Le varie forme de "sapere", che cerchiamo di organizzare tra divulgazione scientifica (cliccando qui), scienze umanistiche (cliccando qui) e scienze sociali (cliccando qui), sfruttando le pur discutibili suddivisioni del nostro sistema accademico.
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Entra allora in scena un altro medico, Milton Diamond, un noto endocrinologo che sostiene invece una tesi opposta a quella di Money, vale a dire la tesi essenzialista: secondo tale teoria, la natura dell’identità di genere non è affatto neutra o frutto di una genesi sociale e culturale, bensì è ormonale, genetica. Se alla nascita vi è la presenza genetica del cromosoma Y, anche in assenza del pene e anche in seno a un’educazione “femminile”, resta inevitabilmente la presenza di un istinto sessuale maschile, di preferenze e desideri da maschio, perché il cromosoma Y “agisce implicitamente nella strutturazione del senso e dell’autoconsapevolezza di persona sessuata” (Fare e disfare il genere). Questa presenza originaria del cromosoma maschile prescinde dunque, per Diamond, dal fatto che l’organo sessuale ci sia o non ci sia, perché quella mascolinità genetica resta, anche laddove non appare. Brenda trova allora in questa idea un sostegno e una speranza di poter diventare il maschio che sente di essere e assume il nome di David. Così si affida nelle mani dell’endocrinologo e a 14 anni decide di farsi somministrare il testosterone e di farsi asportare i seni. A 15-16 anni a Reimer viene dunque implementato un “fallo” (Diamond usa proprio tale termine nei suoi appunti) che si avvicina solo in parte alle normali funzioni e quindi di conseguenza solo in maniera ambivalente permette a David di accedere alla norma: David non è in grado di eiaculare, benché provi un certo piacere, e urina dalla radice del pene. Anche in quest’altro sviluppo della vicenda di David si assiste però, di nuovo, a una strumentalizzazione del suo caso per dimostrare una tesi che si sostiene: anche Diamond si serve perciò di Reimer per capovolgere la tesi del costruttivismo di genere attraverso la nozione di un nucleo costitutivo del genere, legato inestricabilmente all’anatomia natale e al determinismo biologico.
Una lezione davvero interessante quella tenutasi giovedì 3 dicembre, durante il corso di filosofia politica a scienze politiche presso il Polo Universitario di Novoli. La docente del corso, la professoressa Brunella Casilini ha voluto fare un regalo ai suoi studenti (e a tutti coloro, colleghi, laureandi, studenti di altre facoltà che hanno assistito alla lectio magistralis) invitando ad approfondire uno dei testi in programma, “Fare e disfare il genere”, di Judith Butler con Federico Zappino, studioso di filosofia politica e uno dei massimi esperti del pensiero della filosofa statunitense, nonché traduttore e curatore della recente nuova edizione (Mimesis) del succitato testo, oltre ad aver tradotto e curato anche “La vita psichica del potere” (anch’esso edito da Mimesis) e aver pubblicato, insieme a Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini “Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti.”(Mimesis, 2014)
Il Pensiero di Althusser IV: materialismo aleatorio e teoria generale della società
La concezione althusseriana del cambiamento sociale e politico come esito di un complesso reticolo di influenze fra le varie sfere della società, secondo il principio della surderminazione (come abbiamo visto nel precedente contributo), è coerente con la lettura antistoricista che il filosofo francese dà del capitale: non ci sono meccanismi automatici che determinano il passaggio da un sistema di produzione all'altro, bensì solo delle concrete situazioni storiche, in cui, in maniera casuale, o quantomeno non del tutto deliberata da alcun soggetto, si può verificare la simultanea presenza di una grande quantità di contraddizioni nei rapporti sociali, economici, culturali tali da portare a una rottura dirompente col passato.
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Terminato il suggestivo e appassionato intervento (o testimonianza) di Organisti, è Sandro Palazzo a prender la parola. Il suo, afferma, sarà un Deleuze “un po’più autunnale”. Palazzo parte infatti da un testo deleuziano del ’92, “L’épuisé”, ovvero “L’esausto”, uno scritto su Beckett. Vi è una differenza, sostiene Deleuze, tra lo stanco e l’esausto. Lo stanco è colui che
“non dispone più di nessuna possibilità (soggettiva): e non può quindi mettere in atto la minima possibilità (oggettiva). Ma questa possibilità permane, perché non si attua mai tutto il possibile, anzi lo produce man mano che si va attuando. Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile. Lo stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare” (G. Deleuze).
“Un po’di possibile, sennò soffoco”
Gilles Deleuze
Continua il ciclo di appuntamenti filosofici al Gabinetto Viessieux, organizzata dall’Associazione Quinto Alto. Stavolta il protagonista della conferenza è stato Gilles Deleuze, a vent’anni dalla sua morte. Non a caso il titolo dell’incontro del 30 novembre era proprio “Ripensare Deleuze. A vent’anni dalla morte”.
Katia Rossi, moderatrice del dibattito, introduce la figura di questo affascinante ed eccentrico filosofo ricordando in particolare il volume di opere postume pubblicato a distanza di dieci anni dalla sua morte, curato da David Lapoujade, col titolo di “Les mouvements aberrants” (éditions de Minuit) e che raccoglie soprattutto una serie di lettere e interviste lasciate dal filosofo francese.
Dal convegno Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi, altri due interventi molto suggestivi e appassiona(n)ti raccontano due donne, due anime completamente diverse.
Irene Dati, giovane studentessa iscritta alla magistrale di scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Firenze ci narra la struggente storia di Alcesti, protagonista della tragedia (ma tragedia a lieto fine in realtà) di Euripide, probabilmente rappresentata alle feste Dionisie del 483 a.C. La struttura della tragedia ricorda più quella di una fiaba, anche per il finale luminoso e lieto che ribalta gli eventi tragici avvenuti prima.
Nel prologo il Dio Apollo racconta di esser stato condannato dal padre Zeus a fare da schiavo nella casa di Admeto, re di Fere, in Tessaglia. Già qui dunque assistiamo a un fatto piuttosto insolito: una divinità che è schiava di un uomo mortale. Admeto è comunque un ospite perfetto, accogliente e benevolo e grazie a queste sue qualità si guadagna il rispetto del dio. Proprio per la stima nutrita nei confronti del padrone, Apollo ottiene dalle Moire che Admeto possa sfuggire alla morte, a patto che qualcuno decida di sacrificarsi per lui. Nessuno però né gli anziani parenti né i più cari amici sembrano disposti a un tale e letale sacrificio. Soltanto lei, Alcesti, l’amatissima sposa è disposta a rinunciare alla propria vita per risparmiare quella dell’altrettanto amato marito. Quando Thanatos, la morte, entra in scena Apollo invano cerca di impedire che la giovane e coraggiosa fanciulla venga sacrificata e si allontana dalla casa invasa da un’angosciante silenzio. Quando il coro dei cittadini di Fere incombe sulla scena si consuma la tragedia. Una serva annuncia che Alcesti è pronta a morire ed ecco che si apre una delle immagini più potenti e strazianti della tragedia: la regina saluta la luce del sole, quel sole che non potrà mai più vedere, da cui non potrà mai più essere illuminata e scaldata. La attendono la notte e le tenebre eterne dell’oscurità dell’Ade e dovrà congedarsi da quella luce tanto cara e preziosa:
“Sole, luce del giorno, ètere, limpide e veloci nuvole […] Terra, tetto dell’atrio, nunzial talamo di Jolco […] Lasciatemi, lasciatemi, adagiatemi. Più non mi reggono i piedi. Morte è già presso: ombrosa notte sopra gli occhi cala. Figli, figli, la madre vostra non vive più. Addio figli, godete questa luce del giorno. ” Admeto si dispera, piange, non vorrebbe mai lasciare la sua sposa: “Ahimè, questi detti al mio cuore son più che ogni morte funesti! Oh no, non partire, ti prego […] Se muori, io morrò. Tu sola puoi darmi la vita o la morte.” Niente però potrà fermare la risoluzione di Alcesti, pronta a morire per l’uomo che ama a cui però porge un’ultima richiesta, esige da lui un’ultima promessa: “Admetoa te che la mia sorte vedi, dirò, pria di morir, quello che bramo. Io più che me, te caro avendo, a prezzo del viver mio, la luce a te serbata, muoio. E potevo non morir per te […]. Ma divelta da te non volli vivere […] un Dio volle che così fosse tutto questo. E sia. Ma tu, memore, rendimi una grazia. Al beneficio pari non sarà, ché nulla val quanto la vita vale; ma ben giusta: e tu stesso lo dirai: ch'ami non men di me questi fanciulli, se pure hai senno. Fa' ch'essi padroni sian della casa mia, schiva le nozze, ai figli miei non dare una matrigna […] Non farlo, no, ti prego. Ai primi figli sopraggiunge nemica una matrigna: cuore non ha più mite d'una vipera. […] Io morir devo, e non domani, e non il terzo dí del mese, il mal m'attende; ma fra poco viva chiamar me non potrete. Addio, siate felici. Glorïarti, o sposo, potrai che la tua sposa ottima fu: e voi, figliuoli, della madre vostra”
Alcesti fa dunque promettere allo sposo di restargli fedele anche da morta, di non portare a casa una nuova moglie e una matrigna per i figli. Admeto promette:
“Sarà, tutto sarà. Non temere. Io t’ebbi sposa da viva; e morta, ancora unica sposa mia detta sarai. Niuna Tessala più mi chiamerà sposo, e sia pur di nobil stirpe, sia di vaghissime forme […] E non un anno il lutto tuo porterò; ma sin ch’io resti in vita […] Ora attendimi là, quando io sia morto, e prepara la casa ove dimora avrai con me. Ché porre io mi farò in questa stessa arca di cedro, il fianco vicino al fianco tuo; né morto mai, sarò da te disgiunto, o sola fida!”
Alcesti quindi muore e tutti la piangono disperati. Bellissime le parole di Admeto, del l figlio Eumelo e dei Corifei nel Peana funebre. Dopo il compianto entra in scena Eracle, intento in una delle dodici fatiche per chiedere ospitalità ad Admeto. Questi racconta all’eroe, non potendo nascondere il proprio dolore, che era morta una donna, non consanguinea. Dopo altre vicissitudini, uno schiavo del re rivela ad Eracle l’identità della donna. Eracle allora decide di scendere nell’Ade per riportare in vita Alcesti.
L’eroe, ripresa così la donna, torna alla reggia, tenendo tra le braccia la regina coperta da un velo, fingendo di averla avuta come premio durante i giochi pubblici, per testare così la fedeltà del re. Admeto ha inizialmente orrore persino a toccarla e, fedele alla promessa fatta alla consorte in punto di morte, vieta all’eroe di entrare con lei. Alla fine, dopo l’insistenza di Eracle Admeto acconsente a guardare la fanciulla velata.xc .
Anna Scattigno, ricercatrice in Storia del Cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi di Firenze e co-fondatrice della Scuola Italiana delle Storiche, invece ci racconta un’altra donna, molto diversa da Alcesti. Anche in questa vicenda emerge il tema della fedeltà assoluta. Ma si tratta di una fedeltà molto diversa da quella, dettata dall’amore profondo dei due eroi greci. La donna in questione è Maria Teresa d’Austria, nata nel 1717 e che, grazie alla Prammatica Sanzione del 1713, emanata dal padre Carlo VI – che stabiliva l’immutabilità e l’indivisibilità della successione nella Monarchia Asburgica garantendo dunque un solo ordine di successione – nel 1740 ereditò il regno della Monarchia Asburgica e sposando Francesco I di Lorena fu fondatrice del casato Asburgo Lorena. Soltanto dopo la guerra di successione, con la pace di Aquisgrana del 1748 l’imperatrice poté prendere possesso dei suoi diritti di imperatrice. La coppia imperiale ebbe ben 16 figli. Infatti Maria Teresa a una politica di guerra per saldare i confini dell’impero preferiva una politica di alleanze matrimoniale, predisposizione che la portò ad avere forti conflitti con il figlio Giuseppe – co-reggente nel 1765 dopo la morte del padre Francesco I e futuro imperatore del Sacro Romano Impero.
Il profondo contrasto è evidente nella corrispondenza che i due intrattenevano. La politica del fare figli aveva però anche un’altra funzione per l’imperatrice: rappresentava il proprio dovere di sovrana. Dovere che avrebbero dovuto introiettare e mantenere tutte le sue figlie e future regine. Nelle lettere che Maria Teresa inviava a figlie e nuore questo aspetto veniva sempre ribadito e sottolineato con forza. In una delle lettere inviata a una delle sue nuore che stava allattando un figlio, scriveva: “Ad onta dei miei sedici figli io non so niente. Per tutto quel che riguarda il parto ho preferito rimanere ignorante per poter conseguire al meglio la mia obbedienza. Per poter obbedire al meglio.” La corrispondenza di Maria Teresa è davvero imponente e ricca in particolare di lettere ai figli. Vi è un’edizione relativamente recente, edita a Berlino nel 1940, con il titolo “La moglie e la sovrana” a cui fa riferimento l’edizione italiana curata da Alberto Spaini.
Lo stile dell’imperatrice si esprime al meglio nelle lettere scritte in francese. Maria Teresa conosceva moltissime lingue (tedesco, latino, italiano, francese, ungherese) ma mentre nella lingua tedesca risulta più dura, più brusca, la lingua e la cultura francese le insegnava una moderazione, una dolcezza che mancavano nella sua madrelingua. Le lettere a Giuseppe sono sicuramente le più importanti dal punto di vista politico ed emergono non solo il divario tra due opposte visioni politico-strategiche, ma anche tra due diverse visioni culturali e ideologiche: Giuseppe era imbevuto di cultura illuminista, mentre Maria Teresa, per quanto la conoscesse, da fervente cattolica e convinta che solo la religione – e le alleanze matrimoniali – potesse garantire una convivenza pacifica, non la condivideva.
Ci sono poi anche molte lettere all’atro figlio, Pietro Leopoldo – futuro Granduca di Toscana – che risultano molto diverse rispetto a quelle indirizzate a Giuseppe. La famiglia Toscana di Pietro Leopoldo diventerà, agli occhi della madre un modello perfetto tanto che in questa corrispondenza emerge una sorta di idillio e serenità familiare: si parla di viaggi, vita domestica..
Anche agli altri due figli, Ferdinando e Massimiliano – avviato alla carriera ecclesiastica – Maria Teresa non manca di inviare lettere.
Ma le più grandi differenze emergono nella corrispondenza alle figlie, i cui contenuti sono totalmente diversi da quelli presenti nella corrispondenza ai figli maschi. Le otto arciduchesse sembrano lì per costruire alleanze matrimoniali, in particolare con le corti più rilevanti d’Europa: Francia e Regno di Napoli. Alla prima verrà mandata Maria Antonietta, a soli 13 anni, al secondo Maria Carolina a soli 15 anni. Praticamente due adolescenti appena uscite dall’infanzia. Maria Amalia e Maria Carolina hanno invece un’età maggiore quando verranno date in moglie: la prima a 23 anni, la seconda a 24.
Dalla corrispondenza emerge che forse, la figlia prediletta di Maria Teresa è Maria Cristina, che addirittura viene chiamata dalla madre “mia unica amica”. Maria Cristina è molto innamorata di Alberto di Sassonia e sarà proprio Maria Teresa a fare trattative segrete affinché l’amata figlia possa sposare, stavolta per amore, l’uomo che desidera, nonostante la contrarietà dei principi, soprattutto di Giuseppe. Si tratta forse dell’unico matrimonio d’amore, anzi, di amour-passion, perché anche questa passione sarà destinata a consumarsi e anche il matrimonio di Maria Cristina non si rivelerà un matrimonio felice. È però questa passione che Maria Teresa rimprovera alla figlia il cui comportamento passionale, da donna dominata da un amore travolgente, rischia di mandare a monte le trattative che la sovrana sta cercando di intrattenere per lei. Nello stesso tempo questo amore la rimanda, col ricordo, al suo. Un amore non passionale ma che le aveva assicurato “29 anni di matrimonio felice”. L’amor “fou” di Maria Cristina è molto diverso da quello, mite, tranquillo, amichevole e fondato sulla reciproca stima, sul reciproco rispetto e sulla reciproca fedeltà, che aveva conosciuto Maria Teresa e che pur era stato amore. Una forma diversa di amore ma sempre amore era. Proprio per questa sua esperienza la regina cerca di educare la figlia a moderare la propria passione, a temperarla, a trasformare quell’amore folle e selvaggio in un sentimento più “educato”, più consono al ruolo di una sovrana.
“Questo è il mio consiglio”. Frase che ricorre spesso in tutte le lettere e che diviene quasi la firma, la traccia emblematica dell’indole e del carattere di Maria Teresa. Tra i consigli e i principi che la donna prodiga alle figlie ce ne sono alcuni per lei fondamentali: una delle norme più importanti del matrimonio è la sottomissione della moglie-madre al marito. Parlando delle figlie, in una lettera, la sovrana scrive: “sono nate per obbedire e devono acquistare col tempo questa abitudine.”
Si tratta di una doppia obbedienza, come donna e come principessa. E ancora: “La moglie è sottoposta al marito, egli è il nostro solo scopo. Lo dobbiamo servire e aiutare. Lo dobbiamo vedere come un amico fraterno e il migliore compagno”. Dunque una devozione assoluta.
“La moglie è tenuta ad obbedire al marito. Non deve mirare altro che a renderlo felice e a soddisfare i suoi bisogni”. C’è un totale annullamento dell’individualità della persona umana, un’abnegazione sentita come scelta e come dovere, come unico scopo e unica possibilità di costruire un matrimonio felice per entrambi i suoi membri. “ L’unica vera felicità su questa terra è un matrimonio felice”, scrive ancora Maria Teresa alla figlia Maria Carolina, promessa a Ferdinando IV di Borbone. In tutta questa lettera vi è un’insistente indicazione del “dovere di essere felici”, ma qui, l’unico stato di felicità sembra arrivare solo da un matrimonio felice. Anche quando questo sembra non aver alcuna premessa per dirsi felice. Ferdinando IV infatti è noto per la sua bruttezza e per il suo essere brusco e persino violento, tanto che Pietro Leopoldo scrive alla madre che sua sorella, Maria Carolina piange in continuazione e che ha persino pensato di togliersi la vita. Per tutta risposta ci si aspetterebbe consolazione e conforto da una madre amorevole. Invece nelle lettere che Maria Teresa invia alla sventurata figlia, non vi è alcun cenno di ciò, anzi, vi si continua a ripetere che la possibilità/il dovere di essere felici lo si conquista incarnando la figura della moglie perfetta, ovvero attraverso indissolubilità, obbedienza, sottomissione, docilità, remissione, disciplina. Maria Carolina proverà a seguire i suggerimenti - o meglio, comandamenti! – della madre, ma nonostante questo, non riuscirà a realizzare un matrimonio felice con Ferdinado IV.
La sottomissione soprattutto sembra essere il comandamento che non ammette eccezione alcuna. Anche nei confronti degli errori del marito la moglie deve rimanere imperturbabile e anzi, accettarli e sopportarli con pazienza: “la moglie ha sempre torto, qualsiasi cosa abbia commesso il coniuge.” Un comportamento diverso sarebbe stato, agli occhi di Maria Teresa, sintomo di prepotenza e ad una donna, al prepotenza proprio non si confà!
La moglie deve meritare la fiducia del marito: “la felicità della donna consiste unicamente nella fiducia che il marito ripone in lei.”
Tutti questi insegnamenti normativi, categorici possono risultare alle volte anche molto bruschi e freddi, di una rigidità glaciale che non sembra lasciare molto spazio alle emozioni, alla compassione. Eppure, pur nella loro durezza, pur nella loro incisività poco empatica, testimoniano la convinzione e le buone intenzioni della sovrana, sinceramente persuasa che solo in questo modo la donna, moglie, madre e sovrana avrà la possibilità di rendere felice il proprio matrimonio. Ed è proprio nelle sue mani, nel suo comportamento sottomesso e obbediente che sta la chiave di questa felicità. I comandamenti impartiti alle figlie sono il frutto dell’esperienza personale di felicità di Maria Teresa ed in essi c’è la speranza e la volontà di madre che anche le sue figlie e principesse riescano a vivere una simile esperienza, possibile soltanto, però se fanno propri gli insegnamenti e gli ideali che ella stessa consegna loro in eredità. La felicità cui fa riferimento la sovrana è stata possibile grazie al suo atteggiamento docile e remissivo, degno di una moglie e di una regnante, che ha potuto costruire un matrimonio fondato sulla stima reciproca, su una profonda amicizia e su un reciproco scambio di servigi tra lei e il marito, di cui si era conquistata la fiducia, evitando così da parte di quest’ultimo un comportamento di imponenza e dominio. Alla fine, quel che Maria Teresa sembra dire alle figlie è che il buon esito della felicità di entrambi i coniugi dipende dalla donna ed è forse questo aspetto che risulta più carico di pesantezza normativa, proprio perché il matrimonio deve esser visto, dalla donna, come una vera missione. Missione che si allarga dalla sfera privata dei doveri e delle responsabilità nei confronti del marito e dei figli a quella pubblica, dei doveri e delle responsabilità nei confronti dei propri sudditi: “La principessa quando viene inviata nelle nuove corti è straniera e prima suddita. Perciò deve in primo luogo imparare la lingua – cosa che deve essere di conoscenza pubblica – per diventare una cittadina del Regno, e impararne le usanze.” Isabella, infante di Spagna, ad esempio, cercò di comprendere le minime usanze del paese, guadagnandosi così l’apprezzamento e la benevolenza dei suoi sudditi, la stima di una Nazione che l’accolse a braccia aperte.
Altra convinzione della sovrana era che la pace della famiglia reale sarebbe stata l’unica condizione per la pace della corte e dello stato. La sottomissione nella coppia coniugale acquista qui, dunque, un ruolo politico, come sottomissione nei confronti del proprio popolo e del proprio regno. Non bisogna mai cercar di prevalere o dominare sul re poiché ciò significherebbe sia la fine della pace coniugale che quella della Nazione. La regina deve tenersi sempre in disparte e non deve fare politica, o qualora il marito le accordi una parte del governo/del regno, l’onore deve andare comunque sempre al re, e non si deve saperlo in pubblico.
Maria Teresa muore nel 1780 con la consapevolezza che tutto il suo ideale, modello di sottomissione e reverenza non era più applicabile in un’Europa cambiata, quel modello non rispondeva più alla nuova cultura che stava prendendo il sopravvento. Questo Maria Teresa lo sapeva bene e ne soffriva, perché riteneva quel modello come l’unico valido e capace di conservare la pace e la felicità tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica e politica. Unico puntello nelle mani della sovrana restava allora soltanto quello della religione, che però non bastò a cancellare quella tragica consapevolezza nel veder dissiparsi un modello morale e culturale in cui non aveva mai smesso di credere.
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