Martedì, 25 Ottobre 2016 00:00

Prisondipidity: i limiti della ricerca qualitativa in carcere

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Di carcere in Italia si parla sempre troppo poco. È raro che le condizioni, gli avvenimenti e la gestione del sistema carcerario risalgano la china della cronaca quotidiana (eccezion fatta forse quando a pronunciarsi e l’Unione Europea) ed ancora più raro è che si parli delle difficoltà che deve fronteggiarsi chi deve o decide di confrontarsi con questo.

È stato proprio questo il punto di partenza nel corso della conferenza Prisondipity, organizzato al Polo delle Scienze Sociali di Novoli dal Piccolo Opificio Sociologico. A partire dalla presentazione dell’ultimo numero della rivista Etnografia e Ricerca qualitativa (vedi qui), nel quale è stato pubblicato un contributo dal titolo Il carcere oltre il carcere (vedi qui) di Mario Venturella e Alessio di Marco (due membri dell’associazione) i presenti all’iniziativa hanno avuto l’opportunità di assistere ad un’interessante discussione su quali siano i limiti con cui deve misurarsi chi decide di fare ricerca in carcere.

I due curatori del numero della rivista, Alvise Sbraccia e Francesca Vianello, hanno delineato un quadro che difficilmente può essere definito roseo. I due ricercatori, che si occupano del tema da decenni (anche all’interno dell’Associazione Antigone) hanno innanzitutto evidenziato come il primo limite da prendere in considerazione sia quello dell’approccio di carattere prevalentemente (se non esclusivamente) emergenziale che caratterizza l’intervento delle istituzioni quando si parla di carcere. Come avviene anche per la questione dei migranti, le istituzioni sembrano approcciarsi al problema della gestione carceraria solo partendo dal problema del sovraffollamento. Ciò è dovuto, a detta dei due sociologi, da una parte all’impianto istituzionale-normativo italiano che lega le istanze carcerarie alle prerogative presidenziali (come avviene per l’amnistia o per la concessione della grazia, che passano dal Presidente della Repubblica) e dall’altro dal sollevare, a seconda dei momenti, la questione umanitaria ad opera della forte componente cattolica che costituisce una parte fondamentale del mondo del volontariato in carcere in Italia. Gli ultimi governi sembrano avere intrapreso una strada per la quale il sovraffollamento carcerario viene trattato con modalità più complesse ed organiche rispetto alle emergenziali degli ultimi decenni (in ciò hanno avuto ovviamente un ruolo fondamentale l’indulto del 2006 e la sentenza Torregiani del 2013, con cui l’Italia è stata condannata dalla CEDU per i trattamenti degradanti a cui erano sottoposti 7 detenuti delle carceri di Busto Arstizio e Padova).

Altro problema che deve affrontare chi si occupa di carcere è quello per il quale, per quanto il sistema penale e di gestione carcerario, sia unico e regolato da leggi nazionali, ogni carcere costituisce una monarchia a sé. Una monarchia dove vigono leggi e regole peculiari, siano queste regolamenti carcerari interni o regole non dette a cui però deve adeguarsi chiunque varchi la soglia della struttura. Questo porta, ovviamente, ad avere enormi disparità, non solo di condizioni, tra una struttura e l’altra.

E questo punto ci traghetta direttamente ad un altro elemento: quello del ruolo che hanno i “buoni esempi”. Capita spesso infatti che quelle che sono considerate eccellenze carcerarie (una su tutte quella di Bollate) siano piuttosto mere eccezioni. Da una parte perché vengono considerate un punto di arrivo, troncando lo stimolo al continuo miglioramento che dovrebbe invece accompagnare la gestione di un sistema complesso come quello carcerario; dall’altra parte perché, con molta ipocrisia, si tende a omettere che se esistono esempio come Bollate è perché il sistema lo permette. Se, ad esempio, il carcere di Bollate conta altissime percentuali di detenuti impiegati in mansioni lavorative, è perché nella regione del Triveneto continuano ad esistere carceri che altro non sono posti con un numero di detenuti per cella al di fuori di ogni normativa o istituti di massima sicurezza nei quali ai detenuti è negata qualsiasi libertà.

Solo uscendo dalla logica emergenziale che porta all’analisi della situazione carceraria sulla base di riferimenti normativi “normalizzati” e entrando nell’ottica che anche un sistema in cui esistono delle eccellenze richiede un’evoluzione ed un miglioramento continui, potremmo arrivare ad affrontare la questione con un approccio degno di una democrazia rodata. Solo andando in questa direzione, infatti, sarà possibile prendere atto e risolvere le grosse divisioni che si creano, gioco forza, all’interno di ogni carcere-monarchia: dalla suddivisione etnica o di classe che è riscontrabile in molti istituti, agli abusi di potere che troppo spesso si verificano per arrivare, ad esempio, ai grossi problemi di permeabilità alla società civile e al mondo esterno.

Ultima modifica il Lunedì, 24 Ottobre 2016 16:54
Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

Cit.

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