Un tempo “società civile” e società politica erano realtà coincidenti, la “società civile” era intesa come superamento dello “stato di natura”, “civile” era in questo caso classicamente opposto a “barbaro” e con “civilizzazione” si indicava il percorso che portava ad una condizione superiore di convivenza sociale da realizzarsi attraverso la politica e lo Stato.
Era il tempo in cui il “vivere civile” (ovvero tipico del cittadino) veniva opposto al “vivere rustico, al “vivere cortigiano” e al “vivere servile”.
Con Jean Jacques Rousseau si opera una differenziazione non di poco conto, il concetto di “società civile” viene separato e distinto dalla società politica, definendo la prima come una realtà caratterizzata essenzialmente dalla proprietà privata.
Marx successivamente definisce come propria della società borghese la separazione permanente fra Stato e “società civile” quale conseguenza del regime economico imperante, denunciando l’ipocrisia (tutta borghese) per cui a fronte di un’uguaglianza formale, giuridica e politica, assicurata dallo Stato si contrappone una “società civile”, nella quale le leggi dell’economia capitalista determinano condizioni di evidente diseguaglianza, non solo nella distribuzione dei beni, ma anche nella capacità di determinare le scelte della stessa società politica (lo Stato).
Infine per Gramsci la “società civile” è il luogo in cui si svolge lo scontro per l’egemonia e la conquista del consenso in contrapposizione allo Stato inteso come espressione di forza autoritaria.
Il pensiero liberale ha fatto dell’apologia della “società civile” un dogma da contrapporre all’invadenza dello Stato, soprattutto nei fatti economici e sociali, concetto riassunto nell’affermazione: “meno Stato e più mercato”.
L’esaltazione della “società civile” è un concetto tipico della destra, liberale, conservatrice o populista che sia, non a caso ne sono (o ne sono stati) fautori personaggi come Ronald Reagan, Margaret Thatcher, Pierre Poujade, Guglielmo Giannini o formazioni politiche come il Tea Party americano, l’Ukip britannico, il Partito del Progresso norbegese, il Partito della Libertà olandese; per tutti costoro lo Stato avrebbe dovuto assumere un solo ruolo: quello di garante dello stato di cose esistente, lasciando alla “società civile” (al mercato) la totale regolazione dei rapporti sociali.
Solo in Italia, paese di santi, poeti, navigatori e... professoresse, l’apologia della così detta “società civile” poteva trovare degli estimatori e dei fautori a sinistra!
Nel paese che ha inventato la Commedia dell’Arte e la Commedia all’Italiana, dove i comici fanno politica e i politici si producono in sketch comici, dove finanzieri e industriali si atteggiano a benefattori, dove fare i liberi pensatori in città e i bacchettoni in campagna è considerata alta politica, non potevamo farci mancare quest’ultima perla: una sinistra tutta professorale che esalta la “società civile”, chiamandola talvolta “cittadinanza attiva” o “ceto medio riflessivo”; aggiungendo ai pensatori di “noattri” l’apporto di esimi filosofi che discesi dal brumoso Nord ancora non si sono completamente snebbiato il cervello al sole della Toscana.
Naturalmente tutti costoro si sono autoproclamati legittimi rappresentanti della “società civile”, ovviamente senza passare dal gioco autoritario di congressi, discussioni, votazioni e altri metodi antiquati, tipici della odiata forma partito, metodi che come è noto possono determinare che un rude e incolto lavoratore possa essere preferito dalla massa ignorante e irreggimentata ad un colto e fine intellettuale.
Altrettanto naturalmente la “società civile” è completamente all’oscuro di averli come propri rappresentanti, frutto evidente della “congiura della partitocrazia”.
Recentemente ad una riunione di rappresentanti della società civile, accanto a questioni importanti e serie da approfondire (è doveroso riportarlo) è stato indicato come obiettivo da conseguire quello di “… praticare una felicità collettiva, anche grazie alla politica”.
A parte che Thomas Jefferson si era limitato al “diritto alla ricerca della felicità”, rimane difficile stabilire come un programma politico o amministrativo possa conseguire tale obiettivo: istituendo forse un assessorato ai cuori solitari.
La verità è che la promessa della “felicità” è una di quelle che si fanno sapendo in partenza di non poterla mantenere, un po’ come il “milione di posti di lavoro” di Berlusconi, una promessa però evocativa di luminoso avvenire, capace di raccogliere ampi consensi (chi è che può essere contro la “felicità”), ma del tutto priva di risvolti concreti, cioè del tutto priva di senso politico.
Noi che siamo tuttora con i piedi nel Novecento, ovvero ben piantati per terra, che crediamo ancora nel concetto di classe e non in una indistinta e interclassista “società civile”, vogliamo essere pratici, al limite prosaici, e parlare non di una generica “felicità”, che è raggiungibile anche attraverso l’assunzione di sostanze naturali o artificiali, bensì di lavoro, salario, casa, sicurezza sociale, scuola pubblica e laica, trasporto locale, acqua pubblica, ecc, ecc, ecc.
Su questi argomenti, che pure sono stati trattati nella riunione citata, siamo disponibili al confronto con tutti, ma per favore non trascinateci in una discussione inutile e metafisica, forse possibile in qualche accademia, ma del tutto inutile e inopportuna per avviare rapporto con 360.000 (trecentosessantamila) fiorentini e cercare di trovare risposte ai loro problemi.
Ai rappresentanti della “società civile” va comunque il nostro più sincero ringraziamento per averci regalato nel grigiore della vita quotidiana un attimo di buonumore e di allegria, che possono essere intese anche come condizione di “felicità collettiva”.
Immagine tratta da: www.innovatorieuropei.org