Saperi

Saperi

Le varie forme de "sapere", che cerchiamo di organizzare tra divulgazione scientifica (cliccando qui), scienze umanistiche (cliccando qui) e scienze sociali (cliccando qui), sfruttando le pur discutibili suddivisioni del nostro sistema accademico.

Immagine liberamente tratta da pixnio.com

Lunedì, 07 Settembre 2015 00:00

Studi umanistici ed analfabetismo funzionale

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Parlare della scuola è un po’ come parlare della teoria della relatività. Ci sarebbero da dire mille cose e mille altre vi si potrebbero collegare e soprattutto bisognerebbe essere veramente e pienamente informati. È un macro argomento difficile da trattare, così come è difficile entrare a fondo anche in una sola delle sue infinite “sottoaree”. Vorrei però dire qualcosa riguardo a un recente dibattito che si è aperto in seguito al polverone suscitato da un articolo di Feltri sul Fatto Quotidiano, concernente l’utilità o meno delle facoltà umanistiche. Entro in questo tema perché forse lo sento un po’mio, un po’ vicino a me, essendo io una studentessa di filosofia, dunque di una facoltà umanistica. Il suddetto Feltri sosteneva la pressoché totale inanità degli studi umanistici o ad essi relativamente affini, come anche scienze politiche (o per lo meno credo includesse anche quelli), rispetto a facoltà più direttamente e chiaramente proiettate in maniera più netta e (quasi) automatica (certo, con tutta la difficoltà del momento, della crisi ecc..) verso il mercato del lavoro, quali ad esempio medicina, ingegneria, giurisprudenza. Certo, si tratta effettivamente di facoltà che hanno uno sbocco lavorativo molto più definito e logicamente immediato. Se studio medicina è abbastanza automatico che la mia aspirazione sia quella di diventare un medico o di lavorare comunque entro quell’ambito e presumibilmente sarà quella la mia realizzazione lavorativa. Poi ovvio, ogni persona è diversa e i cambi di rotta nella vita sono frequenti e imprevedibili, anche in quei cammini che appaiono più unidirezionali o talmente scolpiti, che poco spazio lasciano, per lo meno apparentemente, a possibili deviazioni.

Quando invece si parla di studi umanistici, escluso l’insegnamento, che pare/appare l’unica strada perseguibile (benché molto impervia e scalcinata... ma avremo modo di parlare un po’ anche di questo, guardando soprattutto all’ultima riforma della scuola), per lo meno per quanto riguarda facoltà sotto lettere e filosofia, oppure la ricerca (che però in Italia spalanca uno scenario abbastanza inquietante), sembra non ci siano altri ambiti in cui i laureati uscenti da simili facoltà possano essere impiegati, o soprattutto valorizzati per le loro competenze, abilità e conoscenze, se non a costo di fare un lavoretto probabilmente sotto pagato e che tendenzialmente c’entra abbastanza poco con i loro studi. Sicuramente lo studio umanistico o anche quello di scienze politiche ha una “personalità” più sfilacciata, più sfumata, più complessa ma anche più vaga rispetto alla chiara formazione di studi ingegneristici o di medicina o di giurisprudenza. Per dirla brevemente, a un letterato gli si può far fare quasi tutto o quasi niente. Il problema è proprio che tra questi due estremi sembrano non esistere più quelle buone vie di mezzo (la meòtes, il giusto mezzo per dirla con Aristotele, anche se per lui era in senso etico più che altro – perdonate la deformazione professionale!) che forse esistevano per generazioni precedenti alle mie; adesso invece, mi pare, che come estremo venga scelto soprattutto il secondo, cioè il “quasi niente”.

All’età dei miei genitori frequentare facoltà umanistiche era motivo di orgoglio e non di vergogna o di panico per il futuro e una laurea in lettere, in storia, in filosofia poteva sfociare non soltanto nell’insegnamento, ma anche in altre e significative carriere. Molti dei giornalisti, critici, opinionisti importanti e anche di politici hanno lauree umanistiche o in scienze politiche alle spalle ad esempio, e non tutti nascono come ingegneri, o matematici, o economisti. Ma al di là di questo, ciò che sto dicendo è che penso che il problema stia tutto in quanto lo Stato riesca a rendere appetibili questi studi anche in vista di una loro immissione nel mondo del lavoro. E se si vuole cercare di difenderli, concentrarsi solo sui dati, per quanto sia essenziale e doveroso farlo, mi sembra un po’depistante e quasi auto lesivo, inconsapevolmente controproducente, perché si potrà dire tutto quello che si vuole ma sarà dura ammettere che un letterato, oggi come oggi, guadagni più di un ingegnere o abbia pari opportunità nel trovare un lavoro adeguato alla sua formazione. Anche tirare fuori dei dati che dimostrano che in ogni caso chi ha una laurea in lettere guadagna comunque di più rispetto a un diplomato non mi sembra un ragionamento così efficace per stimolare qualcuno a non trascurare immediatamente la possibilità di seguire studi umanistici, perché sì, va bene, magari guadagnerà più che se avesse soltanto un diploma o nemmeno un titolo ma rimarrebbe comunque più attratto da una facoltà che gli garantirebbe in maniera più automatica e quasi scontata uno stipendio ben più alto, sia rispetto a quello di un insegnante sia rispetto a un qualsiasi lavoro minimamente più vicino a studi umanistici o politologici.

Secondo me se ci si concentra solo su un discorso di numeri, oggi, guardando all’impiegabilità e alla retribuzione di chi ha intrapreso studi umanistici, paradossalmente e nostro malgrado non si farebbe altro che regalare la corona di alloro a chi ha scelto di fare studi di medicina, ingegneria ecc..ed è inutile dire “eh però meglio comunque quella laurea che niente”! no, non va bene, rimane comunque un ragionamento al ribasso! Il problema invece, a mio avviso è proprio il fatto che tendiamo ad abbassare l’asticella fino alla sola soglia del sopportabile fingendo che sia un grosso vantaggio o il massimo cui poter aspirare, il meglio da aspettarsi, mentre è solo il minimo! In tal modo perpetriamo la convinzione che non si possa pretendere di ridare piena dignità e meritata legittimazione a qualcosa che invece dovrebbe pretenderle, perché questa dignità e legittimità ce le ha di per sé stessa. Non voglio che alcune persone (sempre meno) continuino a scegliere studi umanistici solo perché è comunque meglio che non avere alcun titolo, ma piuttosto perché riconoscano l’importanza e l’interesse di quegli studi, la loro preziosità, la loro indispensabilità. Ma, di nuovo, la colpa, o meglio, la causa, non è in chi ormai sceglie queste facoltà solo perché va bene avere un qualsiasi titolo piuttosto che niente e magari non si ha voglia di studiare materie che ci sembrano (ma anche questo è spesso un luogo comune) più faticose o difficili, la colpa è in uno stato che non dà pieno valore e merito a quelle facoltà e quindi non le rende abbastanza appetibili, sia in termini di ambiti e spazi (lavorativi) in cui esse potrebbero sfociare, sia in termini di retribuzione all’interno del “mercato del lavoro”. Fintanto che sarà il governo in primis a non riconoscere come risorsa fondamentale lo studio umanistico, sarà automatico che tali facoltà si svuoteranno sempre di più e che si impoveriranno, sia a livello di chi le frequenta che, di riflesso, a quello di offerta formativa, poli che vanno a creare un circolo vizioso che si “divora” vicendevolmente (detto in soldoni: se ormai io scelgo una facoltà umanistica non per reale e sentito interesse ma solo per avere un titolo considerato “più facile” non sarò così portato allo studio di quelle materie e nel momento in cui si abbasserà sempre di più il livello degli studenti che vi si iscrivono si abbasserà anche il livello preteso dai docenti che diventerà sempre più mediocre..ovviamente io parlo a livello tendenziale, per fortuna continuano a esserci menti notevolmente brillanti, ma il loro destino, spesso, per non rimaner frustrate o oscurate, e riuscire ad espandere la loro luce, ottenendo delle meritate gratificazioni – personali ed economiche – è quello di emigrare all’estero). Se non si creano ambiti lavorativi in cui il valore di queste facoltà possa non solo essere valorizzato e riconosciuto come meriterebbe, ma anche adeguatamente retribuito, come accade in altri paesi che investono molto più di noi (in cultura, ricerca, formazione..) e forniscono a queste facoltà (insieme alle altre, certo!) molti più spazi e molte più possibilità/opportunità di sbocchi, in termini di spendibilità lavorativa.

La mia impressione è che invece in Italia, tendenzialmente, qualsiasi lavoro (se poi lo si trova), più aderente a uno studio umanistico sia depresso e deprimente, frustrato e frustrante, economicamente ma anche emotivamente, sul piano della gratificazione personale, perché molto spesso accade che le menti “umanistiche” vengano subusate rispetto alle loro reali capacità, rispetto alla possibilità di espressione e di messa in pratica di queste ultime e rispetto a un tipo di impiegabilità effettivamente adeguata alle competenze in merito. Io non sto dicendo che medici, ingegneri, economisti, avvocati matematici e fisici non debbano essere adeguatamente retribuiti per il lavoro che fanno, che è altrettanto indispensabile e mai oserei metterlo in dubbio, ma non vorrei che ci fosse un abissale divario tra questi tipi di lavoro ed altri che non sarebbero poi così tanto da meno; si pensi anche solo allo stipendio di un insegnante, che, rispetto al carico di lavoro che svolge (in cui andrebbe compreso anche quello che si porta a casa!) e di responsabilità che ha, guadagna abbastanza poco; oppure si pensi a tutti coloro che vorrebbero fare ricerca o pian piano sperano di insegnare nelle università e queste ultime, a causa del problema dei blocchi del turnover, e dei continui e dissanguanti tagli che hanno subito e continuano a subire, non possono garantire quel tipo di percorso (in paesi più sani e lungimiranti si spende molto nella ricerca, visto che la vedono come una risorsa preziosa per la crescita culturale, sociale ed economica del paese stesso); si pensi a quanti di quelli che hanno fatto un dottorato in lettere, storia, filosofia ecc..che magari non sono andati all’estero rimangono frustrati o cadono in un limbo di cui non si conosce la fine.

E non deve diventare un ricatto o una costrizione il dover partire per un paese straniero in cui le mie competenze e il mio curriculum possano essere giustamente riconosciuti perché qui in Italia non li prendono in considerazione solo perché c’è scritto facoltà di lettere o simili. Il problema dunque, a mio avviso, sta nel riconoscere l’importanza della formazione umanistica senza svilirla rispetto agli studi scientifici e da qui di conseguenza renderla più appetibile anche sul mercato, ma solo aver preso coscientemente atto della sua importanza e necessità per arricchire (in tutti i sensi) il proprio paese e la propria società. Pertanto credo che, per quanto sentimentale possa apparire il discorso che mi accingo a fare, il dibattito non dovrebbe rimanere arroccato solo a numeri e statistiche (che andrebbero a mortificare ancor di più il possibile esito lavorativo di queste facoltà, secondo me), bensì dovrebbe spostarsi anche sul piano “ideologico”, su un piano qualitativo più che quantitativo. La vera forza degli studi umanistici è nella loro capacità di creare pensiero critico, analitico, riflessivo, forse maggiormente preclusa ad altre facoltà che hanno comunque altri meriti ugualmente indispensabili e preziosi. Gli studi umanistici formano coscienze critiche, esaltano il pensiero, l’anima razionale, come direbbe ancora Aristotele, che è la facoltà più alta e soprattutto l’unica che fa di noi degli esseri umani, l’unica che ci distingua dagli animali. Per Aristotele esiste un fine teleologico (un telos) in natura, che intrinsecamente, naturalmente, spinge ogni essere, ogni creatura, a partire dalle più piccole, come le piante, a mettere in atto ciò che essa ha in potenza, ciò che già essa è in germe, ciò che è nata per essere, e che è la sua caratteristica specifica, il fine specifico iscritto in essa. La sua donami/energeia, direbbe il filosofo.

E l’energia specifica, la potenzialità caratterizzante dell’uomo e quindi il suo fine, è quello di sviluppare la sua facoltà razionale, il suo pensiero, diremmo noi. Altrimenti rimane al grado di bestia o di mezzo uomo, perché non avrebbe raggiunto il suo scopo, non avrebbe messo in atto la sua dynamis, la sua capacità di essere ciò che è, non avrebbe realizzato ciò che in potenza già era. Marta Nussbaum direbbe che non avrebbe fatto fiorire la sua umanità. Non sarebbe fiorito, sbocciato come essere umano, anzi, dice lei, come persona. Ciò che fa di noi delle persone è proprio la fioritura di ciò che pensiamo, non soltanto in termini di pensiero raziocinante, scientifico, economico (il famoso Homo oeconomicus del pensiero liberale), ma un pensiero che mette a frutto e appunto fiorisca in tutte le sue infinite possibilità di applicazione. Pensiero filosofico, storico, artistico, emotivo, politico, critico..il pensiero ha uno spazio infinito di possibilità, non è unidirezionale, non è solo pragmatico, pratico, ma è entrambe le cose e gli studi umanistici, lontani dal dividere pensiero pratico e pensiero teoretico o analitico semmai offrono l’opportunità di farne il binomio migliore, perché è dal pensiero critico che può germogliare un pensiero pratico e pragmatico, è dalla messa in discussione del reale, dall’analisi dell’esistente e delle dinamiche che lo attraversano, delle strutture che si annidano dietro e dentro ai fenomeni, che si può mettere in atto delle azioni concrete, che si può operare una trasformazione o una “manipolazione” (in questo caso nel senso positivo del termine) dell’esistente stesso; è attraverso una formata capacità cognitiva e di ragionamento, da una allenata metodologia di analisi, di riflessione, di ricchezza argomentativa e di comprensione e soprattutto da una sviluppata competenza nello sviscerare i problemi per capirli al meglio, senza banalizzarli, che si può sperare di affrontare al meglio le dinamiche, i problemi e le domande cui ci mette di fronte la realtà, e poi trovare una soluzione concreta ed efficace ad essi.

È sorprendente quanto per lo più forse non ci sia resi abbastanza conto della gravità di un recente dato che è uscito riguardante l’analfabetismo funzionale, con cui, cito (da www.contropiano.org) “si designa l'incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana. Un analfabeta, […] non è capace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità […] Non è capace, quindi, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si trova a vivere.” Se si guardano le percentuali si nota in maniera allarmante direi, che – e cito di nuovo dalla medesima fonte – “il 47% degli italiani si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti ad un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione basilare. Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo.” Ecco, in questo senso secondo me è un dovere (ri)dare una piena legittimazione e un grande valore a determinati studi che contribuiscano a impedire fenomeni di analfabetismo, sia di analfabetismo funzionale che di analfabetismo di ritorno. Ed è un dovere prima di tutto istituzionale e politico perché da lì deve partire, ma bisogna poi che si affermi pienamente come dovere morale ed economico, come doverosa e imprescindibile spendibilità di simili studi nel mercato del lavoro. Un dovere anche morale e culturale che possa diffondere a livello di percezione comune l’assoluta imprescindibilità di materie che facciano germogliare le potenzialità del pensiero e le capacità di comprensione dei fenomeni del reale, che ci permettano una maggiore capacità di lettura di ciò a cui assistiamo e di ciò che viviamo, attraverso una conoscenza e una possibilità di assimilazione del nostro passato, di elaborazione e azione sul nostro presente che possano permetterci di essere più in grado di fare previsioni sul futuro o creare “visioni” e costruzioni di futuri possibili e sperabilmente più sostenibili (in tutti i sensi), rispetto a un futuro ben poco auspicabile come quello che sembra attenderci.

Le idee si partoriscono attraverso studi, letture, conoscenze che “coccolano”, stimolano e arricchiscono le nostre menti tirandone fuori le meravigliose potenzialità. Pensiero a senso unico o un'unica possibilità di applicazione del pensiero, creano visioni e riflessioni superficiali e piatte, semplicistiche e parziali. Creano coscienze vuote e sempre più povere, sempre più assuefatte allo scorrere di eventi di cui restano apaticamente e passivamente in balia, in quanto incapaci di afferrarli e di scandagliarli nella loro complessità. E più il mondo si fa complicato più è facile rimanere vittime inconsapevoli e impotenti nelle mani di chi approfitta di questa stessa complessità per manipolare la verità, perché nessuno o sempre meno persone avranno gli strumenti adeguati per capire quale sia effettivamente la verità, o per lo meno assumere che possano esistere concezioni/visioni del mondo (weltanschauungen) diverse o alternative all’unica che ci viene proposta e “iniettata”e che risulta sempre più automatico introiettare senza reale cognizione di causa. Pian piano perderemo la capacità di mettere in discussione ciò che ci viene detto, ci limiteremo a diventare spettatori passivi che non si faranno domande su quello cui assistono prendendolo solo o per del tutto buono o per del tutto cattivo, ma senza cercare alternative, senza realmente sapere cosa stiamo guardando. Prima ancora però delle facoltà umanistiche (o delle facoltà in generale) è la scuola che prima di tutto ha la suprema possibilità e responsabilità nell’aprire le menti, nel creare cervelli pensanti, nel far germogliare idee e interessi. Ed è allucinante che ogni riforma sulla scuola non abbia fatto altro che devastare, dissanguare e fare a pezzi (attraverso tagli scriteriati e indiscriminati, economici ma anche di materie scolastiche e personale didattico e ATA, sforbiciate in qua e in là, stipendi ai limiti, maestri unici, tre più due, sis, poi tfa. pas, concorsone..che non si capisce più niente ecc, ecc..) una delle istituzioni fondamentali e fondanti della nostra società, fino a darle il colpo di grazia con l’ultimo ddl scuola. Questo ultimo ddl rientra molto nel discorso che facevamo prima, ovvero di ragionare solo in termini di mercato del lavoro, che è doveroso prendere in considerazione, ma non se prima non si è presa consapevolezza dei meriti tangibili e intangibili di materie umanistiche (nel discorso di prima) o di un’istituzione come quella della scuola, il cui scopo non tanto o comunque non solo quello di creare futuri lavoratori, ma anche futuri pensatori. Fare di una scuola un’azienda nella mani del dirigente scolastico non rispecchia questa essenziale funzione della scuola. Farne una struttura così verticistica rischia di mortificare proprio il principale spazio di scambio di idee, di compartecipazione democratica, di pluralità di visioni, di ricchezza di insegnamento. È molto pericolosa, ad esempio, tra le altre cose, la figura manageriale che diverrebbe quella del preside per come è prevista nella legge 107/2015. Ogni scuola rispecchierà la visione che di essa ha il suo preside, ne sarà il suo riflesso. Certo, nei casi di un preside aperto al confronto e al dialogo, con docenti o anche studenti, la concezione della sua scuola sarà frutto di una condivisione e di una discussione plurale. Ma cosa succederebbe nel caso di un preside fascistoide per niente aperto al confronto con le altre forze che sostengono questa istituzione? È vero, in altri casi potrebbe invece trattarsi di un preside illuminato con un’idea di scuola fortemente positiva e condivisibile, ma è il principio che è sbagliato, perché alla radice c’è un’idea non più democratica della scuola ma preoccupantemente verticistica e gerarchica. Così come è altrettanto rischioso il “bonus” ad alcune scuole, che contribuirebbe a reiterare, riproducendole tra le diverse scuole, fratture e cesure già esistenti a livello di società.

Ad ogni modo, senza entrare nei punti specifici della “Buona scuola”, la mia impressione, a livello complessivo, è che questa riforma non faccia che creare una scuola/azienda che è la riproduzione in piccolo dell’attuale governo: struttura verticistica che parte dal potere dell’uomo solo al comando e che scende a grappolo verso le strutture via via inferiori ma annullandone la forza e la possibilità di partecipazione democratica; uno spazio omogeneo che cancella l’identità dei propri membri anonimizzandoli e omologandoli all’unico pensiero, all’unica visione, all’unica opinione possibile, che è quella del capo/padrone/manager/dirigente; uno spazio che anziché prendere forza anche e proprio attraverso la pluralità di idee di coloro che vi partecipano assorbe quest’ultima in un’unica voce unisona, giusta o sbagliata che sia, ma comunque unica mirante a soffocare qualsiasi altra voce che osi anche solo minimamente stonare o discordare dal coro; uno spazio che va a riprodurre i divari drammatici che spaccano la nostra società, anziché conciliare e provare a ricomporre quelle fratture creando un equilibrio più sostenibile, una giustizia più equa e anche una più equa distribuzione di opportunità per le diverse parti in gioco. Uno spazio pensato in questo modo va anzi ad esasperare e mettere sempre più in conflitto queste stesse parti, riproducendo quindi anche all’interno del mondo della scuola una preoccupante iniquità e una tensione conflittuale ed esasperata, simili a quelle che si continuano a perpetrare nel mondo del lavoro o nei contesti sociali in generale.

Domenica, 30 Agosto 2015 00:21

50 anni fa, la morte degli italiani a Mattmark

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La memoria non è altro che una costruzione umana. Niente di istintivo. Scegliamo cosa ricordare, nei limiti del possibile, o altri scelgono per noi i punti di riferimento da individuare nel passato.

Il 30 agosto 2015 offre l’occasione per ricordare il cinquantesimo anniversario della tragedia di Mattmark, quando morirono 88 lavoratori, tra cui 56 italiani. Una grande opera svizzera, per far fronte alla crescita economica del Paese, a cui serviva energia, che su suolo elvetico è principalmente di natura idroelettrica.  

Lo scorso 29 giugno Palazzo Strozzi ha aperto le porte a un illustre ospite, venuto d’Oltralpe: il filosofo Jacques Rancière che, nella Sala Altana, ha discusso di “Modernità e finzioni del tempo”. La conferenza è stata promossa dall’Institut Francais Italia, in collaborazione con la Scuola Normale di Pisa, il Gabinetto Viessisux e il Gruppo Quinto Alto, nell’ambito della rassegna di presentazioni e seminari “Prospettive critiche”.

Dopo i dovuti ringraziamenti portati dalla Presidente dell’Istituto francese, Isabelle Malèse e del Gabinetto Viessieux, e dopo un breve contributo del professor Mario Citroni, ha preso la parola, per introdurre il prestigioso ospite, il professore di Estetica presso l’Università di Macerata Paolo Godani, moderatore della serata.

Giovedì, 09 Luglio 2015 00:00

La grande menzogna

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È possibile raccontare la Prima Guerra Mondiale togliendosi gli occhiali della retorica? Di ogni retorica?
È ciò che hanno provato a fare i due giornalisti Valerio Gigante e Luca Kocci e lo storico Sergio Tanzarella nel loro “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale” (Dissensi, 2015, 162 p., € 13,90).

Venerdì, 26 Giugno 2015 00:00

Confini

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Da sempre i confini hanno segnato una demarcazione tra un territorio e un altro, tra il “mio” e il “tuo”. Tra ciò che è amico e ciò che rappresenta un nemico o una minaccia. Si sono fatte guerre per la difesa dei confini, per allargarli o restringerli. Li abbiamo incisi sulle cartine, sulle prime mappe, li abbiamo ridisegnati a tavolino, li abbiamo esasperati costruendo muri. Ma il confine non designa solo un limite territoriale, bensì mentale e ideologico. Entro i confini si radica e si potenzia la nostra identità. Entro i confini del mio paese è inscritta la mia storia. Entro i confini del mio corpo avverto di essere io e non un altro.

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