Sabato, 20 Gennaio 2018 00:00

I fatti insegnano

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Nella serata di venerdì 12 gennaio scorso l’assemblea lombarda degli aderenti a Libere/i e Uguali ha votato quasi all’unanimità (notabene) in quel di Cinisello Balsamo una partecipazione alle elezioni regionali separata dal PD. Molto opportunamente nei giorni precedenti erano venute meno le pressioni dal lato nazionale orientate invece all’accordo, ovviamente sulla base di una convergenza dei programmi. Tra i motivi dell’unanimità c’è stato anche, palesemente, il fastidio di compagne e compagni per il modo di queste pressioni, avendo esse sistematicamente evitato un confronto aperto a Milano o altrove in Lombardia tra figure nazionali e l’assemblea degli iscritti lombardi, o i loro delegati, benché continuamente da essi sollecitato. Non è vero quel che scrive il quotidiano del PD renziano e liberal-liberista la Repubblica, che dal lato nazionale non siano state assunte rivolte critiche e sollecitazioni ai lombardi, dato il loro evidente rifiuto dell’alleanza con Gori: tutt’altro. Accenno a tutto questo non per motivi polemici, oggi non solo inutili ma suscettibili di immettere code sgradevoli nel terreno più che necessario del riconsolidamento di reciproci rapporti di fiducia: ma perché è necessaria una discussione su cosa debba validamente comportare il ruolo dirigente. Nessuno, che io sappia, in Lombardia intende contestare quello attuale: anzi richiede che esso sia effettivamente dirigente, nei modi di esercizio di tale ruolo, inoltre perché allargato a quadri locali, a giovani, a donne, a figure di lavoratori dipendenti, ecc. È chiaro che tra i difetti che abbiamo vissuto c’è che il gruppo dirigente è tuttora, sostanzialmente, maschile e costituito da parlamentari.

Ovviamente, dato il modo del confronto, era inevitabile che il suo sbocco fosse o il rifiuto delle richieste di unità elettorale con il PD nelle elezioni lombarde o la resa non convinta del corpo militante lombardo alle richieste centrali. Per fortuna di tutti il risultato è stato il primo: il secondo avrebbe significato lo sbandamento, la passivizzazione, anche l’allontanamento di parte significativa della militanza. Un confronto aperto e democratico avrebbe potuto, al contrario, portare addirittura a consentire alla richiesta di accordo con il PD. La militanza lombarda è fatta di gente normale, non di militanti armati orientati all’insurrezione. Molti di essi si sono chiesti se le richieste nazionali fossero il risultato di elementi di fatto e di ragionamenti che non sapevamo. Insomma c’era la massima disponibilità a ragionare e anche a farsi convincere, certo in presenza di buoni argomenti. Il fatto è che non ce ne sono stati trasmessi. Era intuita da parte lombarda la complessità della questione, data una regione governata da una destra semifascista, razzista, ultraliberista, erede del blocco sociale-affaristico democristiano egemonico nelle parti settentrionale e orientale della regione, forte di un’area di cooperative che raccoglie 300 mila persone, ecc. Ciò che tendeva a escludere l’alleanza elettorale con il PD non era un ragionamento di principio, settario, ma la figura di Giorgio Gori: la sua sindacatura di Bergamo ha provveduto alla privatizzazione della totalità dei servizi pubblici, con l’effetto sia di una loro minore qualità e della loro costosità, sia del maggiore sfruttamento dei loro addetti, dell’abbattimento delle loro retribuzioni, del loro largo passaggio alla condizione di precari. Non è vero che non ci sia stata discussione nel merito di programmi e obiettivi tra, soprattutto, Articolo 1-MDP e PD, o che la questione posta da Articolo 1-MDP sia stata ossessivamente quella delle primarie. Le discussioni ci sono state, ed esse hanno semplicemente constatato una distanza siderale in sede di obiettivi sociali.

Non sarebbe onesto ignorare in questo scritto per ragioni di galateo quanto abbia concorso al rifiuto lombardo anche il fatto di ben tre mesi persi a convincere Giuliano Pisapia a diventare di sinistra, quando sarebbero bastate tre settimane per accertare che proprio non ce la faceva. Certamente fuori dall’area larga milanese la possibilità di acquisire Pisapia alla nostra partita politica poteva risultare molto interessante: ma a Milano abbiamo vissuto cinque anni di sindacatura Pisapia all’insegna della più totale indifferenza sul piano delle questioni sociali, del totale rifiuto di mantenere gli impegni presi con le periferie, del totale rifiuto di trattare con i sindacati la condizione dei precari a vita delle locali pubbliche amministrazioni. Non è un caso che sei anni e mezzo fa a Milano le periferie votarono tutte centro-sinistra, un anno e mezzo fa votarono tutte centro-destra e si rischiò di perdere il comune. Queste cose furono notificate da subito al quadro dirigente di Articolo 1-MDP; forse non ci credette, forse ritenne esagerate le relative argomentazioni. Sia come sia, non ci fu alcun confronto. Chiusa la questione Pisapia istantaneamente arriverà la questione Gori. La reazione non poteva non essere anche di un certo fastidio. La povera Lombardia ha quindi subito nel periodo dal febbraio scorso al 12 gennaio, cioè lungo l’intero periodo di vita di Articolo 1-MDP, un tormentone che ne ha frenato il processo organizzativo, bloccato nell’estate e poi rallentato il reclutamento, ecc.

Né sarebbe onesto ignorare il fastidio estremo del combinato disposto tra rifiuto del confronto e continua lettura o ascolto delle dichiarazioni ai media insistenti sulla necessità, in quanto “sinistra di governo”, di acquisire Pisapia o di allearsi con Gori. Come già scritto, in Lombardia non siamo orientati all’insurrezione. Nemmeno, però, a pateracchi privi di contenuto, anzi controproducenti nel rapporto a quelle classi popolari e a quelle situazioni di sfruttamento e di disagio che vogliamo rappresentare.

Situazione drammatica? Per niente. Intanto perché i lombardi sono paciosi per natura. Poi perché, in ultima analisi, queste vicende possono rappresentare un buon insegnamento per tutti. Infine perché ci danno un’indicazione importante. Articolo 1-MDP è sorto grazie all’ iniziativa lungimirante di un pezzo di gruppo parlamentare del PD (che sia benedetto), ed è grazie a quest’iniziativa che è stato possibile portare avanti un tentativo serio di ricomposizione della sinistra, Libere/i e Uguali. Ma il fatto stesso di tale successo ci impone il passaggio (subito dopo le elezioni, va da sé) a una forma superiore di gestione, anzi di strutturazione complessiva, più simile a quella di un partito, dunque più democratica, più davvero partecipata dalla militanza, ecc. Personalmente penso che ciò avverrà. I fatti insegnano.

Ultima modifica il Venerdì, 19 Gennaio 2018 10:30
Luigi Vinci

Protagonista della sinistra italiana, vivendo attivamente le esperienze della Federazione Giovanile Comunista, del PCI e poi di Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista. Eletto deputato in parlamento e nel parlamento europeo, in passato presidente e membro di varie commissioni legate a questioni economiche e di politica internazionale.

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