere un panorama più ampio e dettagliato della violenza nazifascista perpetrata contro civili e partigiani - e qui sta l'altra novità - disarmati. Oltre ai civili propriamente detti, infatti, sono stati inclusi tutti gli episodi che hanno visto vittime partigiani che si erano arresi e che, contrariamente a quanto prevederebbero le leggi di guerra, non avevano alcun riconoscimento ufficiale di combattenti, e le conseguenti garanzie che da tale status derivano. Esclusi dalla ricerca sono state, invece, le vittime di episodi non afferenti a rappresaglie e rastrellamenti, come i caduti a causa di bombardamenti o mine.
Importante sottolineatura è presente già nel nome del progetto. Il “naziste e fasciste” non è infatti casuale, ma intende evidenziare una autonomia stragista presente nelle truppe e nei singoli combattenti della RSI. Una vocazione stragista spesso prescindente dalle azioni dell'alleato.
Gli episodi censiti sono stati 5.428 per un numero totale di vittime di 23.461. Tra le regioni con più caduti vi sono l'Emilia Romagna (4.213) e la Toscana (4.465), le due regioni più prossime alla Linea Gotica e che per tale ragione più soffrirono della violenza dell'occupazione. Terza regione per numero di vittime il Piemonte, con 2.792 caduti, per oltre il 50% partigiani; seguito da Veneto, 2.383 caduti, e Campania, con 1.409 uccisioni. Dato, quello campano, che dà una misura della violenza a cui si lasciarono andare le truppe germaniche, anche quando non si trovarono ad affrontare un movimento partigiano organizzato (i caduti campani saranno, infatti, quasi tutti civili). Altro dato importante, per numero di caduti, riguarda il Friuli, dato che va completato, per avere una visione d'insieme, con le vittime nelle zone annesse dall'Italia e che oggi sono sotto sovranità slovena e croata.
Proseguendo nell'illustrazione dei dati principali, si hanno 2.725 episodi con singole uccisioni; 2.215 stragi con un numero di morti compreso tra i due ed i nove; 434 stragi con da 10 a 49 vittime; 40 con un numero di vittime tra le 50 e le 99 ed, infine, 14 stragi con oltre cento caduti.
Cronologicamente i picchi stragisti si sono verificati nell'autunno del 1943 (quindi sin dai primi passi compiuti dal movimento partigiano nella Guerra di Liberazione Nazionale) e nell'estate del 1944. Dopo un primo calo nel numero del vittime, di nuovo si ha un aumento del numero dei crimini a danno di persone disarmate nell'ultima parte della guerra, causato dalle truppe in ritirata (sia per motivi di natura strategica sia per il verificarsi di vendette e fenomeni dovuti a frustrazioni per la sconfitta ormai imminente).
Percentualmente la maggior parte degli episodi censiti hanno riguardato rastrellamenti (il 30%), seguiti da rappresaglie (17%), fatti afferenti la ritirata delle truppe (13%) e motivi punitivi (10%). Tra i reparti tedeschi che più hanno contribuito a questo macabro elenco la 16ª Divisione Panzergrenadier delle SS.
Per quanto concerne le modalità, la maggioranza delle uccisioni (il 38%) sono avvenute mediante fucilazione. Continuando tra i dati forniti da Pezzino nel proprio intervento, circa gli autori delle stragi si ha un 61% degli episodi (con il 64% delle vittime) di cui si resero protagoniste le truppe naziste; il 19% compiuti da militi della RSI (che hanno provocato il 12% delle vittime) ed il 14% (ed il 20% delle vittime) delle stragi operate congiuntamente dalle due forze.
Per quanto afferisce alla tipologia delle vittime ai primi posti si hanno 12.581 civili; 6.776 i partigiani arresi o comunque disarmati; 371 persone legate ai partigiani; 212 disertori; 888 appartenenti ad altre categorie (religiosi, carabinieri etc.); 357 antifascisti.
Il 68% delle vittime era nella fascia d'età compresa tra i 17 ed i 55 anni e l'81% erano uomini.
Altri dati, estremamente dettagliati, ed illustrati strage per strage, sono presenti sul portale, e ad essi è garantito il carattere scientifico dall'importante lavoro di controllo effettuato sugli stessi.
Secondo ad intervenire il ricercatore Tommaso Ferrari, curatore delle schede parmensi del portale, che ha illustrato i fatti (117 per un totale di 414 vittime) avvenuti nel territorio parmense dal febbraio del 1944 all'aprile del 1945.
Primo episodio di rappresaglia che colpì la provincia fu quello del primo febbraio 1944, avvenuto per ritorsione rispetto alla morte di un fascista ucciso da un bomba in un bar il giorno prima, e costò la vita a tre persone: tra esse l'antifascista Tommaso Barbieri.
Gli ultimi episodi che insanguinarono la provincia sono avvenuti nella coda degli eventi bellici, nella cosiddetta “sacca di Fornovo”, il 27 aprile 1945, e videro come matrice delle stragi le truppe tedesche in ritirata. Saranno nel complesso 82 le vittime parmensi di rappresaglie tra il 24 ed il 27 aprile 1945. Quasi tutte queste uccisioni si situano tra Fornovo, Salsomaggiore ed il Po, lungo la direttrice seguita dalle truppe tedesche in ritirata.
Altro fenomeno di cui fu vittima la provincia di Parma, insieme a quella di Reggio, fu la cosiddetta Operazione Wallenstein, mirante a rastrellare lavoratori da destinare al lavoro coatto (saranno 1.800 le persone catturate tra Reggio e Parma tra la fine di giugno e quella di luglio del 1944).
Ultimo intervento quello dello storico Storchi, il quale ha sottolineato l'importanza dell'analisi di questi dati. In particolare di grande importanza sono episodi “piccoli” - che nel reggiano hanno lasciato sul terreno più vittime delle stragi maggiormente note: Cervarolo e Bettola - per comprendere la diffusione della violenza stragista perpetrata dagli occupanti, sottolineando l'autonomia stragista delle truppe della RSI, spesso non benvista, per motivi non umanitari ma di natura tattica, dagli stessi comandi tedeschi.
Autonomia fascista che si manifestò anche nella tipologia dei saccheggi, non legati soltanto a necessità alimentari, ma che si caratterizzarono spesso come vere e proprie razzie, con successivo incendio delle case.
In conclusione l'Atlante rappresenta una fonte preziosa ed un'utile sistematizzazione di una grande quantità di informazioni sulla violenza stragista che colpì l'Italia tra il '43 ed il '45, ed è destinato non solamente a ricercatori e storici, ma anche a scuole, enti locali, per iniziative legate alla memoria storica ed in generale all'opinione pubblica del nostro Paese.
L’associazione Soropstimist International, “organizzazione per donne di oggi impegnate in attività professionali e manageriali” allo scopo di attuare il “potenziale individuale e collettivo” delle donne aiutandole a realizzare le loro aspirazioni e avere pari opportunità, insieme con l’Associazione Filosofica Italiana, che intende “promuovere la ricerca e la diffusione della cultura filosofica, anche attraverso il confronto con altri saperi” hanno realizzato, venerdì 15 aprile, un’interessante giornata di studi presso la Sala Ferri del Gabinetto Viessiuex, resa possibile anche grazie al patrocinio del Comune di Firenze. Il titolo del convegno era “Nel nome di Gaia. Il pensiero femminile per
Sempre nell’ambito del convegno “Magia dell’arte, arte nella magia” [vedi articolo precedente], presso l’Istituto Francese di Firenze, il professor Fulvio Cervini, che insegna storia dell’arte medievale presso l’Università degli Studi di Firenze (dip. SAGAS), si è concentrato sulle leggende edilizie di epoca medievale – rielaborate in gran parte verso l’ottocento – intitolando la propria relazione “Edifici incantati e costruttori diabolici. Tracce medievali per un’antropologia dell’architettura”.
Molti sono i casi di sepolture all’interno di edifici, chiese, ponti etc., in modo che l’incorporazione del defunto entro una parte dell’edificio potesse garantirne la stabilità e la durata eterna, quasi ne diventasse il protettore o il custode soprannaturale.
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